Posts written by serotonin/

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    Ruoli nuovi quelli che stavano interpretando. Non si stagliavano più sulla difensiva perchè spaventati da quel che il futuro avrebbe potuto riservare loro, o per la potenza di quei sentimenti che avevano il timore di accettare e capire. Si accoglievano, silenziosamente, con una complicità innata e maturata, come loro.
    Si parlavano con sguardi rumorosi, mentre le loro labbra restavano serrate.
    Arricciò il naso a quel signora Hollingsworth, in una smorfia di finto disappunto. La vecchia Helena avrebbe sputato su qualsiasi tipo di legame canonico, ma da quando Mason era entrato a far parte della sua vita, molte delle sue certezze e delle sue convinzioni erano crollate e cambiate. Forse in definitiva pensarsi accanto ad una stessa persona, a lui, per tutta la vita, aveva smesso di farle una paura così matta.
    «Evidentemente dopotutto ti sei fatto qualche amico qui dentro.» Commentò in riferimento a quel che gli era accaduto. Qualcuno aveva deciso di spifferare tutto al direttore del carcere che non aveva potuto fare a meno di aprire un’inchiesta. L’avvocato che Helena pagava profumatamente aveva quindi approfittato di quell’inghippo per poter fare richieste sulla libertà di Mason. Cosa il fortuito testimone volesse in cambio, o meglio quanto, era un dettaglio di cui non avrebbe parlato con il ragazzo in quel momento.
    «C’è un testimone che ha raccontato tutto.» Aggiunse poco dopo, guardandolo speranzosa che quella notizia potesse renderlo felice quanto in fondo rendeva felice lei. Vivere divisa tra il mondo reale e quella prigione, era diventato estenuante. Teneva duro perchè convinta che una volta finito quell’inferno, tutto sarebbe stato diverso e loro avrebbero potuto viversi in maniera tutta nuova.
    Gli diede una leggera spintarella sul braccio, facendo bene attenzione a non sfiorare le ferite che riportava. «Un vero santo. Ti manca giusto l’aureola.» Anche se non lo avrebbe ammesso con metodi convenzionali, era fiero del percorso che Mason aveva intrapreso. La prigione paradossalmente gli aveva dato modo di scegliere il percorso che più gli piaceva, liberandosi dei costrutti di cui per anni era stato vittima. Si augurava che sarebbe stato capace di tener fede alla propria libertà anche al di fuori di quella struttura.
    Gli sorrise appena a quella constatazione, facendogli poi una smorfia per smorzare il momento romantico. Non c’era bisogno di dirsi quanto provato, e quanto profonda fosse la sofferenza provata nel saperlo lontano. Era qualcosa che si era ripromessa di non fare per mantenere alto l’umore di entrambi.
    «Io sto bene.» Rispose dopo qualche istante di silenzio. «Ma starò meglio se ti sbrighi ad uscire da qui.» Aggiunse poco dopo, sbuffando poi mentre portava dietro l’orecchio una ciocca ribelle. «Anche perchè questo posto mi fa dire cose che non direi mai, e ne va della mia reputazione, lo sai.» Cose che Helena Haugen di qualche mese fa non avrebbe mai pensato di dire a nessuno, perchè il suo personaggio non glielo avrebbe concesso.
    Si guardò attorno, assicurandosi che nessuno la guardasse, prima di decidere di punto in bianco di salire su quel letto e piazzarglisi accanto senza chiedere alcun consenso.
    La testa poggiata sulla sua spalla, le gambe distese ed incrociate. E per un attimo, ad occhi chiusi, si rilassò in quel contesto che aveva quasi dimenticato, immersa in quel calore che in quei mesi aveva solo potuto immaginare e ricordare.
    «Ho portato questa.» Disse dopo una pausa, mentre estraeva dalla tasca della giacca indossata, una lettera spiegazzata. Sulla busta piegata, un logo: Royal Ballet.
    Si rendeva conto di essere arrossita per il calore sentito sulle guance, ma provò ad ignorarlo. Gli porse la lettera imponendogli quasi di afferrarla, come se non volesse nemmeno vederla. «Non so nemmeno perchè ho provato il test di ammissione. In realtà non mi interessa davvero quel che c’è scritto.» Si era sentita ridicola a provare quel nuovo viaggio mentre Mason viveva la parentesi più buia della sua esistenza, ma aveva sentito l’esigenza di ballare in quel periodo, di riprovarci. Così, quando aveva saputo delle audizioni, si era buttata. Il senso di colpa poi le aveva impedito di aprire quella lettera una volta ricevuta. Forse anche la paura di leggerci una nuova delusione. «Vuoi leggerla tu?»



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    Era successo tutto in un attimo. Gli auror avevano fatto irruzione in mezzo alla strada affollata di Diagon Alley e li avevano accerchiati. I ricordi si affollavano confusi nella sua mente, ma tra le immagini sovrapposte, spiccava tra tutte l’immagine delle catene intorno ai polsi di Mason e l’irruenza con cui lo portavano via da lei senza sapere nemmeno il motivo. Quello lo avevano scoperto in seguito, al processo. Vecchi reati cadevano sul capo di Mason, colpe di cui non poteva liberarsi perchè ne era effettivamente fautore. Atti, talvolta osceni, di cui si era macchiato per conto d’altri e forse, Helena l’aveva sospettato fin da subito, per conto d’altri ora era costretto a scontare da un anno e più di reclusione. Helena non aveva accusato apertamente il suo patrigno per quel misfatto, ma più di una volta aveva dovuto reprimere il desiderio di presentarsi nella sua immensa villa ad Hogsmeade, per renderlo zoppo anche dell’altra gamba.
    Un gesto che, per quanto liberatorio, non avrebbe aiutato Mason che avrebbe dovuto scontare da solo la prigionia in un posto orrendo. Gli era stata risparmiata Azkaban a causa delle sue accuse ma la durata della sua pena si era protratta da nove mesi a un anno e forse la pena avrebbe potuto allungarsi. Tutto stava a Mason e alla sua buona condotta. Un pensiero che angosciava Helena non di poco.
