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Haru

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    Il battito del suo cuore era l'unica cosa che riusciva a sentire distintamente. Sullo sfondo c'erano le voci dei ragazzi del Fairy Tale - quelle di Bradley e Chase le più vicine, immersi una concitata discussione di cui Daphne non era in grado di afferrare quasi niente - e la musica che proveniva dal resto del locale, scontrandosi contro la porta chiusa che ne attutiva l'irruenza. Tutto questo era solo un miscuglio di suoni confusi per la Morrow, un rumore di fondo che non riusciva ad aprirsi un varco nell'ingombrante presenza del suo cuore. Non era più solo nel suo petto, oppresso da un dolore sordo e costante: poteva sentirlo anche in gola, nelle orecchie, nella testa. Il suo cuore si dibatteva con una frenesia tale che da un momento all'altro, Daphne ne era certa, le avrebbe sfondato la scatola cranica.
    Non ho idea di dove sia suo fratello! Credo che stasera non lavori..
    La voce di Chase squarciò per un attimo il totalitarismo del suo cuore. Daphne si gettò in avanti, rischiando di cadere dalla sedia su cui era abbandonata e agguantò il braccio del biondo affondando le unghie perfettamente curate nella pelle nuda del ragazzo. Scosse la testa. Continuò a farlo, ostinatamente, mentre i due ballerini le chiedevano cosa volesse dire.
    Non.. Jer..
    Le parole le uscirono impastate e furono seguite da una specie di movimento convulso. Si animò una grande confusione intorno a lei e la rossa comprese distrattamente che le braccia forti che la sollevavano trascinandola verso il bagno dovevano essere quelle di Phil. Le dita morbide e ambrate del riccio le afferrarono dolcemente capelli, scostandole la chioma vermiglia dal viso mentre vomitava anche l'anima nel water. Sarebbe sprofondata dall'imbarazzo se solo fosse stata in grado di provare emozioni diverse dal panico crescente che invadeva ogni parte di lei. Il suo cuore dominava di nuovo ogni centimetro del suo corpo. In qualche modo ora pareva aver sopraffatto anche il controllo della vista, per le pareti del bagno le apparivano offuscate, quasi irreali.

    Harumi? Ciao, sono Bradley! Noi non ci conosciamo ma il tuo è il primo numero tra le chiamate rapide di Daphne..
    Brad sbatté le palpebre segnate dall'eyeliner blu elettrico, cercando di concentrarsi unicamente sulla voce proveniente dal telefono mentre Chase lo rintronava con ipotesi sull'identità della misteriosa Harumi. La possibilità più accreditata era che fosse un' amica stretta della danese, magari la sua migliore amica. Il moro, stringendo le lunghe dita diafane attorno allo smartphone, poteva solo costatare che la voce dall'altro capo fosse giovane e piuttosto allarmata.
    Non sapevo proprio chi chiamare, Jerome stasera non si esibisce e lei non voleva che lo chiamassi. O almeno credo.. non è semplice capire quello che cerca di dirci. si giustificò, lanciando un'occhiata verso la porta del bagno che si stava riaprendo Credo che si sia calata qualcosa. Ma cazzo se mi sembra assurdo..
    Daphne era universamente riconosciuta come la brava ragazza, tra il personale del Fairy Tale. Tutti avevano i loro vizi. Per Brad si trattava di qualche pasticca ogni tanto: rendevano il mondo più colorato ed iridescente e lo aiutavano a dimenticare che i suoi l'avevano sbattuto fuori di casa quando aveva fatto coming out. Chase sembrava trovare nei litigi concitati con la sua ragazza - e nel successivo sesso riparatore - una personalissima droga di cui non poteva fare a meno, sebbene i suoi amici definissero quella relazione dannatamente tossica. E Phil esagerava sempre con i drink, soprattutto dopo aver subito "attenzioni eccessive". Erano solo tre esempi esplicativi di come ci volesse un certo pelo sullo stomaco per lavorare al Fairy Tale, sebbene gli uomini di mezza età che lo frequentavano fossero perlopiù lascivi, ma sostanzialmente innocui. Beh, quasi tutti. Ma Daphne.. Bradley continuava a chiedersi cosa ci facesse lì. Una specie di reginetta della moda, iper-organizzata e sempre sul pezzo. Non perdeva mai la concentrazione né l'energia.. a quanto pareva gli studi, il tirocinio e quel lavoro non bastavano a stancarla né a farle passare la voglia di fare polemica. Inizialmente tutti loro l'avevano trovata un po' saccente e avevano avuto l'impressione che lei li giudicasse condannando il loro ruolo all'interno del pub. Poi si erano resi conto che la danese giudicava unicamente i clienti e i gestori del Fairy Tale, che la sua saccenza aveva qualcosa di divertente e che sapeva essere persino simpatica, a modo suo. Persino dolce, a volte. Vederla in uno stato di totale perdita di controllo - tremante, tachicardica, confusa - era destabilizzante per tutti loro. Brad la vide uscire dal bagno, sorretta da un Phil in evidente apprensione.
    Per favore, vieni e portala a casa.. o in ospedale, non lo so. Ti mando la posizione del Fairy Tale.
     
