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    Aveva forzato a prendere la sua vita una strada differente. Si era resa conto di quanto inutile e dannoso fosse restare con le mani in mano a rimuginare su ciò che era stato, a pretendere vendetta ad escogitare omicidi. Più pensava a tutto quello, più si sentiva bloccata in una prigione che non le lasciava tregua. Andare via, cambiare, le era sembrata l’unica scelta da prendere a quel punto. E lo aveva fatto. Era andata via da tutto ciò che le ricordava il trauma peggiore della sua esistenza, compreso Mason, concedendosi la sola eccezione dei suoi genitori a cui si era affidata per richiedere l’aiuto psicologico di cui chiaramente necessitava. Le pozioni per calmare il suo animo agitato, l’aveva aiutata ad affrontare la vita con più serenità. Ad accettare il cambiamento, e se stessa, con meno difficoltà. Erano ancora tanti, troppi, i limiti di cui si sentiva rivestita, ma ogni giorno tentava di ripescare un pezzo della vecchia sè per tornare ad essere quel che era. Aveva persino preso a frequentare ragazzi, che nulla avevano a che vedere con i tipi frequentati finora. Si stava riappropriando insomma, dei suoi diciotto anni. Ci provava. Era chiaro che nulla fosse stato dimenticato.
    Non aveva dimenticato Lorence ed i suoi tentativi di uscire o replicare al processo. Non aveva dimenticato le sue cicatrici. Non aveva dimenticato Mason.
    Allontanarsi da lui, per quanto doloroso, le era sembrata l’unica opzione plausibile, soprattutto dopo la scelta dal ragazzo presa. Non sapeva dirsi se fosse stata o meno egoista a lasciarlo solo, ma inconsciamente lo incolpava di averla abbandonata per riadeguarsi a quel mondo che le aveva fatto tanto male. Si era dovuta impegnare a rinascere, e senza di lui. Ci si impegnava ogni giorno.
    Erano stati tanti i progressi fatti fino a quel momento.
    Quel giorno, in particolar modo, per la prima volta dopo tempo era riuscita ad affrontare l’intero viale di Hogsmeade da sola, senza unirsi ad altri o aspettare che suo fratello Otis la scortasse. Era riuscita a riappropriarsi di un pezzo della propria autonomia, indossando un vestito, sciogliendo i capelli. Le era sembrato di poter riconquistare il mondo sul quale camminava, fino al momento in cui un giornalista non aveva interrotto il suo percorso.
    Lo aveva fatto prima gentilmente, poi con insistenza. Non era la prima volta che accadeva in realtà, ma affrontare un uomo mentre le poneva domande che riaprivano ferite solo debolmente chiuse, la fece vacillare. Provò a sottrarsi inutilmente. Avanzò il passo, ma le sembrò inutile anche quello. L’uomo sembrava intenzionato a recepire qualche nuovo scoop mentre, indirettamente, le poneva domande che la facevano apparire, di nuovo, come la bugiarda che, ancora molti credevano che fosse. «Lasciami in pace.» Lo spinse, il fiato corto mentre l’uomo prendeva a fotografarla, con un flash che le acceccò la vista. Le mancò il fiato.