    Quegli ultimi nove mesi li avevano trascorsi adeguandosi a quel nuovo equilibrio che stava stretto ad entrambi. Mason dietro le sbarre, Helena fuori ad affaccendarsi tra mille e più cose, persino un lavoro, per portare avanti la causa di Mason e farlo seguire dal migliore avvocato potessero permettersi.
    Le visite, prima settimanali, si erano fatte meno frequenti per gli impegni e il timore di vederlo star male. Si era aggiunto a questo la presenza opprimente di Lorence nella stessa struttura, un problema che per quanto secondario, non smetteva di tormentare Helena col cruccio che qualcosa di peggio sarebbe potuto accadere sul serio.
    Ed era poi accaduto sul serio.
    Quando dalla prigione era arrivato il gufo del ricovero di Mason in infermeria, il cuore le si era fermato. Aveva lasciato il pub in cui lavorava per correre da lui. Le avevano concesso di vederlo soltanto il giorno a seguire, dopo aver passato la notte nella fredda sala d’aspetto della prigione in cui sarebbe dovuta entrare.
    Non le avevano voluto dire cosa fosse accaduto. Avevano parlato di un incidente, che mal combaciava con le ferite che le avevano elencato avesse riportato. Non ci sarebbe voluto un detective a capire cosa fosse accaduto. Una rissa, o forse più probabile, un agguato. Non le sarebbe stato nemmeno difficile immaginare da parte di chi, sebbene si impegnasse a nascondere il timore di quel presentimento.
    Quando era entrata nella stanza, Mason era ancora dormiente. Il cadenzato rumore dei suoi parametri riempiva il silenzio in cui era immerso, alimentando l’ansia della Haugen.
    Gli si avvicinò, guardando il suo volto segnato e le bende che gli coprivano il busto.
    Solo pochi mesi prima avrebbe dato di matto, ora cercava di tenere salda la sua pazienza per mostrarsi forte. Per lui.
    Rimase al suo fianco in silenzio. La mano stretta nella sua e gli occhi lucidi a fissarlo. Quando finalmente aprì gli occhi le sembrò di poter tornare a respirare. Avrebbe sorriso se non fosse stata troppo oppressa dall’angoscia provata. «Cominciavo a pensare avessi bisogno del bacio del vero amore per svegliarti.» Sussurrò dopo qualche attimo, nel tentativo di smorzare fin da subito i toni. «Ero pronta a sacrificarmi in ogni caso.» Scherzò, piegando il capo, stringendo inconsapevolmente di più la sua mano.
    Distolse lo sguardo per un secondo, respirando profondamente. «Questa potrebbe essere una buona cosa comunque, secondo l’avvocato. Il tuo ricovero intendo. Dice che può far valere al meglio le sue ipotesi e magari così convincere il wizengamot a farti uscire prima. Ovviamente questo significa che dovrai startene buono senza fare stronzate.» Parlò velocemente, quasi senza prender fiato, nascondendo - senza riuscirci - l’ansia provata. Saperlo lì lontano da lei e in balia di mille e più pericoli, le toglieva il sonno e qualsiasi briciolo di serenità. «Non le farai vero?» Lo guardò a quel punto, pronunciando quelle parole con lo stesso tono di una supplica. Lo era in definitiva. «A Pinky manchi.» Mancava a lei.



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    Avrebbe potuto ribattere ad ognuna delle sue parole, cominciare una guerra di parole che non li avrebbe condotti a nulla. Ormai conosceva ogni sua mossa, anche quelle non fatte ed era certa che nessuna delle parole che avrebbe potuto dirgli in quel momento, avrebbero fato modo di dissuaderlo dai suoi obiettivi. Non era in ogni caso quello il fulcro principale della questione. Non aveva la benchè minima idea, tuttavia, del modo più giusto per riempire il vuoto che occupava il petto di Mason. Scoprire di essere stati vittime di bugie per tutta la vita, era terribile ed Helena capiva perfettamente il suo stato d’animo. Aveva capito, e forse in realtà stava ancora cercando di farlo, che l’unico modo per trovare sollievo a quel dolore, era darsi il tempo di metabolizzare. Sbagliare magari, ma avendo pazienza. Lasciando che il tempo riuscisse in qualche modo, non a curare, ma a smussare gli angoli di quella sofferenza creduta ingestibile.
    In qualche modo Mason avrebbe trovato il modo di rinsavire da quel buco nero in cui le menzogne lo avevano tirato giù, e ne sarebbe uscito. A lei spettava solo avere pazienza con lui, e dargli la forza che avrebbe sentito mancare quando il peggio sarebbe arrivato.
    Strinse la sua mano, spingendo la tempia contro la sua, in una carezza muta e forse anche un po’ buffa. Nel guardarlo in quello stato, i suoi occhi si fecero lucidi.
    Era spaventata per quel che tutta quella questione avrebbe potuto causare in Mason, e cosa quello lo avrebbe spinto a fare. Più di ogni altra cosa, però, era in pena. Amare così profondamente qualcuno significava sentire a fondo le sofferenze dell’altro, soprattutto quando sembrava non esserci alcun modo di lenirle.
    Posò un bacio delicato sulle sue labbra. «Lo posso fare solo se lo prometti anche tu.» Si sarebbe impegnata a mantener fede a quella promessa se Mason avrebbe fatto lo stesso, perchè altrimenti non ci sarebbe stato alcun motivo per continuare a vivere. In quegli anni nessuno era stato in grado di tenerla in vita come aveva fatto lui. Le aveva fatto conoscere il mondo, le aveva tenuto la mano quando il mondo si era fatto cattivo. Non avrebbe permesso a nessuno di portargli via l’unico vero legame creato in tutta la sua vita. L’unica persona che era stata capace di amare. «Sei la mia famiglia.» Un dato di fatto. L’unico di cui avesse assoluta certezza.