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    La prima cosa che penso è chi diavolo sia Bradley e perché mi stia chiamando con il telefono di Daphne. Un pensiero istintivo che mi passa per la mente forse un nanosecondo, prima di realizzare che effettivamente non so i nomi dei colleghi di Daphne. Un collega quindi?
    Per qualche strana ragione nella mia testa si accende un campanello d’allarme minaccioso che mi spinge ad alzarmi dal letto e gettare un’occhiata a Sayuri profondamente addormentata, prima di lasciare la stanza per poter parlare senza dover sussurrare.
    Non sembra essere una buona cosa il fatto che un suo collega mi stia chiamando con il suo telefono.
    Mi era già sembrato strano che Daphne mi telefonasse a quest’ora, quando ho visto lo schermo del cellulare illuminarsi ed il suo nome apparire, ma ora mi sembra ancora più strano.
    La conferma che le sia successo qualcosa arriva praticamente subito e per un attimo sento un tuffo al cuore, poi il panico viene accompagnato dalla confusione ed infine anche dall’incredulità.
    - Cazzo… - sibilo subito, realizzando a cosa Bradley si stia riferendo.
    Lui sembra non voler credere al fatto che Daphne possa essersi calata qualcosa, io invece ripenso a quel giorno in cui l’ho trovata senza respiro, preda di qualsiasi cosa avesse assunto.
    Stringo la mascella, sentendomi una stupida per non aver capito che evidentemente ne facesse ancora uso. Sono stata così ignara - e disattenta? - da pensare che non ricorresse più a qualcosa del genere, soprattutto a lavoro.
    Ma evidentemente il dover conciliare proprio il lavoro con lo studio e la vita personale, deve averla spinta a fare questa scelta. Pensavo solo che, attaccata come è alla sua immagine personale, avrebbe evitato di trovarsi proprio in una situazione del genere.
    - Cazzo! - ripeto quasi sibilando quando Bradley mi chiede di andarla a prendere e mi rendo conto che lo avrei fatto anche senza la sua richiesta, pensando però inevitabilmente a Sayuri.
    Non posso lasciarla a casa da sola e non posso chiamare una delle altre mamme per chiederle di prendersene cura, è mezzanotte passata. Fuori discussione anche il chiamare Bram, se Daphne non ha voluto che chiamassero Jerome, suppongo che anche il suo migliore amico non debba saperne nulla.
    - C’è qualcun’altro con lei? Bene, aspettami fuori dal locale, arrivo subito.
    Riaggancio soffocando un’altra imprecazione, torno in camera ed indosso un paio di jeans ed una maglietta in fretta.
    Vorrei non doverlo fare, ma sono costretta a svegliare Sayuri che, dopo un po’ di insistenze da parte mia, apre gli occhi e mi guarda confusa.
    - È ora di andare a scuola? - biascica, strofinandosi un occhio.
    - No, tesoro, è ancora notte - le do il tempo di guardare verso la finestra per rendersene conto - Dobbiamo andare a prendere Daphne a lavoro, non si è sentita bene e ha bisogno del mio aiuto.
    Si mette subito seduta, improvvisamente ben sveglia. - Cos’ha?!
    - Tranquilla, è solo… un grosso bruttissimo mal di pancia - se hai sette anni i mal di pancia sono la cosa peggiore del mondo, Sayuri se la berrà alla grande - Non ce la fa a tornare a casa da sola.
    Sayuri salta giù dal letto senza che le dica nulla. Decido di portarla in pigiama per non perdere tempo a farla vestire, mettendole scarpe e giacca.
    Il modo più veloce di spostarmi è la Materializzazione. Fortunatamente conosco la zona ed ammetto che sono piuttosto stranita perché Daphne mi aveva detto che il posto si trova in tutt’altro quartiere e soprattutto… non mi sembra si chiamasse Fairy Tale.
    Possibile che sia io a ricordare male?
    Ci materializziamo in una stradina vicina, con la mano stretta intorno a quella di Sayuri, percorro il tratto che ci separa dal locale con passo frettoloso.
    C’è un ragazzo sul marciapiede illuminato solo dai lampioni, proprio davanti l’ingresso di un locale che attira tutta la mia attenzione. Quasi mi cade la mascella mentre lo osservo, percependo la musica che viene da dentro, pensando che non ha niente a che vedere con quello che mi ha descritto Daphne. Non mi ci vuole molto per capire di cosa si tratti, aiutata anche dalle locandine appese fuori.
    - Cristo… - impreco sottovoce, raggiungendo il ragazzo con l’eyeliner blu - Sei Bradley?
    Risposta affermativa. Inspiro e lancio poi un’occhiata a Sayuri. Anche lui la guarda, strabuzzando un po’ gli occhi, forse non aspettandosi che ci sarebbe stata una bambina al seguito. Trattengo a malapena altre imprecazioni. Improvvisamente sono più arrabbiata con Daphne che altro.
    - Non ho intenzione di farla entrare là dentro, devi rimanere qua fuori con lei.
    - Ma… io…
    - Niente ma, ha sette anni. Penso sia un po’ illegale, non trovi?
    Non può che essere d’accordo con me, ma mi sembra nervoso all’idea di ritrovarsi con una tale responsabilità. E fa bene ad essere nervoso. Mi avvicino a lui e abbasso la voce in modo che Sayuri non possa sentire.
    - Ti sto affidando la persona più importante della mia vita, Bradley. Se le succede qualcosa non pensare di riuscire a svignartela perché ti troverò, ti strapperò le palle e le userò per soffocarti. Ci siamo capiti?
    Bradley annuisce freneticamente senza osare protestare. Bravo ragazzo.
    - Sayu, ora vado a prendere Daphne. Tu starai con il suo amico Bradley. Non devi assolutamente allontanarti da lui, inteso?
    - Sì, mammina - da brava bambina obbediente, Sayuri afferra la mano di Bradley. Non posso fare a meno di sperare che quella mano non abbia toccato cose con cui mia figlia non dovrebbe venire a contatto.
    - Torno presto.
    Un’ultima occhiata al ragazzo, prima di varcare la soglia del locale, venendo investita in pieno dalla musica. Il posto è gremito di gente. Soprattutto di gente che non vorresti vedere in un luogo del genere. Osservo con disgusto gli uomini di mezz’età totalmente rapiti dai ragazzi e dalle ragazze che ballano sulle passerelle, con addosso più pelle che vestiti. È quindi questo il luogo in cui lavora Daphne? Per un folle, spaventoso momento, me la immagino a ballare con gli altri ragazzi, lo stomaco mi si stringe in una morsa carica di rabbia e gelosia, poi la mente prende il sopravvento: Daphne non si presterebbe mai a niente del genere. Però è chiaro che, a prescindere da quale sia il suo ruolo, lavori qui, aveva detto che sarebbe stata di turno questa notte.
    Improvvisamente mi sento tradita. Mi ha mentito. Per mesi.
    Finalmente la trovo, accasciata su una sedia, con due ragazzi accanto a lei. Provo l’impulso di raggiungerla, afferrarla per le spalle e chiederle perché cazzo mi abbia fatto una cosa del genere, ma quando sono abbastanza vicino da vederla in faccia, ogni proposito di farle una scenata va in fumo.
    È pallidissima, sta tremando e sembra far fatica a respirare. Non è come quella volta in accademia… è peggio. Penso, nel panico, ad un’overdose e con fare un po’ aggressivo mi rivolgo subito ai due.
    - Perché non avete chiamato un’ambulanza?!
    Razza di idioti, incapaci, inutili. Mi chino davanti a Daphne, mentre gli altri due biascicano qualcosa sul metterla e mettersi nei guai che non sto a sentire.
    Le prendo il volto tra le mani per guardarla. Ha le pupille dilatate e lo sguardo pieno di panico. Il suo respiro rotto mi fa sentire male.
    - Daphne, sono Harumi. Ehi mi senti? - la mia voce però esce ferma, sembra quella di qualcuno che ha la situazione sotto controllo e sa cosa deve fare.
    In realtà non ne ho la più pallida idea. Correrei subito all’ospedale se fosse per me, ma ho paura che non me lo perdonerebbe. Certo, c’è di mezzo la sua vita, quindi al diavolo la sua reputazione del cazzo. Però è cosciente, questo è già qualcosa. Se fosse stata un’overdose sarebbe già a terra morta a quest’ora.
    - Ha vomitato? - alzo lo sguardo sui due ragazzi e uno di loro annuisce.
    - Parecchio - risponde.
    Ok magari ha buttato giù parte di qualunque merda si sia presa.
    - Daphne, ascolta, sai se Bram è a casa?
    Mi sembra che annuisca, spero di non sbagliarmi e che non sia solo un qualche riflesso. Inspiro.
    - Va bene, senti, non ti porto in ospedale, ma chiederemo aiuto a Bram. Io non so cosa fare e non posso aiutarti così, quindi non me ne frega un cazzo se non sa niente e non vuoi che lo sappia. Voi due, aiutatemi a portarla fuori.
    Sayuri è ancora incollata alla mano di Bradley, gli sta parlando a raffica, probabilmente ammorbandolo con ogni dettaglio della nostra vita, ma quando ci vede uscire lo molla e ci viene subito incontro, gli occhi subito pieni di preoccupazione.
    Detesto l’idea che veda Daphne in questo modo e so che Daphne stessa non se lo perdonerà, ma cos’altro posso fare?
    - Daphne ha vomitato tanto, per questo ora sembra molto… stanca e non riesce a parlare. Ricordi quando hai avuto quell’influenza intestinale e tremavi tanto e non riuscivi nemmeno ad alzarti dal letto?
    Sayuri annuisce, comprensiva, e non può fare a meno di prendere la mano di Daphne con fare rassicurante.
    Sono costretta a chiamare un taxi, non posso smaterializzarmi davanti ai colleghi babbani di Daphne. Per tutto il tragitto Sayuri non fa che tenerle la mano, senza dire niente.
    Una volta a destinazione, con fatica aiuto Daphne ad uscire dall’auto e la sorreggo. Si regge in piedi, fortunatamente, ma tutto il suo peso grava su di me e non è facile camminare in questo modo. Sayu cerca di aiutare come può, chiamando l’ascensore per noi e cercando poi le chiavi di casa nella borsa di Daphne.
    È mia figlia ad aprire la porta e a farci strada nell’ingresso. Mi aspetto di trovare l’appartamento avvolto dal buio e dal silenzio, ma con mia sorpresa c’è una luce che proviene dal salotto e il suono di quella che deve essere la televisione.
    Duke è il primo a correre da noi per accoglierci, abbaiando eccitato e cercando di saltare su Sayuri che si fa scappare un risolino.
    - Ehi, Bram?! Ci serve aiuto qui! - chiamo a voce alta.
    Devono essere i suoi riflessi da medico o quel che è perché faccio appena in tempo a finire la frase che subito appare nel corridoio.
    È inizialmente confuso dalla mia presenza e quella di Sayuri, poi il suo sguardo cade su Daphne e quasi si lancia su di noi, allarmato.
    - Che succede?!
    -Umh… aiutami a portarla in camera, non si sente bene… - lancio uno sguardo a Sayuri - Tu va in salotto e non ti muovere di lì.
    - Ma voglio aiutare! Posso fare l’assistente di Bram e…
    - Vai.in.salotto.
    Sayuri gonfia le guance e marcia in salotto seguita da Duke.
    Aspetto di essere in camera di Daphne e che la porta sia chiusa, prima di spiegare a Bram cosa succede. La aiutiamo a sedersi su una sedia.
    - Ha preso qualcosa…
    - Che diavolo stai dicendo?! - è già chino davanti alla danese e le sta controllando gli occhi - Daphne non…
    Si interrompe, osservando le pupille dilatate della rossa, la sua pelle pallida ed il modo in cui respira.
    - Ti prego dimmi che non ho fatto una cazzata a portarla qui. Saremmo dovute andare in ospedale, vero?!
    Non risponde, forse non potendo darmi realmente una risposta a questa domanda.
    - È ancora cosciente - dice poi, cautamente come se non volesse sbilanciarsi troppo - Daphne, che cosa hai preso? Devi dirmi che cos’era e la quantità.
     
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    Dentro di lei era puro caos. I pensieri cambiavano ritmo con un'alternanza spaventosa, schizofrenica: un attimo prima erano troppo veloci, al punto da accavallarsi su sé stessi e capitolare oltre la sua coscienza prima che un qualunque guizzo di comprensione potesse permetterle di afferrarli; un attimo dopo invece rallentavano dilatandosi oltremisura e perdendo senso nella loro assenza di continuità. Anche fuori da lei era il caos. Le persone che le si muovevano attorno erano prese da una frenesia a cui Daphne faticava a stare dietro, le loro voci si sovrapponevano e talvolta alcuni di loro sparivano improvvisamente - Brad al telefono, Chase che confabulava con il barman che si era appena affacciato nella stanza - per poi ricomparire e sembrare ancor più agitati di prima. Un paio di volte ebbe l'impressione che fossero giunte altre persone, persone che non potevano in alcun modo trovarsi effettivamente lì: Jasper, Yoko, il professor Caine? La terza tra quelle possibilità la fece sobbalzare e per un attimo i campanelli d'allarme legati alla sua immagine suonarono tutti insieme, provocandole un'acuta fitta di mal di testa e un'ulteriore ondata di nausea che, chissà come, si risolse tuttavia in un nulla di fatto. Biascicò sentendo le fauci spaventosamente secche, come se non bevesse da giorni e giorni. Non fece alcuni sforzo, tuttavia, per chiedere dell'acqua. Avrebbe voluto che tutte le persone attorno a lei se ne andassero, ma allo stesso tempo era terrorizzata all'idea di essere lasciata sola.
    Quando l'immagine di Haru si materializzò davanti a lei, Daphne si prese qualche istante per metterla a fuoco. Era abbastanza sicura che si trattasse di un altro scherzo della sua immaginazione, almeno finché non ne udì la voce: suonava troppo chiara e allarmata perché fosse solo nella sua testa. Si sforzò di annuire alle domande dell'altra, più perché era al contempo grata e destabilizzata dalla sua presenza che perché fosse davvero convinta che un "sì" fosse la risposta più corretta da dare. Per la medesima ragione annuì anche di fronte alle parole della ragazza che sembrarono più ordini che richieste, la sua mente improvvisamente aggrappata al ricordo di Harumi che la aiutava a percorrere l'ultimo tratto del ponte sospeso sulle cascate dell'accademia. Ricordò il battito furioso del suo cuore, identico a come lo avvertiva ora, l'umidità dell'acqua nell'aria, l'abisso sotto di sé. E la presa salda di Haru a cui si aggrappò nuovamente.
    E in un attimo Bradley e gli altri erano spariti e la musica martellante del Fairy Tale con loro. L'aria della notte le pungeva la pelle, provocandole i brividi malgrado l'Estate imminente. Il sedile di un auto sotto di lei, una piccola mano che stringeva la sua. La mano di una bambina. Sayuri. Improvvisamente il desiderio di piangere l'aggredì con prepotente violenza, ma in quello stesso momento in barlume di lucidità in lei la costrinse la trattenere le lacrime con tutte le sue forze. A Sayuri rivolse quello che sarebbe dovuto essere un sorriso, poi chiuse gli occhi e non li riaprì finché non sentì le braccia di Harumi che l'aiutavano ad uscire dalla macchina. Il tintinnio di chiavi fu seguito dall'abbaiare frenetico ed entusiasta di Duke, ma solo la voce squillante e allarmata di Harumi le permise di rendersi effettivamente conto che di lì a poco anche Bram sarebbe stato lì con loro. La sua ragazza e il suo migliore amico, le ultime persone che avrebbero dovuto vederla in quelle condizioni. L'ansia la travolse di nuovo come una potente onda d'urto, sobillata dai processi chimici in atto da troppi giorni consecutivi nella sua psiche. Il suo cuore era un cavallo imbizzarrito, gli zoccoli sbattevano contro la sua cassa toracica decisi a sfondarla. Un solo stralcio di sollievo nel rendersi conto che la Wàng aveva costretto la figlia a restare in soggiorno, la figura della bambina si allontanava dal suo sguardo offuscato, Duke impettito al suo fianco come un piccolo cavaliere nero a guardia di una giovanissima principessa.
    Sayuri aveva un custode che non poteva rivolgerle alcuna domanda, ma in ogni caso la piccola non avrebbe fatto alcuna fatica a trovare una qualsiasi risposta. Lo stesso non si poteva dire per Daphne che di domande ora ne stava ricevendo, mentre aggrappata alla sedia cercava di mantenere un'equilibrio che le appariva più precario che mai.
    Solo.. sussurrò, la voce roca che grattava come sabbia contro la sua gola riarsa dalla sete Adderall.
    La parola suonò come una confessione scabrosa, mentre Daphne allungava la mano verso la sua borsa - ora crollata sul pavimento - ad indicare all'interno di essa la presenza della confezione del farmaco e quasi ad imputare ad essa ogni colpa, con quel semplice gesto. Trovò più difficoltoso rammentare l'ultimo dosaggio ingerito, ma alla fine biascicò qualcosa di comprensibile continuando ad osservare la sua stessa borsa come se si aspettasse di veder saltar fuori qualcosa.
    Di solito non lo prendo.. per troppi giorni di seguito.
    Sollevò finalmente lo sguardo nell'arrangiare quella spiegazione. I suoi occhi si spostarono tra quelli di Harumi e quelli di Bram, come se cercasse in ognuno di quegli sguardi la conferma di essere creduta. Stava dicendo la verità. O almeno era la verità fino a qualche mese prima, ultimamente le cose erano precipitate. Il frenetico dibattersi del suo cuore subì una breve interruzione, segnata da una fitta di dolore al petto che le fece stringere i denti ed emettere un lieve lamento.
    Credo.. mormorò, esitando solo per un istante su una consapevolezza che ora le appariva più netta che mai ..Credo mi stia uccidendo.
    I suoi occhi azzurri sembrarono farsi più grandi, non solo perché le pupille erano spaventosamente dilatate. Sembrarono ingigantirsi nella loro totalità, sgranati dal puro panico che li invase annegando nell'azzurro delle iridi.
    Mi dispiace, mi dispiace..
    Gemeva quelle parole in preda al terrore: la paura le rendeva ambigue, facilmente fraintendibili. Sembrava chiaro che fosse dispiaciuta perché aveva assunto l'Adderall, ma la sua verità arrivò in istante dopo.
    Non ce la faccio senza.
    Aver bisogno dell'Adderall per essere davvero perfetta la mortificava terribilmente. E quella sensazione, per quanto apparentemente fuori contesto in un momento tanto concitato, sembrava ora esasperata dal suo stato mentale, sovraccaricata dal panico di cui era preda.
     