    Nella sua mente si affollarono ricordi sparsi, crudi. Così vividi da essere reale. Provò ad allontanarsi ancora mentre sgusciava via da una nuova foto. «Non voglio rilasciare un cazzo.» Inutile anche quello. Avrebbe cercato di smaterializzarsi se l’uomo avesse smesso di importunarla. Non gliene diede modo. Il picco si ebbe nell’attimo in cui il giornalista, per trattenerla, osò afferrarle un braccio. La reazione della Haugen fu spropositata certo, ma scontata. «Ti ho detto di non toccarmi.» Per quanto fino a quel momento si fosse impegnata a trattenere ogni suo scatto d’ira, ogni attacco di panico, ogni isterismo, trattenersi ora sembrò impossibile. Dinanzi a quel gesto, per la paura provata, fu inevitabile agire d’impulso. Così prese a colpire come una furia l’uomo che aveva davanti. Quando le mani cominciarono a farle male e la mente s’accorse dell’atto stupido commesso, il senso di colpa ed il timore l’avvolsero, spingendola ad atti estremi fino a quel momento dimenticati. Le mani sulle cosce. Le unghie profondamente incastrate nella pelle mentre il fiato si faceva corto. Mozzato

     
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    La storia si ripete, ridondante nelle sue similitudini, spietata e fredda allo stesso modo in cui è iniziata. Da settimane il Chesterfield alterna doveri a battaglie personali. Di tutti i suoi impieghi, nulla gli è di sollievo. Non è una sorpresa. Ha reimparato a vestire quei panni, a ricoprirsi di freddezza, di apatia, di spocchia e superbia, d'indifferenza e violenza. Ha ricominciato a calpestare i sentieri del male, tornando a casa coi vestiti macchiati di crimini, talvolta di sangue. Tra le sue dita, circola l'oscurità, come rovi di un'edera velenosa che infettano i suoi gesti, ramificandosi tra i muscoli sino a giungere al cuore. E' facile, quando non vivi che di questo, abituartici. E' facile dimenticare le alternative più allettanti, quando queste si allontanano in modo definitivo. Ricalca quell'addio che non aveva considerato, perfezionando quotidianamente un disegno che non gli è più appartenuto. E funziona, fintanto che quella parentesi di un passato appena più brillante resta lontana, irraggiungibile. Funziona, fintanto che le sue orecchie restano lontane da quella voce. Così alta, così familiare. Così amata da non poterla non riconoscere, da non poterla ignorare, tra le stradine semi-vuote di una Hogsmeade disinteressata. Svolta l'angolo e la vede. Lei. Helena. Diversa, stretta in panni che non aveva più trovato la forza di indossare, adornata di dettagli che la rendono... cresciuta. Diversa, ma uguale. Nuova, ma sempre se stessa. Un paradosso che comprende a stento, quasi rassegnato all'idea di non conoscere più nulla di lei. Di non sapere cosa le passi per la testa. Di non vederla, di non viverla, come la vita gli ha concesso fino a qualche mese prima. Ed è forse il filo disperato di quell'attaccamento mai tranciato che lo spinge ad intervenire, avvicinandolo all'altra, palesemente in difficoltà di fronte alla prepotenza di quello che dev'essere l'ennesimo giornalista affamato della sua storia. Fottuti tabloid da quattro soldi. Il pensiero che lo infervora, mentre l'alba di una crisi di cui riconosce le fattezze si impossessa della ragazza. 'Oh, l'hai sentita? Levati dalle palle, stronzo!' E' facile, inizialmente, concentrarsi su di lui. Su un uomo cattivo, dalle intenzioni malevole, che ha oltrepassato un limite di decenza che lo sbatte automaticamente in una fazione negativa. Con nuove spinte, cerca di allontanarlo da quel contesto scomodo. E spezza la sua recidiva, tirando fuori la bacchetta e puntandola dritta contro il suo mento. 'Ti trafiggo la gola se non te ne vai.' Un sussurro sottile, carico tuttavia della pesantezza che quelle settimane hanno innescato in lui, nei suoi modi pregni di crudeltà e spaventosa glacialità. E' allora che gli tocca tornare alla realtà. Quella realtà che ha eluso per mesi, che è stata il suo tallone d'Achille così a lungo da non poter esimersi ora dall'esserlo ancora. Quando il giornalista decide finalmente di porre fine a quel teatrino, Mason si volta lentamente verso Helena. E' il suo viso che incontra, forse non altrettanto disposto ad incontrare il suo di rimando. Di sottecchi, nota la ferocia con cui le sue dita tentano di riappropriarsi della calma perduta. Conosce quei gesti. Non si sente però più degno di porvi rimedio. Per questo, fermo nella propria rigidità, tentenna tra la necessità di andare via e quella di restare. Ancora una volta, sprovveduto, lascia vincere la parte più sconveniente. 'Stai bene? Ti ha messo le mani addosso?' C'è fastidio nella sua voce, sotterrato però dall'apparenza imparziale che lo veste d'estraneità. Finta, circostanziale. 'Dovresti usare la bacchetta, almeno dove puoi farlo.' Un consiglio spassionato atto solo ad intrattenerlo. Nessun insegnamento, neanche un'intenzione che vada oltre le sembianze di un avvertimento. Una farsa, la finzione di essersi allontanato da qualcosa che ancora occupa i suoi pensieri più di quanto non si renda conto.