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    Gli lanciò uno sguardo accigliato in risposta al suo sminuire le ferite riportate. «Certo, ed io sono alta un metro e novanta.» Provò a scherzarci su, ma l’umore di Mason non sembrava essere affatto predisposto a quel tipo di ilarità. C’era qualcosa nel suo sguardo, nel modo in cui irrigidiva le spalle, che la preoccupava. Aveva già visto Mason in umori pessimi, ma mai in quelle condizioni. Le sembrava, e sperò di sbagliarsi, che fosse sul punto di cadere e rompersi. Qualcosa doveva essere successo tra lui e suo cugino, e doveva capire al più presto cosa, così da poter essergli d’aiuto.
    Quando cominciò a parlare, tutto fu velocemente più chiaro.
    Aveva scoperto la verità di cui necessitava, e come ogni ricerca del vero, aveva ottenuto una delusione. Ora le stava di capire quanto grande fosse.
    « Come?» Gli chiese ancor prima di conoscere tutti i dettagli. Afferrò poi la foto che l’altro gli porgeva, aspettando spiegazioni per dare un senso a tutto quello.
    Quando le raccontò di come apparentemente fossero andati i fatti, e di chi realmente ci fosse dietro la perdita della sua famiglia, non riuscì a trattenere uno sguardo sorpreso e colpito.
    «Tuo… » Suo padre. L’uomo che per anni aveva cercato di rendere orgoglioso, l’uomo per cui si sarebbe fatto uccidere senza batter ciglio, era l’uomo che aveva ucciso la sua reale famiglia.
    Si morse il labbro inferiore, rimettendosi velocemente seduta composta. Cosa avrebbe potuto dire a quel punto per rendere la sua pena meno drammatica? Forse nulla.
    Non poteva capire come realmente potesse sentirsi in riferimento ad una realtà così oscena. Sapeva bene però com’era vivere un’ingiustizia passata inosservata sotto gli occhi di tutti. Conosceva bene il malessere provato in situazioni diverse certo, ma comunque simili e tutto ciò che poteva offrirgli era quel che lui aveva dato a lei nei momenti peggiori: la sua presenza. Gli si avvicinò senza remore, afferrando una sua mano tra le sue. La strinse cercando di infondergli coraggio con quel contatto e calore. L’altra mano si poggiò alla sua guancia, cercando dolcemente di indirizzare il suo sguardo verso il proprio. « Qualunque cosa tu abbia intenzione di fare, io sarò dalla tua parte.» Nessun te lo aveva detto, o ammonizione circa le sue future volontà a riguardo. Solo una promessa che avrebbe mantenuto a costo della sua stessa vita. Lo aveva già fatto in passato. Un tempo, aveva tagliato via i suoi capelli nel tentativo di lenire il suo dolore. Se fosse servito, avrebbe provveduto a tagliarsi un braccio per liberare il suo cuore da quella cupezza che lo angustiava. « Dimmi solo cosa devo fare.»


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    Ci aveva rimuginato su ben poco prima di precipitarsi al suo fianco in quella che avrebbe potuto rivelarsi una missione suicida. Qualcuno avrebbe detto di lei di avere un’innata propensione ai problemi, ed in fondo una vena masochista. Molti in effetti lo dicevano già. In quel caso però il motivo a spingerla verso quell’azione, era la volontà di stare accanto all’unica persona che aveva sempre mostrato il suo supporto. Mason era davvero l’unica persona di cui Helena si fosse mai fidata ciecamente, nonostante i loro continui alti e bassi. Essergli accanto durante uno dei momenti forse più difficili per lui, era doveroso per lei. Tuttavia, ricordava poco di quel momento. Avevano appena messo piede in quella specie di grotta interrata quando il buio aveva preso il sopravvento, avvolgendola in un sonno tormentato da voci in lontananza.
    Quando riaprì gli occhi, fu il caldo tepore di un luogo che riconosceva ad accoglierla. Per un attimo, ancora frastornata da quel riposo indesiderato, le parve di tornare a più di un anno prima, quando quel luogo era la sua casa. Battè le palpebre un paio di volte, prima di mettere a fuoco il momento esatto della sua esistenza. Il cuore prese a batterle all’impazzata mentre faceva per mettersi a sedere con irruenza, bloccata però dalle mani di Mason a cui rivolse il suo sguardo. Guardarlo la rassicurò solo in parte. Il suo volto segnato da una violenza a cui non aveva potuto porre freno le fece ribollire il sangue nelle vene.
    «Che stronzo.» Biascicò tra i denti mentre afferrava il bicchiere porto dall’altro. Mandò giù un sorso d’acqua prima di poggiare il bicchiere sul pavimento. La testa le doleva ma la preoccupazione provata non le avrebbe permesso di pensare ad altro. Il suo interesse in quel momento era tutto votato a Mason e a quella pacata sofferenza che si portava dentro. Doveva sapere cosa fosse accaduto e come poterlo aiutare. «Ho passato di peggio.» Fece spallucce, mentre poggiava le mani sul volto del Chesterfield per osservare al meglio i segni lasciati da quello scontro che si era persa, per poi passare alle sue nocche sbucciate. Poteva solo immaginare il tipo di violenza che era scaturita da quello scontro e l’essere stata messa ko come una stupida, la faceva solo incazzare peggio. La sua presenza era stata inutile per lui. L’aveva soltanto rallentato.
    «Tu? Tutto ok?» Gli chiese, tornando a guardarlo negli occhi, senza tuttavia lasciare la presa sulle sue mani. «Cosa cazzo è successo?»