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    Non riesco a decifrare l’espressione sul volto di Bram e questo mi manda ai matti. Non so dire se sia preoccupato, e a che livello, o se non lo sia affatto.
    È entrato in piena modalità guaritore e questo lo rende impossibile da leggere. La sua espressione è seria, concentrata, e la sua attenzione è dedicata unicamente a Daphne.
    Non mi rivolge alcuna occhiata o cenno e non credo mi stia tagliando fuori, semplicemente sta facendo il suo lavoro.
    Io però ho bisogno di sapere, l’ansia mi sta attanagliando lo stomaco e se non mi dessi un minimo di controllo probabilmente inizierei a respirare come Daphne.
    Tengo le mani sulle spalle della rossa per impedirle di cadere dalla sedia, visto il suo equilibrio instabile, ma allo stesso tempo è come se mi stessi aggrappando io stessa a qualcosa pur di non cedere.
    Finalmente Daphne riesce a dire qualcosa, quel tanto che basta per comunicare cosa abbia assunto. Adderall. Non è la prima volta che lo sento nominare e per quel che ne so si tratta di un farmaco. Ha senso, quando l’ho aiutata la prima volta avevo intuito che si trattasse di qualcosa che aiuti con la concentrazione e di solito gli studenti puntano a farmaci del genere. Ma la mia conoscenza si ferma qui, non ho idea se l’Adderall preso in quantità superiori della norma possa essere pericoloso.
    Lancio un’occhiata allarmata a Bram, ma lui è ancora concentrato su Daphne. Le ha preso il polso e sta guardando il proprio orologio mentre conta muovendo appena le labbra, senza alcun suono.
    La lascia poi andare, per prendere la scatola del farmaco dalla sua borsa. C’è un solo blister al suo interno.
    - Era ancora pieno quando lo hai iniziato oggi? - le chiede calmo, controllando quante pillole mancano.
    Mi faccio ancora più tesa nel sentirle dire che di solito non lo assume per più giorni di seguito. C’è un di solito ed io questo non riesco a sopportarlo, né ad accettarlo. Come ho potuto non accorgermene? È colpa mia? Ultimamente sono stata così tanto concentrata su me stessa e quello che stava accadendo con Sayuri… mi sento un mostro. Forse ho trascurato Daphne, forse se le avessi dedicato più tempo e attenzioni… non so, magari avrei capito qualcosa o si sarebbe sentita abbastanza supportata da non ricorrere a mezzi del genere.
    La valanga dei pensieri che mi stanno assalendo viene interrotta dal lamento di Daphne. Quasi scatto, con il cuore in subbuglio. Credo di essere pallida almeno quanto lei a questo punto. Non mi aiuta vederla ancora più spaventata ed il fatto che arrivi a dire che la stia uccidendo. Se non ci fosse qui Bram, probabilmente andrei nel panico più totale. Mi sarei materializzata con lei al San Mungo nell’arco di un secondo, ma lui non sembra perdere la calma e questo un po’ mi rassicura.
    - Non stai morendo, ok? - le ha preso il viso tra le mani, sembra quasi capire il panico con cui sta avendo a che fare Daphne.
    Lei si scusa, sempre più spaventata. Si scusa di non riuscire a farcela senza e la mia stretta sulle sue spalle si fa istintivamente più forte.
    Mi sento uno schifo per non riuscire a parlare, non riuscire a rassicurarla come sta facendo Bram, ma non mi vengono le parole in questo momento.
    - Daphne, ascolta, devi provare a calmarti. Respira con me, ok? Inspira a fondo ed espira. Lentamente. Così - le mani di Bram sono strette gentilmente, ma saldamente, sugli avambracci di Daphne. Le mostra come respirare e lo fa per diversi secondi, cercando di accompagnare il respiro di lei. Provo ad accodarmi, ma mi rendo conto di avere la gola stretta.
    Finalmente Bram alza lo sguardo su di me. - È in overdose - annuncia con un tono così calmo che quasi mi irrita.
    - Che cosa?!
    Ma allora perché siamo qui a perdere tempo?! Avrei dovuto portarla in ospedale, sono stupida almeno quanto i suoi colleghi, ma pensavo di fare la cosa giusta per lei portandola qui.
    - L’overdose da Adderall non è mortale - si affretta ad aggiungere il Dubois vedendomi forse sul punto di esplodere - Ha solo dei brutti effetti collaterali, molto simili a quelli di un attacco di panico, ma peggio. In casi estremi può causare un infarto, ma sono certo che non sia questo il caso.
    Torna a guardare Daphne. - Hai dolore alla gola e mandibola? Spalla sinistra? No? Bene. Continua a respirare lentamente e a fondo. Puoi farcela.
    Bram si alza, dopo averle dato un’ultima strizzata rassicurante alle braccia. Non sembra voler parlare di quel "non ce la faccio senza" e penso di capirlo: Daphne non è nelle condizioni di sostenere una conversazione del genere in questo momento e ad essere sincera nemmeno io.
    Ho prima bisogno di sapere che sta bene, che è tutto a posto, che non ho sbagliato a portarla qui piuttosto che in ospedale.
    - Torno subito.
    Il Dubois si congeda dopo avermi lanciato un’occhiata, quasi fosse un monito gentile a continuare a sostenere Daphne e soprattutto a non farle domande, ma va bene così, tanto non riesco ancora a dirle niente.
    Però mi concentro sulla mia respirazione, come ha fatto lui poco fa, per spingerla a continuare a fare altrettanto.
    Quando il ragazzo torna, ha con sé una fialetta. La porge a Daphne, tornando a chinarsi davanti a lei.
    - Ecco bevi questa, aiuterà a regolarizzare il battito del cuore. È una dose un po’ più alta di quella che prendo per gli attacchi di panico, dovrebbe esserti di aiuto. Ora, penso che potrebbe essere una buona idea andare lo stesso in ospedale. Uno babbano, se preferisci evitare il San Mungo. Possono farti dei controlli e delle analisi che io non posso fare qui. Ti terrebbero in osservazione per qualche ora, forse il resto della notte, che ne dici?
    A questo punto mi chino anche io, affinché Daphne mi veda meglio.
    - Verrei con te. E rimango con te tutta la notte. Mi sentirei molto più tranquilla… - la guardo e poi lancio un’occhiata a Bram - Sayuri può rimanere qui con Bram, non è un problema, giusto?
    Lui annuisce, stringendo una mano attorno a quella di Daphne e guardandola con fare incoraggiante.
     