     
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    Avrebbe dovuto abituarsi ad avere paura. Per mesi le era sembrato di non riuscire a provare altro. Anche quando si ostinava a volgere altrove lo sguardo, sul cielo del suo quotidiano si avvicendavano ombre scure che le toglievano il fiato. In quei mesi di stasi si era illusa di poter ricominciare e per un po’ le era sembrato persino di riuscirci. Di tornare ad essere una semplice ragazza. Quell’evento le aveva appena dimostrato di non potersi concedere la normalità. Lei sarebbe stata sempre Helena Haugen, ragazzina, vittima, bugiarda. Stuprata.
    Le unghie tornarono a scavare in profondità nella sua pelle, come a cercare tra gli strati di epidermide stracciata la calma perduta. Non servì a nulla. Soltanto quando il giornalista si fu allontanato, tornò pian piano a respirare. Ancora china su se stessa, gli occhi lucidi, il fiato corto. Respirò a pieni polmoni, cercando di reprimere le voci assordanti che si affollavano nella sua testa e che sembravano rievocare con un certo sadismo flash di ricordi che faticava ancora ad accettare. «Quando mi lasceranno in pace?» Parole affrante che ripeteva a se stessa, mentre piano mollava la presa sulle sue cosce. Ripulì il volto dalle tracce di paura che l’avevano annichilita mentre tremante, visibilmente provata, cercava nello zaino che aveva con sè, le pillole a cui faceva riferimento quando la sua calma vacillava. Ne mise due sul palmo della mano, mandandole giù senza indugiare.
    Scosse il capo alle parole del suo salvatore. Fino a qualche mese prima il suo intervento sarebbe stato prevedibile. Adesso era una sorpresa, e non era certa di poter chiarire fosse positiva. Avevano smesso di vedersi pian piano. Dopo la sua decisione di tornare dalla sua famiglia, le loro strade avevano lentamente preso bivi diversi. Non c’erano state vere e proprie liti, giuramenti di fini drammatiche. Avevano soltanto smesso di incontrarsi provando a costruirsi una vita diversa, una che non comprendesse la presenza dell’altro. Non avevano però potuto fare a meno di covare rancore. Freddezza. Quella di Mason almeno fu palese.
    «Non me ne ha dato il fottuto tempo.» Rispose con un tono lento, strascicato mentre si rimetteva dritta per raggiungere una panchina. Si lasciò andare su di quella, percependo solo in quel momento il bruciore delle ferite che si era causata e le macchie rossastre che macchiavano le sue cosce scoperte. «Cazzo.» Si lamentò tra sè mentre provava a ripulire quelle macchie. Non sarebbe bastato nasconderle per celare il fatto di essere caduta ancora in un circolo di masochismo da cui non riusciva a venir fuori. Concentrarsi in quel gesto però le diede modo di rimuginare. Di placarsi. Soltanto dopo qualche istante, con grande forza, riuscì a tirar su lo sguardo su Mason. «Grazie.» Glielo aveva mai detto? Non ne era sicura, non in quel momento. Sentì però l’esigenza di farlo. Immaginò in qualche modo di doverglielo. «Spero tu gli abbia rotto la macchina fotografica almeno.»

