prisoned

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  1. serotonin/
     
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    Caposcuola
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    Era successo tutto in un attimo. Gli auror avevano fatto irruzione in mezzo alla strada affollata di Diagon Alley e li avevano accerchiati. I ricordi si affollavano confusi nella sua mente, ma tra le immagini sovrapposte, spiccava tra tutte l’immagine delle catene intorno ai polsi di Mason e l’irruenza con cui lo portavano via da lei senza sapere nemmeno il motivo. Quello lo avevano scoperto in seguito, al processo. Vecchi reati cadevano sul capo di Mason, colpe di cui non poteva liberarsi perchè ne era effettivamente fautore. Atti, talvolta osceni, di cui si era macchiato per conto d’altri e forse, Helena l’aveva sospettato fin da subito, per conto d’altri ora era costretto a scontare da un anno e più di reclusione. Helena non aveva accusato apertamente il suo patrigno per quel misfatto, ma più di una volta aveva dovuto reprimere il desiderio di presentarsi nella sua immensa villa ad Hogsmeade, per renderlo zoppo anche dell’altra gamba.
    Un gesto che, per quanto liberatorio, non avrebbe aiutato Mason che avrebbe dovuto scontare da solo la prigionia in un posto orrendo. Gli era stata risparmiata Azkaban a causa delle sue accuse ma la durata della sua pena si era protratta da nove mesi a un anno e forse la pena avrebbe potuto allungarsi. Tutto stava a Mason e alla sua buona condotta. Un pensiero che angosciava Helena non di poco.
    Quegli ultimi nove mesi li avevano trascorsi adeguandosi a quel nuovo equilibrio che stava stretto ad entrambi. Mason dietro le sbarre, Helena fuori ad affaccendarsi tra mille e più cose, persino un lavoro, per portare avanti la causa di Mason e farlo seguire dal migliore avvocato potessero permettersi.
    Le visite, prima settimanali, si erano fatte meno frequenti per gli impegni e il timore di vederlo star male. Si era aggiunto a questo la presenza opprimente di Lorence nella stessa struttura, un problema che per quanto secondario, non smetteva di tormentare Helena col cruccio che qualcosa di peggio sarebbe potuto accadere sul serio.
    Ed era poi accaduto sul serio.
    Quando dalla prigione era arrivato il gufo del ricovero di Mason in infermeria, il cuore le si era fermato. Aveva lasciato il pub in cui lavorava per correre da lui. Le avevano concesso di vederlo soltanto il giorno a seguire, dopo aver passato la notte nella fredda sala d’aspetto della prigione in cui sarebbe dovuta entrare.
    Non le avevano voluto dire cosa fosse accaduto. Avevano parlato di un incidente, che mal combaciava con le ferite che le avevano elencato avesse riportato. Non ci sarebbe voluto un detective a capire cosa fosse accaduto. Una rissa, o forse più probabile, un agguato. Non le sarebbe stato nemmeno difficile immaginare da parte di chi, sebbene si impegnasse a nascondere il timore di quel presentimento.
    Quando era entrata nella stanza, Mason era ancora dormiente. Il cadenzato rumore dei suoi parametri riempiva il silenzio in cui era immerso, alimentando l’ansia della Haugen.
    Gli si avvicinò, guardando il suo volto segnato e le bende che gli coprivano il busto.
    Solo pochi mesi prima avrebbe dato di matto, ora cercava di tenere salda la sua pazienza per mostrarsi forte. Per lui.
    Rimase al suo fianco in silenzio. La mano stretta nella sua e gli occhi lucidi a fissarlo. Quando finalmente aprì gli occhi le sembrò di poter tornare a respirare. Avrebbe sorriso se non fosse stata troppo oppressa dall’angoscia provata. «Cominciavo a pensare avessi bisogno del bacio del vero amore per svegliarti.» Sussurrò dopo qualche attimo, nel tentativo di smorzare fin da subito i toni. «Ero pronta a sacrificarmi in ogni caso.» Scherzò, piegando il capo, stringendo inconsapevolmente di più la sua mano.
    Distolse lo sguardo per un secondo, respirando profondamente. «Questa potrebbe essere una buona cosa comunque, secondo l’avvocato. Il tuo ricovero intendo. Dice che può far valere al meglio le sue ipotesi e magari così convincere il wizengamot a farti uscire prima. Ovviamente questo significa che dovrai startene buono senza fare stronzate.» Parlò velocemente, quasi senza prender fiato, nascondendo - senza riuscirci - l’ansia provata. Saperlo lì lontano da lei e in balia di mille e più pericoli, le toglieva il sonno e qualsiasi briciolo di serenità. «Non le farai vero?» Lo guardò a quel punto, pronunciando quelle parole con lo stesso tono di una supplica. Lo era in definitiva. «A Pinky manchi.» Mancava a lei.



     
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