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    Portò una mano sulla fronte, mentre la massaggiava ad occhi chiusi. La cosa peggiore di tutta quella faccenda, del trauma che aveva vissuto, era non avere il controllo di nulla. Non ne aveva avuto quando il peggio si era avventato sulla sua vita, non ne aveva ora che il peggio sembrava essere un ricordo lontano. Eppure non era così. Quello schifo aveva contaminato ogni aspetto della sua vita rendendole impossibile guardare al futuro. A volte era convinta di non averne più uno. Capiva perfettamente Mason quando diceva di non sapere più chi era perchè per lei era lo stesso. Oscillava tra il desiderio di tornare ad essere la ragazza velenosa di qualche mese prima ad una versione migliore di sè. Non riusciva ad essere nessuna delle due. Si ritrovava nel mezzo, vestendo i panni di una versione sbiadita di se stessa. Eppure la soluzione per ritornare ad essere Helena, le pareva chiaro non essere quella di vestire i panni di ciò che non era. A cosa sarebbe servito? Per Mason valeva lo stesso. Tornare a ciò che l’aveva tanto ferito, che cambiamento avrebbe apportato nella sua vita? Credeva sul serio avrebbe potuto aiutarlo? «Ho bisogno del tuo aiuto ma il mio umore non dipende da te.» Sbottò rabbiosa, incredula e stanca. Incapace d’accettare che Mason non riuscisse davvero a capire quanto il suo benessere non dipendesse da lui, come da nessun altro. Aveva bisogno di tempo. Aveva bisogno del tempo per tornare ad essere viva appropriandosi di sè e dei suoi spazi senza il timore di un peggio in agguato. Era qualcosa in cui nessuno avrebbe potuto aiutarla. «Non puoi curarmi schioccando le dita.» Se lui fosse stato in grado di liberarsi della convinzione di doverla salvare ora perchè prima non c’era riuscito, forse non si sarebbero trovati sull’orlo o di un ennesimo addio. Forse convivere sarebbe stato più semplice. Eppure niente mai andava così come sarebbe dovuto essere. «Nessuno può farlo.» Aggiunse mestamente, sospirando stanca. Si concesse qualche attimo prima di scrollare le spalle ed alzare le braccia come in segno di resa. Provare a trattenerlo non sarebbe servito a nulla, nè si sentiva nella condizione di poterlo fare. Mason aveva fatto la sua scelta. Tutto ciò che poteva fare a quel punto era di lasciarlo andare. «Non sei il tipo di uomo che lui vuole tu sia, questo lo sappiamo entrambi.» Quel commento tuttavia non riuscì ad evitarselo. Voleva che fosse pronto all’eventualità di quel passato da cui era scappato, perchè era esattamente incontro a quel male che l’aveva fatto tanto soffrire che si stava fiondando convinto di non avere altre alternative, ed Helena proprio non riusciva a comprendere come Mason non riuscisse a vederlo. «Fa quello che credi sia giusto.» Fece spallucce, liberandolo dalle sue catene. Trattenerlo non sarebbe stato utile. «Sai come trovarmi se avrai bisogno di me.» Non lo avrebbe seguito, nè condivideva le sue teorie. Non gli avrebbe però voltato le spalle.

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    Fu difficile reprimere quella nuova ondata di violenza. Il desiderio, irrefrenabile, di scagliarsi contro di lui per ripagarlo della sofferenza che con le sue sole parole stava alimentando in lei. Si chiedeva come potesse incolparla. Come riuscisse a far ricadere su di lei, quelle colpe che in effetti Helena già sentiva sue. Fu contro la parete a quel punto che scagliò la propria furia. Un colpo a mano aperta che le fece male, riempiendo di lacrime il suo sguardo ferito. «Non ti ho chiesto io di precipitarti lì! Non è a te che avevo chiesto aiuto per evadere!» La sua voce vibrò, tesa. Sembrava una corda pronta a spezzarsi. Lei lo era già da tempo. Per quanto difficile fosse stata la convivenza di quelle ultime settimane, in cuor suo aveva sul serio creduto di potersi fidare di lui. Solo di lui. Dinanzi a quelle rivelazioni e alla sua scelta, cominciava a ricredersi. Il senso di solitudine provata, le toglieva il fiato.
    «Non lo è quando si tratta di me. Per te va bene invece, no? » Scosse il capo, asciugando velocemente col dorso della mano le lacrime di rabbia che incontrollabili erano venute giù, sporcandole il viso di una tristezza che avrebbe voluto celare. Urlò rabbiosa, voltandosi per dargli le spalle. Sfogò contro le poche cose presenti in quella casa la sua furia, ma non servì a molto. Con le mani tremanti ed il corpo scosso, sii allontanò aspettando andasse via. Tuttavia Mason non lo fece, non subito.
    Si lasciò andare contro la parete, le mani a coprire il volto rosso ed il vortice incontrollabile di emozioni che l’avrebbero spinta ad atti eccessivi. Da lei. «Se tu ora torni da lui, che senso avrà avuto tutto questo?» La voce uscì sottile dalle sue labbra. Un sussurro quasi inudibile prima che il Chesterfield potesse abbandonarla, di nuovo. Helena non riusciva a pensare che a quello. Non aveva trovato una giustificazione al male che le era stato fatto, ma in cuor suo aveva cercato di ricostruire dei motivi, delle finalità. Aveva provato a dare un senso al patimento e alle conseguenze che avrebbe dovuto portare per sempre su di sè. Aveva creduto fosse perchè alla fine di quel percorso avrebbe capito di chi fidarsi. Chi amare. «Mi lascerai di nuovo sola, di nuovo indietro perchè sono debole.»

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    Lo sguardo che gli lanciò non lasciò spazio a dubbi: era adirata. Lo era in un modo in cui non era riuscita a dimostrare d’essere fino a quel momento, abituata e rassegnata all’apatia in cui era rimasta imbrigliata. Di sicuro Mason aveva un potere su di lei, quello di smuovere le sue emozioni. In quel momento però, solo le peggiori. Avevano già avuto modo di discutere su quell’argomento. Più volte si erano scontrati per i loro rispettivi e discordanti punti di vista. Tante cose erano cambiate dall’ultima volta in cui avevano parlato di quello ma il loro modo di parlarsi e di reagire, non era cambiato. Non era mutato l’inconcepibile bisogno di ferire l’altro per difenderlo. «No. Sei tu che ti ostini a cercare un’alternativa più facile.» Quella per Helena era una verità indissolubile. Una certezza che Mason si ostinava ad ignorare per un motivo sconosciuto. Quando l’altro provò ad ostacolarla, Helena di rimando arretrò in modo inconsapevole, inconsciamente intimorita dall’idea di essere toccata.