     
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    rRzefpo
    La vede, eppure non sembra essere lì con lei. L'una di fronte all'altro, appaiono relegati alla propria bolla di consapevolezza. Il giornalista l'unico filo conduttore di quelle loro azioni che si rispecchiano in loro stessi, nelle cosce di lei afflitte dalla vergogna, paura, rassegnazione, e dai nervi tesi di lui, riflessi nei modi bruschi e colmi di inquietante violenza rivolti all'ormai andato articolista. E' come una sintonia perduta. Una melodia lontana che si è ormai dimenticata. Per la prima volta, cominciano ad essere estranei. Si comportano da tali, persino più di prima che i loro percorsi si incrociassero. E fingeranno non faccia male, Mason lo farà, finché il buio della notte, della sua nuova vuota esistenza, gli riderà in faccia le frottole raccontategli. Osserva con vaghezza i gesti dell'altra. Le pillole ingurgitate, di cui non conosce gli effetti. Un pezzetto di vita, di cui non sa nulla. Un miglioramento, forse, egoisticamente difficile da accettare, perché compiuto lontano da lui. Quasi una prova della tossicità che l'ha sempre relegata a condizioni in cui soffrire andasse bene. Perché le avrebbe comprese lui quelle ferite, senza mai rimarginarle del tutto. Senza che lei potesse imparare a prendersi cura di se stessa. Gratta distratto un sopracciglio, schiarendosi la gola per mandar via il tono strozzato dall'incapacità di esprimersi. Di risponderle senza sembrare un'anima dannata vittima degli eventi. Dimostrarsi impenetrabile con lei continua ad essere fottutamente difficile. 'No, ma è meglio per lui che gli passi la voglia di ronzarti intorno o scrivere il tuo nome su quel taccuino di merda.' Un avvertimento? Una promessa? A quale scopo? Il suo inconscio non fa che spingerlo ad insidiarsi nella quotidianità dell'altra. A ricordargli di tutte le volte che le ha giurato di guardarle le spalle, senza mai riuscirci. Forse, in quei meccanismi sbagliati, ci è ancora più immerso di quanto non si racconti. La raggiunge rigidamente, sedendo su quella stessa panchina a diversi centimetri da lei. Non un fiato sul ringraziamento ricevuto, perché incapace di maneggiarlo. E nella ricerca di qualcosa per spezzare quel silenzio, sorge spontanea la tregua momentanea implicita nell'offrirle una sigaretta, il pacchetto strisciato tra loro, dopo averne recuperata una per sé. Una richiesta muta, forse silenziosamente necessitata da entrambi, di raccontarsi qualcosa. Aggiornarsi. Stare insieme, per capire a che punto le loro strade si siano lasciate. 'Allora... come va?' Generico. La scuola, le terapie, la vita. I rapporti umani. Stringe ancora la sigaretta tra le labbra, la bacchetta puntata al confine della cartina, mentre lancia le proprie supposizioni. 'Ti trovo meglio.' Non bene. Solo meno peggio. Diversa. Più libera di essere se stessa, forse. La ragazzina dalle ginocchia sottili scoperte dai canonici pantaloncini ed accompagnate da calzettoni e stivalacci pesanti. Helena, come non la vedeva da un po'. 'Più o meno.' Aggiunge infine, rivolto alle pillole ed ai graffi rossastri intravisti dal tessuto dei pantaloni. Solo un modo per non sminuire ciò contro cui ancora combatte. Per non fingere così platealmente di non vedere lei e quel dolore latente.