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    La presenza di Haru e Bram era perlopiù un rumore di fondo, sovrastato da ciò che avveniva dentro di lei. Il contatto corporeo, tuttavia, sembrava creare brevi corridoi di comunicazione tra Daphne e i suoi soccorritori: la presa di Harumi sulle sue spalle, la pressione delle dita di Bram sul suo polso, leggere scariche elettriche di connessione puramente fisica che la aiutavano a cogliere sprazzi di realtà. Fu proprio grazie a quei contatti che la rossa riuscì, qualche istante dopo averla udita, a comprendere la domanda che il Dubois le aveva rivolto.
    Annuì, la mente che vagava a diverse ore prima.. quando aveva aperto una nuova confezione di Adderall pensando a come fosse fastidiosamente dispendioso procurarsi quell'aiuto chimico, da quando doveva tenere conto di ogni spesa. Ciò non le aveva impedito di eccedere, anzi: era stato l'ennesimo particolare che aveva contribuito a farla sentire sopraffatta e bisognosa di quel sostegno. Ora Bram le stava dicendo altro, le stava assicurando che il macigno che la opprimeva e le toglieva il fiato non era mortale, che non l'avrebbe soffocata per sempre come un'esemplare punizione piovuta dal cielo solo per lei. Non era facile credergli, non era facile concentrarsi sulle sue parole perché non sembravano reali, quasi provenissero da un universo onirico, uno in cui Haru aveva perso il dono della parola.
    Non riesco, Bram non ci riesco..
    Le stava chiedendo di ispirare ed espirare. Una richiesta semplice, qualcosa che si era imposta lei stessa innumerevoli volte: che fosse per placare l'ansia o per portare a termine qualche esercizio in palestra. Eppure ora sentiva di non aver alcun controllo del proprio corpo. Scosse la testa, come a negare la sua capacità di assecondare le richieste dell'amico, quasi rifiutandosi categoricamente di farlo: per un istante si rese conto che, in modo del tutto irrazionale, l'idea stessa di sforzarsi nel controllare la respirazione la terrorizzava. La presa di Harumi si fece improvvisamente un po' più stretta, lo sguardo di Bram invece era fermo su di lei, carico di una calma infinita che rese fiacco il suo tentativo di opporsi: lentamente, imitare il ragazzo risultò più naturale. Inspirò ed espirò, una sequenza talvolta interrotta da qualche debole verso strozzato.
    Io..
    Scosse la testa, nessun dolore alla gola e ricordava di avere la spalla sinistra solo perché Harumi la stringeva ancora. Guardò l'americano allontanarsi e nel suo campo visivo rimase solo Harumi: anche lei inspirava ed espirava, ma sembrava più spaventata che mai.
    Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace..
    Singhiozzò all'improvviso, gli occhi lucidi di lacrime. Aveva ripetuto quelle stesse parole poco prima, ma non le importava. Non riusciva a dire altro. Le dispiaceva saperli lì: Bram, Harumi e persino Sayuri, nell'altra stanza, intenti ad assistere all'impietosa manifestazione delle sue debolezze, al crollo di ogni difesa ed ogni controllo. Le sue condizioni erano simili al giorno in cui Harumi l'aveva trovata nascosta in camera dopo l'incontro con Soren a Copenaghen, sepolta tra quelle quattro mura da giorni e totalmente abbandonata a sé stessa. Eppure, allo stesso tempo, il suo stato attuale era molto diverso: ora la paura era una presenza invadente, le risultava difficile pensare al proprio aspetto o persino alle parole che intendeva pronunciare nell'immediato. Ma più migliorava nella respirazione e più qualche stralcio della vergogna e della mortificazione che razionalmente avrebbe provato sapendosi in quelle condizioni si affacciava alla sua coscienza. Deboli lampi di luce che la portarono a reagire con impeto di fronte al ritorno di Bram e alla sua improvvisa proposta.
    No! sgranò i grandi occhi azzurri, atterrita, ignorando momentaneamente la fialetta che le veniva offerta In ospedale..?? No, loro.. nessun altro deve saperlo!
    Loro. C'erano sempre dei loro nella sua mente. Persone da cui ricevere giudizi, valutazioni. Persone da conquistare, ammaliare, di cui voleva ottenere la stima e l'ammirazione. Lo sguardo di tutti era sempre stato fisso su di lei: a volte quella certezza la tormentava, altre si rendeva conto che non avrebbe mai potuto farne a meno. Comprese che, da un momento all'altro, avrebbe lasciato nuovamente spazio all'angoscia e così si avventò finalmente sulla fialetta bevendone il contenuto così in fretta che quasi si strozzò. Chiuse gli occhi nell'attesa che il battito cardiaco si regolarizzasse con la rapidità che solo la medicina magica rendeva possibile.
    Non posso perdere anche questo, non posso..
    Scandì quelle parole con voce tremante dopo un lasso di tempo che le parve infinito, quando finalmente le parve che nel suo petto e nella sua testa non stessero più infuriando incontrollabili tempeste. Le sue parole risultarono a lei stessa sconnesse e senza senso: intendeva dire che non poteva - non voleva - annientare l'immagine che il mondo aveva di lei, quella che si dava tanta pena di tenere viva agli occhi degli altri, ma non era sicura di essersi espressa in modo chiaro o logico. Il risultato non migliorò affatto quando la figura di Soren Bachskov le attraversò la mente con la rapidità di un lampo.
    Mio padre! Se lui lo viene a sapere.. verrà a prendermi..
    Si lasciò sfuggire un gemito angosciato. Un'altra ragione per temere l'ospedale, magico o babbano che fosse. Era possibile che al nuovo proprietario del Fairy Tale fosse arrivata voce di quanto le era accaduto? Forse non aveva senso pensare che ciò che i ballerini avevano nascosto persino ai loro immediati superiori fosse già arrivato alle orecchie di Bachskov, per il quale il Fairy Tale era solo una delle tante fonti di reddito e che sicuramente quella sera si trovava lontano da Londra - in Danimarca o chissà dove - intento a dedicarsi a questioni più importanti. Eppure ora l'idea che suo padre fosse pronto a setacciare gli ospedali di tutta Londra per prenderla di peso e riportarla a villa Bachskov, per quanto folle.. le appariva più vivida che mai. Disperata, la Morrow agguantò le mani di Harumi, spinta dallo stupore provato nel sentirla finalmente prendere parola. Le strinse convulsamente, aggrappandosi a quei due occhi scuri, lucidi come perle nere d'Oriente.
    Ho paura.
     
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    Non ho mai avuto un attacco di panico, non so cosa voglia dire avere la sensazione di star per morire senza che accada davvero ed è forse questo mio non saperlo che rende tutto quello che sta accadendo ancora più spaventoso.
    Magari Bram comprende più di me, ed è per questo che è così calmo o forse è semplicemente perché il suo lavoro lo richiede, ma quando Daphne dice non poter respirare come l’ha invita a fare, io mi irrigidisco ancora di più.
    Devo fidarmi di Bram? Della sua tranquillità e del modo in cui sta affrontando la cosa?
    Razionalmente so che è la cosa giusta da fare, lasciare che il panico prenda il sopravvento peggiorerebbe solo la situazione ed è per questo che continuo a restare da parte, in silenzio.
    - Ecco, così - dice lui a bassa voce quando finalmente Daphne lo asseconda e ne segue il respiro.
    Apprezzo come non la lasci andare, quanto sia paziente nel guidarla e non demorda.
    Mi crolla il mondo addosso quando, una volta rimaste sole, lei inizia a singhiozzare a dire che le dispiace. Dovrei abbracciarla e mi chiedo perché non riesca a farlo. Sono un mostro? Sono così meschina da non darle il conforto di cui ha chiaramente bisogno ora?
    Mando giù il nodo che sento essersi formato in gola e mi limito soltanto a mantenere la presa sulle sue spalle.
    La verità è che non sono solo preoccupata a morte, non posso negarlo. Sono arrabbiata. Arrabbiata con me stessa e con lei. Con lei per avermi fatto questo, per non avermi detto di aver bisogno di aiuto, per avermi costretta a trascinare Sayuri fuori dal letto e poi fino a quel maledetto locale, per avermi mentito sul suo lavoro. Credevo non ci fossero segreti tra noi, che contassimo l’una sull’altra senza bugie ed invece per lei non è evidentemente così. Non può passare tutto con un "mi dispiace", questa è qualcosa di cui dovremo discutere non appena starà meglio e sarà abbastanza lucida per farlo.
    Spero che la pozione che Bram le ha appena dato faccia effetto in fretta, non voglio continuare a vederla così, non importa quanto ce l’abbia con lei, ho bisogno di sapere che sta bene.
    La sua reazione alla proposta di andare in ospedale non mi sorprende, sapevo che avrebbe detto di no e mi ritrovo in un limbo: dovrei insistere? Portarcela di forza? Non voglio peggiorare il suo stato d’animo e nemmeno quello fisico facendola agitare di più.
    Bram sembra essere dello stesso avviso perché subito le accarezza le braccia e poi i capelli.
    - Ok, calma. Non andiamo se non vuoi - sussurra.
    Voglio dire… lui sa quello che fa, giusto? Se qualcosa dovesse andare storto saprebbe come intervenire immagino.
    Eppure non riesco ad essere del tutto tranquilla e mi disturba il reale motivo per cui Daphne non voglia andare in ospedale. Il giudizio altrui, persino più importante della sua salute a quanto pare. Sento di essere ad un punto in cui non sono in grado di empatizzare con lei, almeno non su questo, ma quando nomina suo padre, Bram ed io non possiamo fare a meno di scambiarci un’occhiata.
    Mi è difficile distinguere tra la paranoia di Daphne e ciò che potrebbe essere vero e per quanto sono certa che suo padre sia pericoloso, non sono sicura che possa sapere di quanto appena successo a sua figlia. A meno che non la faccia seguire, ma se così fosse, ci hanno già viste lasciare quel locale, hanno visto in che condizioni era Daphne. Un brivido mi corre lungo la schiena.
    Quasi sussulto quando mi afferra improvvisamente le mani, ma non mi ritraggo e cerco il suo sguardo.
    - Va tutto bene - uso il tono più rassicurante che riesco a trovare, ricambiando la stretta - Rimaniamo a casa. Ti senti un po’ meglio ora?
    Bram le ha preso nuovamente il polso, controlla i battiti, poi annuisce.
    - Ok, ti aiuto a metterti il pigiama, così puoi metterti a letto - aggiungo, tirandomi su e accarezzandole i capelli.
    Bram ci lascia sole in camera. Nel cassetto perfettamente ordinato del comò di Daphne trovo il suo pigiama. L’aiuto a spogliarsi e ad indossarlo e l’accompagno poi verso il letto.
    - Vado a vedere come sta Sayuri e poi vengo a portarti dell’acqua, ok? - le dico piano, mentre si sdraia, tirando il lenzuolo su di lei. - Non vado via, capito? Rimango qui.
    Mi sembra doveroso spiegarglielo, quasi con il timore che, nello stato mentale in cui si trova ora, possa credere che la stia abbandonando. Non potrei mai fare una cosa del genere, non importa quanto sia arrabbiata, mai le volterei le spalle in quel modo.
    Quando esco dalla stanza mi chiudo la porta alle spalle e solo allora mi lascio andare ad un lungo respiro.
    Chiudo gli occhi per qualche secondo e quando li riapro vedo Bram venirmi incontro.
    - Sayuri si è addormenta - annuncia - È in salotto sul divano, ma sono contento di cederle il mio letto.
    - Oh no, non preoccuparti, non voglio essere di disturbo.
    - Vuoi scherzare? Nessun disturbo e poi non dormo la notte, il letto non mi serve.
    Gli rivolgo una strana occhiata e sembra notarlo, reagendo all’improvviso con un po’ di disagio.
    - Faccio i turni notturni al San Mungo. Quando sono di riposo non riesco a dormire per abitudine - si affretta a spiegare.
    - Capisco. Beh se davvero non è un problema, grazie. Vengo a prenderla, così posso portarla in camera tua.
    - Lascia, faccio io.
    Quando si volta per tornare in salotto sono quasi tentata di fermarlo, dirgli di rimanere con Daphne e lasciare che mi occupi io di Sayuri, sentendomi subito dopo una vigliacca che non vuole affrontare una situazione scomoda. Ho detto a Daphne che non me ne andrò e questo equivale anche al non nascondermi in camera di Bram per il resto della notte.
    Lascio che si occupi lui di Sayuri e vado in cucina a prendere dell’acqua per Daphne. Al mio ritorno la stanza è silenziosa, ma lei è ancora sveglia.
    Poso l’acqua sul comodino e senza esitazione mi libero dei vestiti, prendendo uno dei pigiami della rossa. Quando mi stendo accanto a lei sento che gran parte della frustrazione è scemata. So che tornerà domani, so che vorrò confrontarla e capire e forse esprimerle il mio disappunto, ma per ora voglio solo che stia tranquilla e dorma.
    Mi allungo per spegnere la luce e mi sdraio su un fianco, il volto rivolto verso di lei prendendole le mani. Dopo un attimo di silenzio inizio a canticchiare sottovoce. Mi rendo conto ben presto che è una ninna nanna che mi cantava mia madre quando ero più piccola e che io stessa ho cantato a Sayuri quando ne aveva bisogno. La ninna nanna di Takeda è una delle più belle e famose in Giappone, ma anche una delle più tristi, eppure riusciva sempre a calmarmi, così come calmava anche Sayuri.
    Continuo a sussurrarne le parole, in attesa che facciano il loro magico effetto non solo per Daphne, ma anche per me.
     