    «Sei serio?» Scoccò la lingua contro il palato, scuotendo poi il capo. Le accuse che il Chesterfield le rivolgeva, ebbero chiaramente il potere di ferirlo. Lo fecero a livello profondo, nel punto in cui la Haugen non avrebbe più potete tacere o trattenersi. Si liberò della giacca che aveva recuperata, gettandola con stizza contro di lui.
    «Cosa voglio fare da me, eh? Cosa cazzo stai dicendo? Quante possibilità di scelta ho avuto fino ad ora?» Se fosse stata in sè, non avrebbe risposto, nè si sarebbe così adirata avvicinandosi passo dopo passo all’altro. In quel momento però, mossa dalla furia che Mason aveva stimolato, non reagire sarebbe stato impossibile. Impossibile d’altronde sarebbe stato riuscire a trattenere dietro gli occhi chiari, la tristezza che l’altro aveva stimolato. Erano bastate quelle poche parole a tirar fuori l’inconscia idea d’essere sola ed incompresa. Era così che si era sentita in quei mesi e poi dopo e Mason non stava di certo negando le sue tesi. Per cui le venne naturale a quel punto agire colpendolo. Fu la frustrazione trattenuta in quell’ultimo periodo, la costante sensazione di sentirsi inutile, inudita ed incompresa. Lo colpì con uno schiaffo in pieno volto.
    «Quando ho potuto, è a te che mi sono rivolta. E’ te che ho cercato. E’ con te che volevo andare via, e tu cosa hai fatto in risposta quando ti ho raccontato del fidanzamento? Sei arrivato sotto casa strafatto e malconcio.» Lo urlò contro il suo viso, colpendo di nuovo con furia. Farlo non la faceva star meglio ma non riuscì a fermarsi a quel punto. Riversò contro di lui il dolore taciuto. «Non sono io che scappo, stronzo ingrato.»


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    Inarcò le sopracciglia alle sue parole, prima di scuotere il capo. «Ah, grazie allora.» Era ironica, chiaramente. Si sarebbe aspettata un atteggiamento differente da Mason, soprattutto in vista del loro rapporto. Si chiedeva ora se non avesse fondato la sua realtà su verità infondate. Immaginò il suo trauma potesse nascondere la reale consistenza delle cose. Di sicuro aveva tralasciato molti rapporti, molte persone, in quegli ultimi giorni o forse addirittura mesi, ma adeguarsi all’idea di meritare solo quello, un avvertimento, le sembrò assurdo. Ed ancor più difficile fu accettare le sue parole ed evitare di replicare nel modo duro e velenoso che si costrinse a tacere. Scorre il capo, stringendo le labbra per celare quel sorriso amaro e sarcastico che gli avrebbe volentieri riversato contro. «Certo. Hai ragione.» Commentò senza aggiungere altro. Le sue parole ed il tono in cui le pronunciò, lasciavano però benissimo intendere quanto poco d’accordo fosse con l’altro. Non si era sentita appoggiata dalle persone che aveva avuto intorno per molto tempo. Persino Mason aveva rivestito il ruolo degli oppositori al suo benessere in più di un’occasione. Cercava di reprimere quell’idea angusta che non avrebbe fatto del bene a nessuno, ma nei momenti peggiori - e forse ora era uno di quelli - era facile pensare d’essere stata solo nel momento più brutto. Con lei in quella prigione non c’era nessuno. Nemmeno lui. «Fai quello che credi giusto per te, no?» Si liberò dei guantoni a quel punto impossibilitata a continuare quella messinscena senza rischiare di esplodere in un eccesso d’ira. Non aveva alcun peso sulle scelte di Mason, nè pretendeva fosse diverso. Quella che stava ponendo il Chesterfield però, era una barriera invalicabile. Una sorta d’addio. In un modo o nell’altro, col tempo lo sarebbe stato. «Torna a pestare persone in vicoli scuri, o peggio, ad ucciderli solo perchè è uno squilibrato col bastone a dirtelo. Lui saprà sicuramente prendersi cura di te.» A nulla servì cercare di placarsi. Sentirlo tirar fuori scuse che per Helena non reggevano affatto, ebbe il potere di infervorarla ancor di più. Come poteva Mason accettare l’idea di tornare tra le braccia della persona che lo aveva cresciuto senza un briciolo d’affetto? «L’unico motivo per cui non devi guardarti le spalle quando sei con lui è perchè diventi tu il mostro da temere.» Aggiunse poco dopo, lanciandogli contro i guantoni, impossibilitata a restare ancora lì senza aver voglia di dargli uno schiaffo. Un gesto che, per quanto risolutivo le risultava comunque difficile da compiere. «Ma a te va bene così, no?.» Si allontanò superandolo per raggiungere la propria giacca.

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    Non si sarebbe dovuta stupire del fatto che Mason avesse trovato un modo, l’ennesimo, per aiutarla, soddisfacendo alle sue richieste. Non aveva mai smesso di farlo e dal suo ritorno da quella prigionia che era sembrata eterna, le premure del Chesterfield erano state tante. A volte troppo. Aveva scelto per loro un luogo sicuro nelle terre del Nord, lì dove ogni eccesso sarebbe stato tollerato. Lì dove, il bene ed il male avevano una concezione tutt’altro che canonica. Lo raggiunse appena le fu possibile farlo, dopo essersi liberata degli ennesimi intoppi burocratici che facevano sembrare il suo ritorno in libertà, quasi una punizione. Fu carica di rancore che raggiunse il capanno abbandonato, pronta a riversare contro un sacco da boxe la rabbia provata verso i funzionari misogini, il mondo che la circondava, Lorence ed in qualche modo, seppur indirettamente, anche verso se stessa.