     
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    «Me lo prometti?» Sorrise ironica mentre rispondeva alla sua promessa o quella che sembrava essere. Non lo guardò però. Aveva smesso di farlo da tempo. Aveva smesso di cercare lo sguardo altrui. All’inizio era per timore, per la paura in cui Lorence l’aveva tenuta prigioniera. Ora era un’abitudine. Non aveva smesso di affrontare con veleno e sfrontatezza il mondo o coloro che definiva sui nemici, era palese però le sue armi si fossero smussate. Era lei a non essere la stessa. Il suo percorso di guarigione, non aveva il sapore di una rinascita. Non era diventata la versione migliore di sè, o non ancora comunque. Era una ragazza spezzata, che cercava di dare un senso ai cocci di sè con cui era stata lasciata. Un lavoro arduo che le richiedeva tempo, impegno e tanti fallimenti.
    Corrugò la fronte alle sue parole, fissando il paesaggio dinanzi a sè, prima di lasciarsi andare ad un mezzo sorriso. «Sono gli psicofarmaci.» La risposta venne fuori in modo innaturale, quasi sprovveduto. Non cercò di attirare la sua attenzione, o peggio, la sua commiserazione. A volte, più di prima, le capitava di lasciarsi andare a commenti che altrimenti avrebbe tenuto per sè. Lo stato di rilassatezza in cui le pillole che assumevano la spingevano, la portava ad essere meno rigida e più sincera. «Scherzo. Più o meno.» Aggiunse poco dopo, lasciando scivolare lo sguardo su di lui e poi lentamente sul pacchetto tra loro. Un gesto apparentemente insignificante che per qualche ragione le colorò le guance. Accettò il suo muto invito rubando una sigaretta e ponendosela tra le labbra. Si concesse qualche tiro dopo averla accesa, prima di incrociare le gambe. Seduta a gambe conserte, si voltò verso di lui. Un azzardo forse. Un gesto così naturale tra loro, da sembrare ora inappropriato. «Sei tornato a vivere qui ovviamente.» Non una domanda. Era chiaro l’avesse fatto. Nè era implicita un’accusa in quelle parole. Era solamente un dato di fatto. Mason aveva deciso di adeguarsi a seguire una strada sbagliata ed Helena in fondo chi era per giudicarlo? La sua vita era un lungo susseguirsi di errori, e se ne rendeva conto soltanto ora.
    Prese a giochicchiare coi capelli, intrecciandoli distrattamente mentre si concedeva un nuovo tiro. «Avevi ragione su Pinky. Era strana sul serio perchè era incinta.» Parlò a lui senza freni, riprendendo discorsi di mesi addietro come fossero stati recenti. Quasi come se il tempo non fosse passato. Tra loro non passava mai.
    «Ne è sopravvissuto solo uno di quattro ma ora sta bene.» Anche quella notizia, la lasciò scivolare tra loro senza rammarico o tristezza. L’apatia con cui raccontava i dettagli di quella nuova vita, parlavano del modo in cui aveva affrontato, e lo stava ancora facendo, quei nuovi mesi. Li elaborava cinicamente. Che fossero le pillole ad aiutarla o l’incapacità di tornare a soffrire, non era chiaro. Ma non era lei. Forse non lo sarebbe mai più stata. Piegò il capo, fissandolo per qualche istante prima di puntare lo sguardo verso il cielo. «Sto fingendo che sia normale parlarti ma credevo non l’avrei più fatto.»