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    Si rese conto di quanto dovevano essere parsi supplichevoli i suoi occhi e angosciata la sua voce, quando vide Bram affrettarsi prontamente a rassicurarla. In realtà i modi del Dubois poco avevano a che fare con la fretta: le accarezzava i capelli con la dolcezza di un fratello, le parlava in tono pacato e confortante. A Daphne però non poteva sfuggire la premura con cui aveva deciso di assecondarla, pur nel suo stato di percezione ancora parzialmente alterata la Mikkelsen si rese conto di quanto il suo migliore amico fosse preoccupato per lei. Si sentì sul punto di sprofondare in un groviglio di sensi di colpa, ma ciò non le impedì di annuire freneticamente in risposta alle parole del ragazzo, grata di non dover combattere per evitare che la trascinassero in ospedale.
    Il suo cuore, nel frattempo, aveva smesso di agitarsi con la frenesia di un'animale in gabbia. I suoi battiti sembravano aver assunto lo stesso ritmo dei suoi respiri, finalmente più regolari dopo l'esercizio di respirazione fatto con Bram e Harumi. Le sue sinapsi parvero distendersi lentamente, non come se tutto le apparisse finalmente più chiaro ma piuttosto come se qualcuno - o piuttosto "qualcosa" - avesse assunto la direzione del suo cervello, imbottigliando il caos in uno stato di maggiore quiete. La sua presa sulla realtà non era migliorata ma ora quel distacco aveva le sembianze di un vago torpore, non si trattava più di un estraniamento ansiogeno e caotico.
    Un po'.. sì.. stava sicuramente meglio di prima, la paura era progressivamente scemata Va bene.
    Accettò di buon grado l'idea di andare a letto e persino quella di ricevere assistenza nell'indossare il pigiama. Lo fece con la remissività di una bambina obbediente, come se fosse diventata improvvisamente nient'altro che una piccola Daphne fragile e bisognosa di protezione, incline ad accogliere qualunque forma di accudimento provenisse dalle due persone che le erano accanto. Si rifugiò nel suo letto e lasciò che Haru la coprisse, lasciandosi sorprendere dalla consapevolezza che mai - quando bambina lo era stata davvero - qualcuno l'aveva coccolata con quel semplice rituale. Annuì di nuovo, timidamente, osservando con un nuovo guizzo di sensi di colpa la Wàng sparire per occuparsi dell'unica vera bambina presente in quella casa.
    Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato, quando la porta della sua camera si riaprì lasciando entrare la luce del corridoio solo per qualche istante. Strisciò sotto le lenzuola, scostandole da sé solo il necessario per poter allungare la mano verso il comodino. Un sorso d'acqua e tornò ad immergersi nel letto, come avrebbe fatto in uno specchio d'acqua che le permettesse di non mostrarsi in superficie, celando la sua presenza. Quando la sua ragazza le prese le mani iniziando ad intonare una melodia giapponese che aveva il rassicurante ritmo di una ninnananna, Daphne rimase ad ascoltarla per un po', le labbra dischiuse e gli occhi lucidi. Una ninnananna.. un altro gesto di amore e cura che nessuno le aveva mai rivolto.
    Si addormentò così, le guance ancora umide di lacrime.

    Daphne esitò, titubante, ad un passo dall'ingresso della cucina. Era ad un soffio dal rivelare la sua presenza e proprio in quell'istante tutto il tempo trascorso in bagno a tentare di presentarsi nel migliore dei modi le parve tempo buttato, perso, incredibilmente inefficace nel procurarle quel senso di sicurezza che solitamente prendersi cura del proprio aspetto le offriva. La prima sensazione che l'aveva colta al risveglio era stata una pressione alle tempie, debole ma costante. Aveva indugiato ben più di qualche minuto autocommiserandosi mentre accarezzava Bijou accoccolata al suo fianco, poi - come presa da un'improvvisa scarica di energia - si era alzata di scatto e aveva iniziato a prepararsi. Si era fatta una doccia e lavata in capelli, liberandosi di ogni traccia del Fairy Tale le fosse rimasta incollata addosso, poi si era dedicata alla sua skincare mattutina e infine si era vestita, indossando abiti con cui si sarebbe presentata in accademia o in qualsiasi altro contesto non prevedesse di restarsene nascosta tra le mura domestiche. L'immagine che lo specchio le aveva restituito l'aveva soddisfatta e aveva lasciato la sua camera convinta di essere pronta ad affrontare qualunque realtà vi fosse al di là di quella stanza immersa nella penombra, rifugio che aveva abbandonato solo per il tempo trascorso in bagno. Ma avvicinandosi alla zona giorno dell'appartamento, ogni sciocca pretesa di sicurezza l'aveva rapidamente abbandonata.
    Ehy.
    Fu solo un mormorio il saluto che rivolse ad Harumi, apparentemente l'unica persona presente tra il soggiorno e la cucina. Si schiarì la voce, evitando lo sguardo della mora e sentendosi decisamente ridicola nel suo look ordinato e ripulito, così distante dall'essenza che abitava dentro di lei e che si era rivelata agli occhi di Haru e Bram la sera precedente.
    Quanto ho dormito? come ogni volta che una situazione la rendeva nervosa, Daphne lasciò correre lo sguardo all'orologio sgranando poi gli occhi nel rendersi conto che la mattinata era ormai così inoltrata da avvicinarsi all'ora di pranzo Ho perso tutta la mattina, dovevo fare un sacco di cose!
    Sentì ogni centimetro del suo corpo fremere in risposta alla mancanza di controllo e alla frustrazione che ne conseguiva. Sì sentì assurdamente più proiettata sul come ottimizzare il resto della giornata piuttosto che sul presente che avrebbe dovuto affrontare. Incrociare lo sguardo della Wàng - fino a quel momento rifuggito - la riportò con violenza di fronte ad una realtà che non poteva pretendere di ignorare.
    Mi dispiace. Ti hanno chiamata i ragazzi del Fairy Tale, vero? Non avrebbero dovuto. si decise finalmente ad azzardare, provando un lieve rancore nei confronti dei suoi colleghi che l'avevano, in un certo senso, tradita senza troppi complimenti Non posso credere che tu abbia dovuto portare Sayuri in quel posto. Cosa ha visto?
    Quel pensiero la turbava moltissimo. Non sopportava l'idea che la bambina avesse dovuto varcare le soglie di quel locale, quel luogo che a lei appariva così squallido. Si sentiva terribilmente in colpa e sentiva che quell'emozione sarebbe stata per lei estremamente difficile da digerire: in quel momento la sola idea di incrociare la piccola la metteva profondamente a disagio.
    È tutto sbagliato..
     
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    Ripenso alla conversazione avuta questa mattina con Bram, mentre armeggio con padelle e cibo.
    Quando mi sono alzata dopo poche ore di sonno, l’ho trovato in cucina a studiare e bere caffè. Daphne e Sayuri erano ancora profondamente addormentate, per cui ci siamo messi a parlare di quanto è successo.
    È saltato fuori che nemmeno Bram aveva idea del lavoro al Fairy Tale e questo mi ha in parte rincuorata: se non se ne è accorto lui, vivendo con Daphne, come avrei potuto capirlo io?
    Stessa cosa per quanto riguarda l’Adderall, eppure non riesco a scrollarmi di dosso i sensi di colpa per non essermene resa conto prima.
    L’Adderall non lascia segni, né dà strani sintomi, mi ha spiegato lui in un tentativo di farmi sentire meno in colpa.
    Abbiamo convenuto che Daphne deve assolutamente smettere e soprattutto che abbia bisogno di un aiuto professionale, ma vogliamo parlargliene separatamente.
    Farlo insieme potrebbe farla sentire attaccata e non è ciò che vogliamo. Per questo si è offerto di portare fuori Sayuri e tornare dopo pranzo, dandomi la possibilità di rimanere sola con Daphne e di lasciare fuori Sayu da certe cose.
    Il suo aiuto è decisamente prezioso, in più mia figlia sembra adorarlo e l’idea di passare la mattinata con lui l’ha entusiasmata non poco, ma non ho potuto fare a meno di rivolgere uno sguardo preoccupato all’americano e al suo aspetto esausto quando lui e Sayuri sono usciti di casa.
    Ho aspettato Daphne per quelli che a me sono sembrati secoli. Quando fa il suo ingresso in cucina sono ai fornelli, ma le rivolgo un’occhiata perché non ho intenzione di ignorarla.
    Stringo le labbra nel notare che ha indossato la sua solita maschera fatta di perfezione, persino questa mattina, dopo quello che è successo, non ha potuto farne a meno.
    È difficile trattenermi dal fare un commento e limitarmi a mettere in tavola la colazione che ho appena arrangiato: uova strapazzate, pancakes ai mirtilli e bacon.
    Vorrei chiederle come si sente, ma immagino molto meglio se ha trovato la forza e la voglia di mettersi in tiro, e oltretutto mi resta difficile farlo perché le sue parole mi fanno solo venire voglia di sbottarle contro.
    Continuo a non risponderle per paura di perdere il controllo già da adesso e prendo un paio di respiri in attesa di essere in grado di aprire bocca senza peggiorare le cose.
    - Non avrebbero dovuto così tu avresti potuto continuare a mentirmi? - dico infine, il tono chiaramente infastidito ma normale per ora. - Sayuri non ha visto niente, l’ho lasciata fuori con il tuo collega.
    Vorrei aggiungere che deve solo ringraziare che lui fosse là fuori e che io mi sia fidata, perché se Sayuri avesse anche dovuto assistere a ciò che quel posto contiene, la nostra conversazione di questa mattina sarebbe iniziata in un modo molto diverso.
    - Sì, Daphne, è tutto sbagliato - confermo dopo aver preso il succo d’arancia e aver richiuso il frigo con un po’ troppa forza. Mi volto a guardarla certa che la mia espressione tradisca la rabbia che sto trattenendo a fatica.
    - Ma non il fatto che ti sia svegliata tardi e non abbia potuto fare un sacco di cose, una cosa assurda da pensare e dire dopo quello che è successo, e nemmeno il fatto che i tuoi colleghi mi abbiano chiamata facendo saltare il tuo castello di puttanate.
    Appoggio la bottiglia del succo d’arancia sul tavolo con così tanta veemenza che ho paura il tappo esploda, ma naturalmente non succede niente.
    - Quello che è sbagliato è l’avermi mentito per mesi! Dirmi che lavoravi in un posto che nemmeno esiste probabilmente. Nascondermi che ti fai di Adderall e doverlo scoprire in quel modo!
    E al diavolo il tentativo di parlare con calma, non so nemmeno in quale momento esatto ho iniziato ad alzare la voce, ma non era così che volevo far andare le cose. Eppure come posso sfogare tutto quello che ho provato nelle ultime ore se non così? Tutta la rabbia, tutta la paura e la tensione.
    - Credevo ci dicessimo tutto, che contassimo l’una sull’altra. Che ci fidassimo l’una dell’altra! Ma evidentemente non è così per te. Come hai potuto farmi questo?! Con che coraggio mi hai mentito per tutto questo tempo? Non solo a me, ma anche a Bram! Hai mentito anche a tuo fratello? Hai solo noi, Daphne! Hai riempito di stronzate le uniche persone che avrebbero potuto aiutarti, complimenti.
    Inspiro e sono veramente grata che Bram abbia portato via Sayuri perché con lei presente non sarei stata in grado di lasciarmi andare e parlare così liberamente e trattenermi avrebbe peggiorato le cose. Se sono esplosa così adesso, figurarsi se mi fossi tenuta tutto dentro ancora più a lungo.
    - Ho dovuto svegliare mia figlia in piena notte, trascinarla in un maledetto locale per adulti e lasciarla da sola con uno sconosciuto per recuperarti mentre eri in overdose! Questo è sbagliato! Non poterti portare in ospedale perché ti preoccupi più di quello che pensano gli altri è sbagliato! Il fatto che prendi delle amfetamine perché devi essere sempre perfetta è sbagliato! Ti sei svegliata oggi e le prime cose a cui pensato sono state il tuo aspetto e quello che dovevi fare, assurdo… non importa niente a nessuno della tua maledetta perfezione, Daphne, solamente a te e questa cosa è patologica e distruttiva.
     