    Per quanto si impegnasse, e lo faceva tanto, le sembrava che i suoi colpi quasi solleticassero le mani di Mason o non scalfissero per niente il sacco da boxe riposto lì in quella stanza. Quella concezione di sè non aveva il potere di demotivarla ma anzi il contrario, la infervorava ancora di più, spingendola a colpire di nuovo e con più ferocia. Fu il suo corpo ancora in parte debilitato dalla cura e dalla prigionia a chiederle una pausa. Si allontanò appena per asciugare via il sudore e concedersi un sorso d’acqua. Avrebbe ripreso a combattere l’attimo dopo se le parole di Mason non l’avessero distratta. Inarcò un sopracciglio piegando il capo nel sentirgli annunciare di una decisione presa. Quando poco dopo la esplicò, non lasciò che la sua espressione mutasse ma dentro di sè, una furia ingestibile prese forma. L’idea da tornare da suo padre, di farlo adesso, aveva per Helena dell’incredibile. Non solo Mason si riconfermava avere un pessimo tempismo ma anche una pessima capacità di giudizio. Sforzandosi, e forse nemmeno tanto, avrebbe potuto capirlo il suo desiderio di conoscere la verità. Il modo che era disposto ad accettare per ottenerla però, le faceva bruciare lo stomaco. «Mi chiedi il permesso?» Rispose infine mentre, senza guardarlo infilava di nuovo i suoi guantoni come se nulla fosse successo. La voglia di colpirlo in faccia però era tanta. Chissà che quella rabbia non le sarebbe stata d’aiuto nel superare le barriere fisiche che aveva interposto tra lei e tutto il mondo. «O vuoi il benestare?» Sprezzante. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Era chiaro la reputasse una pessima idea, ma le sembrava anche stupido provare a fermarlo perchè, l’aveva detto lui, aveva già preso una decisione. Lei era stata tirata fuori. E dopotutto perchè sarebbe dovuto essere il contrario? Chi era lei per meritare l’onore dell’inclusione? «In entrambi i casi hai già deciso.» Fece spallucce, sforzandosi di mostrarsi apatica e priva di giudizio. Un tentativo fallito a priori. «Se poi lo fai perchè hai bisogno di sentirti dire che è una cazzata, immagino tu conosca già la risposta.» Aggiunse poco dopo, dandogli le spalle, per tornare a colpire il sacco per sopperire alla voglia di colpire lui. «Ci sono di sicuro altri modi.»
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    Ascoltò le parole dell'altro, ma senza porvi la giusta attenzione. Riuscì ad immaginare cosa Mason volesse dirle ancor prima di farlo. Era comprensibile cercasse di tirarla su, ora che ne aveva la possibilità. Dopo quelle settimane di mutismo e convivenza astiosa, era chiaro volesse dirle tutto ciò che aveva tenuto per sé. Eppure Helena non si sentiva pronta ad accettare i suoi consigli, o a ben vedere quelli di nessun altro. Tutte le chiacchiere, le sembravano nient'altro che quello. Le parole solo parole. Non c'era niente in grado di solleticare lo stato d'apatia in cui si era rinchiusa. Persino in quel momento, in cui aveva deciso di mettersi in gioco, diventava estremamente facile abbattersi e tornare a chiudersi in sé. Le ferite che aveva, sembravano non trovare sollievo. Il dolore si acquietava per poco ma l'attimo dopo tornava a bruciare. Sanguinava di continuo. «Lo sono?» Gli chiese, piegando appena il capo, facendo poi spallucce. Era chiaro non credesse a quelle parole, né alla sua realtà. Il suo modo di vedere il mondo, e se stessa, era ben diverso. Non riusciva più a guardarsi allo specchio, senza vedere il pallido riflesso di quel che Lorence aveva creato: un'anima frammentata.
    Afferrò il ghiaccio porto dall'altro, stringendo i denti mentre provava invano a nascondere l'espressione sofferente. Rimuginò su qualche attimo prima di spezzare il silenzio venutosi a creare. «Ricordo come stavi quando ti ho portato via da quella bettola nel bosco. Sembravi avere paura di tutto.» Aveva assistito ad un suo momento di massima debolezza. Si era sentita inerme di rimando. Non poter far nulla per guarirlo, l'aveva fatta sentire debole a sua volta. Si chiese se Mason non stesse provando le stesse sensazioni. «Vorrei riuscire a smettere anche io.» Annuì poco dopo. Si era spinta a piccoli passi in avanti, ma erano ancora molti, troppi, i limiti entro cui si sentiva rinchiusa. Di molti non si sentiva pronta a liberarsene, e forse non lo sarebbe mai stata. «Smettere di credere che tutto andrà male di nuovo.» C'erano notti terribili in cui, oltre l'affanno di quei traumi che tornavano a farsi sentire, si affacciava la terribile possibilità di vedere Lorence di nuovo libero, di nuovo lì. Come poteva immaginare un futuro diverso per sé, se Volhard condivideva ancora il suo stesso ossigeno? Fin quando sarebbe stato vivo, vivere a sua volta sarebbe stato impossibile. Era per questo che lo voleva morto. Non voleva difendersi da un attacco, voleva attaccare lei stessa. «Tornare ad essere solo io.» Era col sangue che avrebbe raggiunto quel equilibrio. Con la vita del tedesco, avrebbe finalmente riscattato la sua. Fino a quel momento però, forse era inutile fingere fosse tutto normale. Che lo fosse lei. Sospirò pesantemente, riporgendogli il ghiaccio prima di tirarsi in piedi. «Scusami.» Non aggiunse altro. Le sembrò inutile restare lì. Opprimente. Si liberò dell'altro guantone, poggiandolo sul letto, prima di avviarsi verso la porta senza dir nulla. Solo prima di uscire si fermò. Avrebbe voluto guardarlo ma non ne ebbe la forza. A capo basso, la schiena rivolta verso di lui, si fermò a condividere con lui il suo pensiero. Il suo timore. «Io non lo so perchè sei ancora qui. Ci eravamo promessi un futuro diverso, ma ora più ci provo più mi chiedo se non stia solo continuando ad illudermi. Ad illudere entrambi.» In definitiva una cosa in lei non era cambiata: la propensione alla fuga.