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    Non si era svegliata con molto appetito, conseguenza piuttosto comune quando faceva uso dell'Adderall e di cui quindi non poteva sorprendersi. Tuttavia, come già le era capitato altre volte, decise di sforzarsi a mandare giù qualcosa: una decisione che in genere prendeva nella consapevolezza di aver bisogno di energie per affrontare la giornata, ma che in quel caso aveva anche a che fare con il desiderio di mostrare un po' di gratitudine nei confronti di chi le aveva preparato la colazione.
    Un po' la sorprendeva costatare che la sua ragazza intendesse prendersi cura di lei, dal momento che era evidentemente risentita per via degli avvenimenti della sera precedente. O meglio.. soprattutto per ciò che tali avvenimenti avevano portato alla luce. Punzecchiò i pancakes ai mirtilli con la punta della forchetta, apparentemente concentrata sul suo piatto ma in realtà con le orecchie tese a captare le variazioni del tono di voce della Wàng. Il fatto che Sayuri non avesse messo piede all'interno del Fairy Tale le dava un briciolo di sollievo, sapere la bambina lontana anche solo dal poter immaginare un'ambiente del genere era fondamentale per lei. Posto questo, il problema ora era che lo stesso non si poteva dire della madre della piccola Sayu. Harumi era entrata al Fairy Tale, si era sicuramente fatta un'idea dell'ambiente e aveva avuto modo di confrontare quello squallido pub con la versione ben più edulcorata che Daphne le aveva rifilato circa il suo luogo di lavoro.
    Beh, io non..
    Era sul punto di sottolineare che alcune di quelle che Haru definiva menzogne erano in realtà strategiche omissioni, ma infondo non credeva che ciò avrebbe giocato a suo favore. La retorica poteva funzionare in tribunale, non durante un confronto privato su questioni tanto delicate. Di sicuro non con Harumi.
    Okay, ora cerca di calmarti.. va bene?
    Cercò tuttavia di mettere le mani avanti, provando ad arginare l'incalzare polemico dell'altra. Si sentiva dalla parte del torto e non era molto abituata a gestire quella sensazione: tutte le volte in cui aveva provato a farci i conti le cose si erano sviluppate nel peggiore dei modi. Non sentirsi sicura della propria posizione la metteva in difficoltà e la Morrow non amava sentirsi impreparata davanti ad un confronto, né tantomeno messa con le spalle al muro. Ma invitare alla calma una persona dal carattere infiammabile e dirompente con quello della sua Haru.. poteva davvero rivelarsi in qualche modo utile? Ne dubitava, eppure non sapeva in che altro modo muoversi.
    Ho mentito sul tipo di locale in cui lavoro, ma non sulle mie mansioni. Organizzo davvero eventi e non faccio nient'altro in quel posto...ovviamente.
    Sollevò lo sguardo sulla mora, ansiosa di chiarire quel dettaglio. L'idea che Harumi potesse supporre che lei avesse anche una carriera da "ballerina" - per usare un sobrio eufemismo - le risultava insopportabile.. e infondo la Wàng non sapeva che quella specifica sede del Fairy Tale radunava solo ballerini di sesso maschile. Meglio chiarire la questione, sebbene forse essa rappresentasse un problema minore per Harumi. Pareva infatti che la sua attenzione fosse concentrata su altro.
    E non so quanto sia corretto dire che "mi faccio di Adderall", in fondo è un medicinale e non una droga per sballarsi.
    Avanzò anche quella considerazione, ma tali parole suonarono false e pretestuose alle sue stesse orecchie. Conosceva la natura del farmaco di cui faceva uso, così come era perfettamente consapevole del fatto che nessun medico le avrebbe mai fornito una prescrizione al riguardo. Le piaceva pensarlo come qualcosa di estremamente lontano dal concetto di droga, così come le piaceva raccontarsi che esercitava un controllo rigido e fermo sul suo rapporto con esso. Ma quell'opera di autoconvincimento ormai faceva acqua da tutte le parti, da tempo. Probabilmente avrebbe comunque continuato a perorare la propria difesa su quella linea, cercando di mantenere una calma che facesse da contraltare all'evidente tensione di Harumi, ma le parole di quest'ultima toccarono corde emotive ben più importanti per entrambe.
    Che cosa? No, Haru.. ma certo che mi fido di te! esclamò con impeto, preoccupata all'idea che l'altra potesse fraintendere La fiducia non c'entra niente, sul serio. Lavoro al Fairy Tale da prima che io e te iniziassimo ad uscire insieme. Jerome lo sa.. perché è stato lui a procurarmi questo lavoro.
    Arrivate a quel punto chiarire il susseguirsi degli eventi era inevitabile e magari anche utile, o così sperava. Lavorare al Fairy Tale da prima dell'inizio della loro relazione le offriva un'attenuante.. giusto? Non aveva preso quella decisione quando già stavano insieme, senza confrontarsi con Haru al riguardo né sentire il suo parere in merito. Si trattava di una scelta preesistente, qualcosa di cui non si era sentita in vena di parlare.. qualcosa di cui ovviamente si vergognava.
    Quando ho lasciato la Danimarca non sapevo che fare, mio padre mi aveva tagliato i fondi e vivevo a casa degli Hollingsworth. Dovevo procurarmi in fretta una fonte di reddito. Non ne vado fiera. Detesto quel posto e detesto lavorarci, perché avrei dovuto farlo sapere alle persone a cui tengo?
    A suo avviso non faceva una piega. Desiderava che le persone più vicine a lei potessero vedere solo il meglio della persona che era, ma anche dei suoi traguardi e dei risultati che otteneva.. era così strano? La mortificava il pensiero che ora sia Harumi che Bram sapessero che lavorava in un locale a suo avviso tanto squallido, così come il fatto che avessero scoperto che aveva bisogno dell'Adderall per andare avanti.
    Mi dispiace per Sayuri.
    Qualcuno avrebbe potuto scambiarlo per un tentativo di rimarcare un concetto ovvio e retorico, ma il tono di voce greve della rossa gridava a gran voce il suo senso di colpa. Abbassò addirittura lo sguardo, decidendosi finalmente ad assaggiare i pancakes. Masticò in silenzio, senza godersi realmente il sapore di quella dolce colazione e deglutì mentre una voragine emotiva le si apriva dentro. L'attacco di Harumi l'aveva colpita in pieno petto e l'istinto di alzare le proprie difese con un impeto di aggressività fu troppo forte.
    Oh andiamo.. tutti contano sul fatto che io sia perfetta! Tutti si aspettano che io riesca a gestire ogni cosa, altrimenti per quale ragione a nessuno di voi è mai venuto alcun dubbio? nella sua voce vibrava la pretesa di una sfida, gli occhi azzurri erano ora fissi in quelli scuri che aveva di fronte Sono in pari con gli esami e ho una media altissima, lavoro in un locale cinque sere a settimana, porto avanti il tirocinio e i miei responsabili non fanno che decantare la mia efficienza! Ho messo in piedi una stramaledetta Fondazione e non c'è un solo giorno della mia vita in cui io non mi prenda cura del mio corpo e del mio aspetto. Credi davvero che un essere umano possa farcela da solo? concluse quello sfogo sotto forma di elenco con una domanda: non un vero interrogativo, piuttosto una provocazione retorica che le inumidì gli occhi di lacrime trattenute, senza che la danese se ne rendesse conto Tutti contano sulla mia perfezione, per questo nessuno si è mai fatto domande.
     
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    Non so cosa mi dia la forza di non lanciare qualcosa quando mi dice di calmarmi, ma posso sentire quasi i denti scricchiolare quando stringo la mascella con forza per trattenermi.
    Dirmi di stare calma, in un momento come questo, ha solo il potere di farmi sentire ancora più frustrata e sul punto di esplodere e credevo che lo sapesse, che mi conoscesse abbastanza da non fare un errore del genere.
    Immagino lo capirà adesso, guardandomi negli occhi, vedendo quanto io sia ancora più arrabbiata.
    Avrei voluto affrontare questo discorso in un altro modo, non era ciò che mi ero immaginata, e prima che Daphne facesse la sua comparsa in cucina, avevo davvero creduto di potercela fare.
    Invece tutta la rabbia e tutta la paura della scorsa notte hanno preso il sopravvento nel momento in cui ha aperto bocca e non per chiedermi scusa di quanto successo.
    Sente il bisogno di spiegarmi cosa o cosa non fa in quel locale, cosa di cui mi importa davvero ben poco in questo momento, senza contare che la conosco abbastanza bene da sapere che non si venderebbe mai in quel modo.
    Come se il mentire sul locale ma non sulle sue mansioni renda la sua bugia meno peggiore, poi.
    La parte peggiore deve ancora venire però e non posso fare a meno di farmi sfuggire una risata sarcastica quando dice che l’Adderall non è una droga.
    - Non vorrai farmi credere che sei così stupida da non sapere che le medicine possono essere droghe - replico in modo brusco - No, non sei stupida e lo sai anche tu che quella è anche una droga. Non hai bisogno dell’Adderall, nessun medico te l’ha prescritta, lo stai facendo di testa tua ed in maniera illegale direi. Accettalo, Daphne: ti fai di Adderall.
    Diventa una droga nel momento in cui si supera il limite come ha fatto lei, quando la si usa per scopi che non hanno niente a che fare con il puro intento curativo. E mi fa male lo stomaco all’idea che sia arrivata a questo piuttosto che fermarsi e chiedere aiuto.
    Ho sempre saputo che il suo bisogno di essere perfetta non fosse sano, ma stupidamente non ho mai creduto che potesse arrivare a questo, che fosse così patologico.
    Mi lascio sfuggire uno sbuffo irato quando dice che è stato suo fratello a trovarle quel lavoro e per un attimo mi prudono le mani dalla voglia di mettergli le mani addosso.
    - E’ mancanza di fiducia invece - replico con voce ferma, dura, ma per un attimo più calma - Mancanza di fiducia nel mio giudizio. Credevi che avrei pensato male di te? Che ti avrei giudicata? Ancora non mi conosci così bene evidentemente. Sicuramente penso che tu possa trovare di meglio, che sei intelligente abbastanza da non dover lavorare in quel posto, ma non vuol dire che lo ritenga una vergogna.
    La guardo in silenzio per qualche secondo, sperando che il discorso non vada oltre questo, ma purtroppo la situazione mi sfugge di nuovo di mano e quando torniamo al suo bisogno di perfezione qualcosa sembra spezzarsi in lei.
    Si mette sulla difensiva e quello che esce fuori dalle sue labbra mi lascia inizialmente muta, incapace di reagire.
    Ogni sua singola parola sembra quasi una stilettata laddove già sono ferita dal mio senso di colpa per non essermi accorta di niente. Già come non ho potuto avere nemmeno un dubbio?
    Eppure allo stesso tempo trovo quello che dice ingiusto, il modo in cui mi dipinge, in cui dipinge chi la ama e tiene a lei lo è, maledettamente sbagliato ed ingiusto.
    I suoi occhi lucidi sono in grado di farmi del male e farmi infuriare allo stesso tempo e prima che possa rendermene conto le sto puntando un dito accusatore contro e sto per rendere tutto questo anche peggio di come è.
    - Non osare! - quasi lo urlo - Non ti azzardare, Daphne… credi che io voglia questo per te?! Guardami bene negli occhi e dimmi se lo pensi davvero, perché se è così abbiamo un problema più grande di quello che credessi.
    Mi trema improvvisamente la voce, nonostante il tono sia inalterato ed ancora carico di rabbia.
    - Pensi seriamente che per me conti più la tua maledetta perfezione della tua salute?! Pensi che conti di più per Bram o Jerome?! Pensi questo di noi? Di me?! La odio la tua dannata perfezione, questo bisogno malato che hai di mostrarti così al mondo! Non mi sono innamorata di te per questo, ne farei benissimo a meno pur di vederti stare bene e vederti veramente felice. Perché non lo sei, chiaramente, questo bisogno che hai di dover fare tutto da sola, di far vedere agli altri quanto vali, ti sta uccidendo ed io non lo sopporto!
    Sento questo tornado di emozioni negative risalirmi lungo lo stomaco, fino alla gola, dove premono per uscire in un urlo pieno di frustrazione che tuttavia trattengo, a fatica e dolorosamente.
    - No, nessun umano può fare da solo tutto quello che hai elencato ed è per questo che si chiede aiuto agli altri. Tu non hai idea di quanto abbia avuto paura ieri sera e di quanto stia male per non aver capito cosa stava succedendo sotto i miei cazzo di occhi! Se non me ne sono resa conto non è di certo perché mi aspettassi da te che ce la facessi a fare tutto questo. Resta comunque il fatto che io non lo abbia capito e questo mi fa stare di merda. Quindi vaffanculo, Daphne, non osare mai più accusarmi di una cosa del genere!
    Taccio cercando di riprendere fiato, accorgendomi solo ora di avere le guance striate di lacrime. L’urlo che ho trattenuto con tanta forza alla fine si è trasformato in pianto. Non uno di quelli che ti scuote il petto con i singhiozzi. Solamente un pianto silenzioso, carico di frustrazione e delusione.
    - Ti avevo detto che ci sarei sempre stata ma questo non è bastato evidentemente. Saresti dovuta venire da me a chiedermi aiuto. Avrei fatto qualsiasi cosa per te. Quello che non posso fare è stare in una relazione dove potrei dover svegliare di nuovo mia figlia nel cuore della notte per venirti a prendere da qualche parte perché hai fatto di testa tua invece di chiedere aiuto. Io… devo pensare prima a Sayuri.
    All’improvviso il mio tono è quasi un mormorio ed è come se avessi perso tutte le energie, tutta la rabbia che mi ha animata fino ad ora.
    - Devi farti aiutare. Da un professionista. Devi smetterla con queste stronzate, devi amarti di più, devi stare bene. Posso stare con te solo a queste condizioni
     