  12. .
    Sarebbe stato facile riadeguarsi alle loro vecchie abitudini. Avrebbe voluto lo fosse. Sorridere alle sue parole, pizzicarlo e rendergli pan per focaccia. Rispondergli a tono, con una frase che si fingeva limitativa ma che lasciava presupporre un'apertura nei suoi riguardi. Complicità. Serenità. Una muta promessa di presenza. «Non ho bisogno di una scusa come questa per farlo.» Rispose come avrebbe fatto se in lei ci fosse stata la Haugen di sempre, nel suo sguardo era palese la sua diversità. Era rigida, non giocosa. Era intimorita, non rilassata. Era il frutto dei traumi insuperati, di quelle paure che non sembravano non volerla abbandonare.
    Fece un respiro, preparandosi a quella lezione improvvisata. A ben pensarci nessuno oltre Mason avrebbe potuto avere quel ruolo. Indirizzò verso l'altro il proprio sguardo. E ci provò a seguirlo, ma si perse poco dopo. «Aspetta. Calmo.» Scosse il capo, accigliata, allargando poi le braccia come a chiedergli cosa avesse appena detto. Chiuse gli occhi poi, cercando di ripetere a mente le sue direttive. L'attimo dopo colpì il sacco dinanzi a sé, con poca convinzione. Ci riprovò dopo, con troppa pacatezza, e allo stesso modo l'attimo successivo. Non sembrava una combattente. Per quanto in un contesto finto, le sembrava di non esser più capace di lottare. Una voce malsana nella sua testa le diceva di non farlo, perchè a quel punto poi tutto sarebbe andato male. La vita l'avrebbe punita. L'aveva già fatto. Adeguarsi a quella voce però, alimentò il fuoco della rabbia. Fu quella che la motivò ad un nuovo colpo, che le fece ritrarre la mano con un'imprecazione.
    Piegò il braccio, portando la mano al petto mentre imprecava a denti stretti. «Sono ridicola. Sembro un coniglio epilettico.» Si lamentò ad occhi lucidi, mentre si avvicinava di nuovo al letto su cui si sedette. Si liberò del guantone, massaggiandosi il polso dolorante, indirizzando soltanto poi lo sguardo opaco verso l'altro.
    Per lui la violenza era naturale. Sembrava non temerla, non ostacolarla. Le ferite sul suo corpo, sembravano medaglie e non qualcosa da cui fuggire. Lei si sentiva afflitta da ogni segno su di sé. Da ognuna di quelle testimonianze di debolezza. «Tu come hai imparato?»

  13. .
    Si era preparata a combattere con le sue idee contrarie. Trovare un assenso positivo, la sorprese al punto che lo guardò come a chiedersi quanto fosse serio. Si concesse qualche attimo. Si era chiusa in se stessa in quell'ultimo periodo, convinta di non poter fare affidamento su niente e nessuno. Si era convinta di essere sola perchè era così che si sentiva. Era chiaro si fosse illusa. Mason non l'aveva mai abbandonata. Aveva sempre fatto del suo meglio per starle accanto e lo faceva anche adesso, accettando una proposta che intimamente Helena sapeva gli pesasse. Si sentì compresa, qualcosa che aveva smesso di provare da tempo. «Okay. Va bene.» Annuì semplicemente, senza riuscire a dir altro ed avrebbe voluto. Avrebbe voluto ad esempio chiedergli come stesse, realmente, sperando d'ottenere risposte sincere. Avrebbe voluto ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lei da quel trasferimento e prima, ma non disse nulla. Muta e bloccata in quel pantano d'emozioni contrastanti e incontrollabili, si preparò ad andar via. Fu il suo tentativo di smorzare la tensione a fermarla. Lo guardò per un attimo seria, prima di lasciarsi andare ad un piccolo accenno di sorriso. Un minuscolo cenno, dopo settimane di nulla. «Vuoi farti picchiare?» Replicò alle sue parole, rifilandogli un colpetto sull'avambraccio. Un contatto, seppur schermato dal guantone che avvolgeva la sua mano. E la sua proposta, per quanto insolito, non era scontata.
    Prepararsi ad uccidere richiedeva un certo impegno ed era una cosa che avrebbe seriamente voluto imparare a fare. Al contempo, l'idea di essere pronta a reagire qualora ce ne fosse stato bisogno, solleticava la sua mente. Se ne avesse avuto le capacità, si disse, forse Lorence non l'avrebbe ferita come aveva fatto. Se fosse stata in grado prima di difendersi, a quel punto non sarebbe stata costretta a portare come una condanna l'appellativo di vittima. «Vai. Avanti.» Lo invitò quindi a continuare, allargando le braccia. Un'apertura al confronto, a lui, che fino a qualche attimo prima sarebbe sembrata impossibile. Non aveva smesso di temere il mondo. Si sforzava solo di fidarsi di lui, di nuovo. «Mi insegnerai come colpire alle palle?» Provò a rifarsi all'immagine di se stessa. A quella ragazza pronta a sputare veleno su tutti, incapace d'essere ferita. Non si sentiva così da mesi ormai. «Perchè quello lo so già fare.»
  14. .
    Storse il muso alle sue parole, incapace di acconsentire o mostrarsi accondiscendente. Avrebbe voluto sentirsi inorgoglita dal modo in cui Mason la guardava, ma non era così. Non era a quel modo che si sentiva. Debole, era l'unico aggettivo che si era vista cucire addosso in quelle ultime settimane. Un epiteto che l'aveva resa mansueta e schiava tra le mani di un carnefice crudele che le aveva rovinato la vita. «Ma non sono forte.» Aggiunse quindi poco dopo, come a voler sottolineare la sua convinzione e sicurezza d'essere tragicamente lontana dall'essere forte. Non si sminuiva, era così. Se lo fosse stata, si diceva, a quel punto non si sarebbe trovata in quella condizione. Forse reagire sarebbe stato più semplice. Togliersi di dosso l'incapacità di guardare al futuro, non sarebbe stato un dramma così pesante da affrontare.
    Afferrò un guantone nero, rigirandoselo tra le mani infilandolo distrattamente. La sua mano era piccola almeno la metà di quell'indumento. Si prese qualche attimo prima di poter dare una risposta al suo quesito. Essere chiara, non era semplice e si rendeva conto, sebbene solo in parte, quanto la richiesta che stava per porgli avrebbe potuto riaprire vecchie ferite, o più in generale, buttare aceto su ferite che non si erano mai chiuse. «Non voglio più stare ad aspettare che qualcosa mi colpisca, mi ferisca o uccida.» Annuì serrando le labbra e stringendo i denti. Attendere. Riguardando al passato, era quello che aveva fatto. Fuggire, cercare rifugio altrove, a cosa l'aveva portata? Aveva solo aspettato, impaurita, che Volhard facesse il proprio passo. Nient'altro. Anche durante la sua prigionia, aveva solo aspettato che il suo tormento finisse. Nient'altro. «Voglio essere io a farlo. Voglio essere io a colpire.» Aggiunse poco dopo, alzando lo sguardo per incontrare gli occhi del Chesterfield. Voleva capisse quanta serietà e convinzione ci fosse nella sua richiesta. Voleva che l'assecondasse perchè ne aveva bisogno e perchè se non l'avesse fatto, avrebbe provveduto ad agire da sé. «E non farmi discorsi paternalistici su quanto pericoloso possa essere. Ti prego.» Precisò prima che qualche discorso moralistico potesse frapporsi fra lei ed il suo obiettivo. Aveva preservato se stessa, gli altri e una vana innocenza per troppo tempo e senza alcun risultato. Essere dalla parte dei buoni faceva schifo, significava essere vittime. Lei non voleva più esserlo. «Non me ne frega un cazzo della morale.» Aggiunse poco dopo, mordendo il labbro inferiore per qualche attimo prima di riuscire a completare il suo pensiero. «Se Lorence verrà fuori da quella cazzo di prigione, io voglio essere pronta. Voglio ucciderlo.» Convinta. Seria. Niente l'avrebbe distolta dal suo obiettivo, quello era certo. «Tu l'hai già fatto. Preparami a questo.»
  15. .
    Erano giorni difficili, di settimane orribili, di un mese infernale. Helena aveva sperato le cose potessero migliorare spontaneamente da un giorno all'altro. Aveva però dovuto rendersi conto dell'utopia in cui credeva. Il tempo non l'avrebbe curata, come invece usavano dire gli altri quando non avevano idea del male dall'altro patito. Un giorno quindi, dopo tanti altri passati tra le mura di quella casa diventata prigione più che rifugio, aveva indossato gli scarponi, richiamato Pinky a sé ed aperto la porta di casa. Dopo giorni di reclusione sotto un tetto, vide il cielo senza filtri. In quell'occasione non si spinse molto oltre. Durò appena cinque minuti prima che il panico potesse prendere il sopravvento di lei. La differenza sostanziale dalle esperienza passate fu la sua voglia di non lasciar perdere. Ci provò di nuovo, e di nuovo ancora. Giorno dopo giorno, i minuti divennero dieci, venti, poi un'ora. Si riappropriava del suo spazio, del suo posto nel mondo. Godeva del cielo, della pioggia, del rumore delle foglie cullate dal vento. In qualche modo, tornava alla vita.
    Quando però tornava a casa, quando passava davanti uno specchio o si spogliava, il suo sguardo andava altrove. Non si guardava, non si apprezzava. Costantemente si sentiva debole. Con quello stato d'animo, sarebbe stato facile, fin troppo, soccombere ancora alla paura e lei non voleva permetterselo. Voleva tornare alla sua vita, con un minimo di sicurezza in più, quella che Lorence le aveva strappato via.
    Aspettò che Mason finisse il suo allenamento per disturbarlo, entrare nella sua stanza e sedersi sul suo letto. Non aveva mai messo piede in quella stanza fino a quel momento.
    «Tornerò a scuola. Immagino settimana prossima.» Interruppe il silenzio con quella rivelazione mentre si tirava in piedi per afferrare uno dei pesi che Mason aveva posato da poco. Si ritrovò costretta a posarlo poco dopo con un'imprecazione a causa del peso. Non si voltò però. Lasciò che le sue dita scivolassero sul supporto liscio di quegli oggetti, distraendosi dal contatto visivo con l'altro. «Lo so che sono stata orribile.» Erano le sue scuse, perchè era conscia della difficoltà vissuta da Mason nello starle accanto. Avrebbe voluto essere quel tipo di persona diverso, amabile, ma non era riuscita a farlo. Si era chiusa in se stessa ed ora timidamente provava a venirne fuori. «Credevo che non parlarne mi avrebbe aiutato. Volevo dimenticare. E poi l'ho fatto ma non mi ha aiutato comunque.» Provò quindi a spiegargli, a fargli capire che lui non aveva colpe in nulla e che sebbene non fosse stato poi così visibile, la sua vicinanza l'aveva aiutata. Soprattutto l'aveva fatto la sua pazienza. Sospirò voltandosi, le labbra piegate in una smorfia dispiaciuta. «La verità è che ho paura.» Lo guardò. Negli occhi la sincerità che fino a quel momento gli aveva taciuto. «Non voglio averne. Non voglio più essere debole.» Annuì mordendosi il labbro inferiore, mentre faceva spallucce. «Puoi aiutarmi?»
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