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    Harumi sembrava furiosa. Evidentemente lo era e Daphne, se da una parte riusciva a comprenderne le ragioni, dall'altra si sentiva presa vagamente in contropiede dalla rabbia che vedeva vibrare in quei profondi occhi scuri. Una parte di Daphne - piuttosto infantile probabilmente - si era crogiolata nel pensiero che la Wàng si sarebbe presa cura di lei, magari cercando di non farla sentire troppo patetica ma mostrandosi protettiva ed empatica. Non che in passato Daphne avesse avuto modo di dare per scontato un tale trattamento: di certo non l'aveva ricevuto nella casa in cui era cresciuta, né si era mai posta nella condizione di dover essere in qualche modo accudita o consolata. Tuttavia, per qualche ragione si aspettava questo dalle persone che amava.. e forse Bram si sarebbe mostrato effettivamente più morbido - per quanto non c'era dubbio che l'avrebbe rimproverata - ma lo stesso non si poteva dire di Harumi. No, lei aveva un carattere completamente diverso dal Dubois, il che sembrava averla spinta ad un approccio più "aggressivo", qualcosa a cui la Morrow non era preparata. Esitò qualche istante, prima di decidere di correre ai ripari muovendo un piccolo passo verso l'altra.
    Okay, può darsi.. ma nessun medico sa a quante cose devo stare dietro. Magari non ho un disturbo dell'attenzione, ma quel che è certo è che da sola non riesco a tenere questi ritmi. Dovrei rinunciare ai miei obbiettivi per questo?
    Il suo tono ora non era provocatorio, ma quasi conciliante. Rivolgeva alla mora una domanda che considerava retorica. Doveva rinunciare ai suoi obbiettivi? No, certo che no. Nessuno avrebbe potuto risponderle affermativamente. In qualche modo, Daphne cercava di portare alla sua ragazza argomentazioni valide, non sufficienti a sedare completamente il conflitto ma magari ad appianarlo giusto un po'. Un approccio da "avvocato", in un certo senso, non fosse che la posizione che Daphne si ergeva a rappresentare - la propria - era quasi indifendibile. Aveva abusato dell'Adderall, su questo non vi era alcun dubbio: proprio quello che in origine si era ripromessa di non fare. Non era certo fiera di sé, si rendeva conto dei rischi a cui si era esposta venendo meno a quell'autocontrollo con cui aveva sempre gestito il suo rapporto con il farmaco. Si rifiutava di accettare che la causa di ciò potesse essere il suo prolungato utilizzo di un medicinale a cui si era praticamente assuefatta, le veniva più facile attribuire quelle conseguenze ad un suo errore di calcolo, una sua mancanza. Era chiaro che il controllo della sua vita le stava sfuggendo dalle mani, per quanto si affannasse a mantenerlo saldo.
    Lo vedi? Certo che lo pensi! esclamò con convinzione quasi eccessiva, come se l'altra le avesse fornito un appiglio a supporto della sua tesi Chiunque lo penserebbe: io valgo più di quella squallida tana di vecchi adulteri molesti. Ma ho imparato che quello che vali conta davvero poco quando ti ritrovi improvvisamente a doverti mantenere da sola, pagarti un affitto e gli studi.
    Era stata una dura lezione per lei, abituata ad avere tutto e a dare ogni lusso per scontato. Non era mai stata una persona pigra, non si era mai seduta sugli allori: fin da bambina aveva fatto "il suo dovere", aveva studiato, si era impegnata al massimo e aveva brillato proprio come le veniva richiesto. Aveva però avuto la possibilità di dedicare tutte le sue energie al miglioramento di sé stessa in ogni ambito, proprio perché non doveva lavorare per guadagnarsi da vivere. Non doveva pagare un affitto, delle bollette, non doveva fare la spesa, cucinarsi i pasti da sola. Essere la studentessa più brillante del suo anno ora non le garantiva i privilegi a cui si era potuta appoggiare in passato, dunque poteva anche continuare a tener viva la consapevolezza del proprio valore, ma quella consapevolezza non le avrebbe permesso di arrivare a fine mese. Aveva dovuto accettare il primo posto di lavoro con uno stipendio decente che le si era presentato, ma da lì a voler condividere quel fallimentocon altri.. c'era una bella differenza.
    Volevo che tutti voi vedeste solo la versione migliore di me, perché lo trovi così sbagliato?
    Faticava a capire. Davvero gli altri non si preoccupavano di questi dettagli? Sì chiedeva spesso se ad Harumi scivolasse addosso.. ciò che la gente pensava di lei. Era una giovane mamma single, aveva chiuso i rapporti con la sua famiglia d'origine, aveva una relazione con un'altra donna. Tutti dettagli che la rendevano forte e coraggiosa agli occhi di Daphne e delle persone che le volevano bene, ma che si prestavano a giudizi e pettegolezzi da parte di persone crudeli o bigotte che potevano trovarsi in ogni ambiente da lei frequentato: l'accademia, il lavoro, la scuola di Sayuri. Eppure tutto questo non la feriva. Non sembrava nemmeno preoccuparla, come se affrontare di petto i propri genitori fosse servito a crearle un'armatura d'argento che Daphne non poteva fare a meno di invidiarle. Harumi era meravigliosa e sapeva di esserlo, forse era questo il motivo per cui non riusciva a capire i disperati tentativi della rossa di celare gli aspetti di sé che a lei per prima non andavano a genio. Che la mortificavano.
    Beh voi mi avete conosciuta così e...
    Cercò di spiegarsi ma le successive parole della Wàng la lasciarono ammutolita. Non sapeva come reagire di fronte ad affermazioni tanto dirette, quasi dure. L'effetto paradossale era che Harumi, insistendo sul fatto che la danese dovesse sentirsi libera dalla sua ansia da performance e dal giudizio, in quel momento la stava facendo sentire giudicata. Le lanciò uno sguardo improvvisamente risentito, gli occhi azzurri carichi di un amareggiato stupore.
    A me invece piace. puntualizzò, quasi con orgoglio Mi piace il mio costante puntare alla perfezione. Voglio dire, è una parte importante di me. Forse è uno dei tratti fondamentali della persona che sono, non trovi? Quindi beh.. non è il massimo sapere che lo odi.
    In qualche modo quella scoperta la feriva. Riusciva a percepire i sentimenti di Harumi nei suoi confronti e come essi prendessero forma in un'avversione verso un desiderio di perfezione che sembrava apparire all'orientale come la causa di ogni male della Morrow. Tuttavia, si sentiva comunque destabilizzata nel trovarsi faccia a faccia con tutto quell'astio nei confronti di una caratteristica che sentiva così sua, che le apparteneva nel profondo sin dalla più tenera età.
    Per quanto fosse concentrata sul proprio dolore e sulle proprie esigenze, sentiva tuttavia che il suo egocentrismo si incrinava nello scontrarsi con l'angoscia della Wàng, con quei sensi di colpa a cui quest'ultima stava dando voce. Harumi piangeva e Daphne era così sopraffatta nel trovarsi di fronte a qualcuno che soffriva così tanto per lei che, per un momento, si ritrovò in difficoltà nel mettere insieme le parole.
    Ma non è colpa tua! Non era quello che intendevo, Haru. si affrettò a dire, quando finalmente una frase di senso compiuto si affacciò nella sua mente Non era previsto che tu te ne rendessi conto. Non avrei mai voluto farti preoccupare in questo modo.
    Non era certo la più azzeccata delle affermazioni, ma Daphne voleva solo che il senso di colpa svanisse dallo sguardo dell'altra, che si volatilizzasse così come era apparso. Aveva schiacciato le speranze e le certezze di molti ragazzi nel corso della sua adolescenza, passando sopra la loro infatuazione per lei con passo deciso e tacchi a spillo, senza curarsi di loro. Sotto sotto, questo le aveva procurato un silenzioso piacere, un senso di rivalsa verso quel mondo di uomini con cui era costretta a relazionarsi. Ma con Harumi era completamente diverso: vederla soffrire - soffrire davvero, non come i fidanzati di Daphne che dovevano essersi ripresi in fretta dalle loro delusioni "amorose" - le spezzava il cuore.
    Fino a qualche settimana fa avevo tutto sotto controllo, sul serio. spiegò, nella vana speranza di apparire ragionevole Questo.. è un periodo impegnativo e ho perso il senso della misura.
    Che eufemismo. Si era lasciata completamente andare, si era adagiata nell'abbraccio dell'Adderall non solo per sostenere i ritmi dei numerosi impegni che aveva, ma forse anche per sfuggire allo stress e all'angoscia che le provocava l'incombente ombra di Soren sulla sua vita. A volte pensare a suo padre le rendeva difficile concentrarsi sui suoi impegni quotidiani e solo l'Adderall le giungeva in soccorso.
    Certo che devi pensare prima a Sayuri.
    Una prima lacrima, a lungo trattenuta negli occhi lucidi e ormai carichi di emozioni incontenibili, scese a rigarle una guancia. Fu il pensiero di Sayuri a farla crollare, a rompere la diga che cercava di mantenere al margine dei suoi occhi. Amava quella bambina. E non si trattava solo di questo, ma anche delle corde che la figura della piccola pizzicava in lei: Sayu non poteva essere un'altra bambina vittima degli errori e delle mancanze degli adulti che la circondavano. Doveva essere protetta. Stava quasi pensando di suggerire ad Harumi di non portarla da lei per qualche giorno, così da dare il tempo alla rossa di rimettersi davvero in sesto e di presentarsi alla bambina nel migliore dei modi, quando l'insinuazione dell'altra la colpì di sorpresa. Un colpo preciso, letale.
    Cosa..? Ma io mi amo già. Andiamo Haru, lo sai bene.. mi amo moltissimo. Mi adoro, in effetti c'è chi crede che io lo faccia anche troppo.
    Istintivamente replicò con decisione, accennando persino un sorriso sardonico quasi a sottolineare quanto Harumi fosse fuori strada. Non lo era, ma Daphne aveva così disperatamente bisogno di autoconvincersi che la sua ragazza si stesse sbagliando.
    Il fatto è che mi amo così come sono. Non posso.. essere meno di così. Insomma sarebbe assurdo, non credi? Peggiorare..
    Le veniva quasi da ridere di fronte all'assurdità di quella prospettiva. Ma non era affatto allegra e in quel momento una sua risata sarebbe stata solo un suono vuoto e privo di vita. L'idea di aggiustare il tiro, concedersi un respiro troppo lungo, rallentare.. le metteva addosso un'ansia incredibile. Era terrorizzata all'idea di rimanere indietro, quasi che ciò equivalesse a perdere sé stessa. Deglutì, asciugandosi le lacrime con un gesto di stizza.
    Tu vuoi che io smetta di assumere l'Adderall. Ma se me ne privo completamente.. cosa ne sarà dei miei traguardi? osservò, rivolgendo alla mora uno sguardo spaventato Non riuscirò a tenere il ritmo. E io non posso mollare la presa su nulla.. non posso.
    Le lacrime continuavano a sfuggire al suo controllo, i suoi occhi smarriti ora riflettevano solo tutta la sua fragilità.
    Dimmi che riesci a capire.
     
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    Proprio quando mi sembra di aver perso ormai ogni energia, di non essere in grado di provare ancora più rabbia, Daphne riesce a dire altro capace di farmi nuovamente bollire il sangue nelle vene.
    Non sono come faccia, forse è il suo essere così inconsapevole del suo problema o la sua convinzione che anche noi che la amiamo siamo qui a giudicare come faccia le cose.
    Stringo le mani a pugno, probabilmente per l’ennesima volta, e cerco di non urlare quel grido ancora bloccato nella mia gola così tanto rabbioso e che fa paura a me stessa.
    Una parte di me vorrebbe aiutarla, perché chiaramente è così vittima del modo in cui è stata cresciuta da essere totalmente persa, da non avere niente sotto controllo quando invece è convinta che sia così. Ma c’è quest’altra parte che vorrebbe solo dirle di cavarsela da sola, che ne ha abbastanza delle sue stronzate e questo mi fa sentire in colpa come non mai.
    Siamo una coppia, siamo una famiglia, dovrei offrirle il mio totale supporto e non capisco cosa non vada in me, cosa mi renda così… egoista?
    - Per quanto mi riguarda, Daphne, sono ben altri i tratti fondamentali della persona che sei. La tua costante ricerca della perfezione è malata ed è ora che te ne rendi conto. Ti odiavo, prima di conoscere la vera te. Ho iniziato a provare qualcosa nel momento in cui ti ho visto cosa c’era sotto la tua maschera. Ho capito di amarti quando ho visto che eri come me: imperfetta, rotta, ma in qualche modo ancora a galla.
    Pronuncio queste parole con il tono di chi sta per arrendersi. Le rivolgo un’occhiata sconsolata tra le lacrime e mi lascio sfuggire un sorriso amaro.
    - Non avevi niente sotto controllo… ed il fatto che me lo stessi nascondendo la dice lunga.
    Osservo i suoi occhi pieni di lacrime e cerco di soffocare il dolore che tale visione mi provoca. Il senso di colpa sembra farsi più forte che mai.
    - Peggiorare… - ripeto in un sussurro - La persona che tu ritieni ‘peggiore’ è proprio quella di cui mi sono innamorata ed è nettamente migliore di quella che crede di essere perfetta.
    E’ difficile pronunciare queste parole, mi si bloccano in gola e sembra quasi vogliano soffocarmi.
    - No… non capisco - deglutisco a fatica - Se ti amassi davvero, non ti faresti questo. Non avresti nascosto e rifiutato la tua omosessualità per così tanto tempo. Non avresti questo costante bisogno di apparire perfetta agli occhi degli altri e di te stessa. Io voglio aiutarti, ma non posso farlo se non me lo permetti.
    Faccio un passo indietro, ormai conscia della decisione che ho preso, consapevole che potrebbe essere quella sbagliata, che potrebbe peggiorare le cose.
    - Vieni a cercarmi quando avrai seriamente intenzione di ricevere aiuto e smetterla con queste stronzate. Fino ad allora non penso sia il caso di vederci. Ciao, Daphne.
    Con queste ultime parole, le volto le spalle e, prima che possa rendermene conto, sono già alla porta di casa, la sto spalancando e sono fuori con il disperato bisogno di lasciarmi tutto dietro. Almeno per adesso.
     
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    Aveva trascorso parecchio tempo in bagno, nella speranza di potersi presentare al meglio. Pensarci adesso la faceva sentire sciocca: i capelli pettinati, la pelle detersa e profumata, i vestiti in ordine. Tutto questo ovviamente non era abbastanza per cancellare il disastro nella notte precedente, tuttavia Daphne - malgrado quella consapevolezza - sapeva benissimo che riflettere su ciò non sarebbe bastato a farla desistere dal suo tentativo di rendersi il più presentabile possibile per affrontare Harumi (o Bram e Sayuri, se i due si fossero trovati ancora in casa). Era più forte di lei: sistemare ogni cosa al meglio, in primo luogo sé stessa, era un rituale necessario a trasmetterle un senso di controllo sulla situazione. Peccato che, al momento, tutta la rabbia che ribolliva negli occhi scuri di Harumi mettesse a dura prova quella parvenza di sicurezza, portandola a sgretolarsi e facendola sentire più impotente che mai.
    Non aveva la minima idea di come gestire quella rabbia. La stessa Haru sembrava non saperne calibrare l'intensità, il che rendeva quell'emozione una sorta di misterioso oggetto incandescente che le due si passavano l'un l'altra, senza riuscire a trattenerlo troppo a lungo tra le mani senza ustionarsi e soffrire. La Wàng non riusciva a tenere con sé la propria rabbia, non sembrava abituata a gestirla, la Morrow di contro non riusciva ad accoglierla, ad entrarvi in contatto senza sentirsene aggredita. Forse era particolarmente suscettibile - infondo lo era sempre stata - o forse, in quel momento, si sentiva troppo fragile per affrontare un simile assedio senza vederlo come un'aggressione in piena regola. Quel confronto assomigliava molto a quello che le due avevano avuto il giorno in cui Daphne aveva confessato la sua attrazione per la mora, una conversazione che aveva raggiunto picchi di pura violenza verbale, trasformandosi addirittura in un litigio, salvo poi avere una sua conclusione inaspettatamente positiva. Sembrava essere passato molto tempo da allora ma, in qualche modo, sembrava anche non esserne passato abbastanza.
    Quindi.. tu credi che io sia malata.
    I progressi fatti nel corso dell'ultimo anno sembravano ora traguardi spaventosamente fragili agli occhi della rossa. Non riusciva a cogliere nelle parole di Harumi qualcosa di diverso da un giudizio, la minaccia di un stigma che lei stessa sentiva pendere sul suo capo: il destino di sua madre che poteva anche essere il suo. Per quanto Jerome e Soren fossero entrambi convinti che le sofferenze psichiche di Theresa fossero state ereditate solo dal figlio maschio, Daphne non sentiva di padroneggiare quella certezza con la medesima convinzione. Ed era chiaro che nel suo disperato desiderio di perfezione Harumi cogliesse qualcosa di ossessivo, sbagliato.. malsano. Deglutì, confusa e ferita dalla scelta dell'altra di agganciarsi alle sue difficoltà di auto-accettazione, aggiungendole come un carico ulteriore a tutto ciò che stavano affrontando in quel momento.
    Sai benissimo perché.. non sia facile per me essere lesbica. Sai come sono cresciuta e quanto fosse importante mio padre per me, tu...
    Sentì la gola chiudersi e si fermò, tacendo prima che la sua voce apparisse pateticamente strozzata dalla minaccia del pianto imminente. Harumi parlava come se l'impegno che lei aveva messo nell'affrontare il suo disagio e le sue paure fosse nullo, o quantomeno insufficiente, come se non avesse un reale peso, come se non fosse abbastanza. Quell'impressione era per Daphne il triste eco di una condizione perenne che si portava dietro sin dall'infanzia. Non era mai stata abbastanza per Soren, nonostante tutto. E non lo sarebbe mai stata. Non sarebbe mai stata abbastanza perfetta per suo padre. Non sarebbe mai stata abbastanza lesbica, abbastanza fiera di esserlo, per Harumi, Bram, o tutta la comunità di cui avrebbe dovuto fare parte. Non sarebbe mai stata abbastanza femminista, perché le bastava uno sguardo di Soren per avere paura. Ancora.
    Scosse la testa, gli occhi lucidi.
    Non lo capisco. Non capisco il tuo modo di amarmi.
    Pronunciò quelle parole in modo perfettamente chiaro e udibile ma a voce bassa, quasi temesse che alzare il tono avrebbe reso la sua voce tremante, fragile.. debole. La durezza di quell'ammissione risuonò tra loro, aprendo un baratro tra lei e la persona che avrebbe voluto tenere più vicina a sé, la donna che amava. Quando Harumi si diresse verso la porta, Daphne abbassò lo sguardo per non vederla andare via.
     
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12 replies since 5/6/2022, 11:16   121 views
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