     
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    rRzefpo
    Irriconoscibile. Riassumerebbe così la condizione dell'altra, racchiusa in una trasparente cupola di separazione, l'allontanamento dal mondo che la circonda, dall'essenza che ha sempre carezzato i suoi modi, ora impercettibili, sbiaditi, relegati ad un passato lontano e caduto in disuso. Una miseria di personalità, poche tracce soffuse impossibilitate a fiorire oltre la calma indotta dalla chimica. Medicinali. Psicofarmaci. Rimbomba nella sua testa, quel termine, come un monito al cambiamento, un tassello di apparente benessere che il Chesterfield non sa definire, né smistare al bene o al male. E' positivo riesca a calmare i suoi istinti più dannosi, ma a quale prezzo? E' vita, quella che procede oltre lo storpiante pannello di lucida plastica che ne assottiglia i connotati? A Mason non pare nient'altro che un'esistenza a metà. 'Già.' Sorvola sulla questione delle promesse, incapace di rispondere con circostanziale menefreghismo a quello che di fatto non è l'innesco di un loro tipico meccanismo di relazione. Si concentra dunque su quell'evidenza rassegnata, scivolata dalle labbra dell'altra con l'apatia di un dato di fatto, nessuna emozione a coronare quella constatazione. Ed è vero che la sua vita ha ormai ripreso la piega di una volta, l'abitazione ad Hogsmeade ad essergli da dimora, i segreti che cela a macchiare la sua coscienza, volente o, soprattutto, nolente. Sospira due, tre ed altri soffi ancora di fumo, prima che altre notizie vengano confidate dalla ragazza. Ne apprende i sommi capi, nascondendo alla bene e meglio la delusione del non averle vissute in prima persona. E' di Pinky che si tratta ed in fondo il ragazzo vi è sempre stato parecchio legato. 'Ah, cazzo. Mi...' Prima che il suo dispiacere possa palesarsi, l'intervento aggiuntivo di Helena blocca ogni sua reazione. Racconta fatti con un'attitudine glaciale, quasi come se non la riguardassero. Decisamente non da lei. Se ne rende conto poco a poco, mentre lascia che le notizie trapelate lo tocchino evidentemente più di quanto sembra succedere a lei. Solo due anni prima la visione di una volpe vittima di un ignoto predatore le aveva fatto raggelare il sangue. Ed ora, dinanzi alla morte del frutto di un'anima gracile a cui tiene così tanto, è rimasta praticamente indenne. Psicofarmaci del cazzo. Una gomma che combatte la sua reale natura, sentimenti annessi. 'Dev'essere successo durante una delle sue fughe.' Azzarda fingendosi altrettanto noncurante, interrogandosi interiormente sulle vicende di cui la piccola Pinky è stata protagonista. E' uno scenario surreale. Continua ad esserlo mentre le parole dell'altra lo raggiungono. Scaccia via l'accumulo di cenere che ingombra la punta della cicca, prima di soffermarsi su dettagli che spera tocchino punti che l'altra salta, probabilmente contro la sua stessa volontà. 'Credevo anch'io che non l'avremmo più fatto.' Sincero, non maschera alla perfezione il leggero rammarico di cui la sua voce si sporca. A quel punto, guardandola di rimando nel riflesso lucido e vago dei suoi occhi estraniati dal contesto, cerca risposte che diano un senso a quell'incontro fortuito. Che stabiliscano una forma tra loro, tra ciò che è, ciò che è stato e ciò che d'ora in poi dovrà essere. 'E' per quelle che non sei più venuta?' Le medicine. Un cenno del capo alle sue tasche a chiarire il soggetto del proprio quesito. 'Se hai cambiato idea su quella storia va bene, è un sollievo, ma...' Ed è fermamente convinto sia stato un risvolto positivo quello di accantonare Volhard e l'incosciente vendetta nei suoi confronti. Lui, però, in tutta quella faccenda... che ruolo dovrà assumere, d'ora in avanti? '...sei praticamente sparita.' Si finge indifferente a quel dettaglio. Chiunque noterebbe che menzogna stia raccontando ad entrambi. Helena però non è forse nelle condizioni di rendersene conto. Non come un tempo sarebbe riuscita a fare.


     
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    Storse il muso, strappandosi con i denti le pelliccine sul suo labbro spaccato. Sfogava in nuovi modi il suo disagio, alcuni meno visibili. Le medicine attenuavano il suo malessere ma non lo dissipavano. Così, quando il disagio cresceva a dismisura ma le medicine riuscivano comunque a contenerla, reagiva in modi diversi. «E’ successo ad Hogwarts. » Rispose ancora con quel filo di apatia che faceva sembrare il discorso quasi ininfluente, come se la volpe e la sua salute non avesse intaccato il suo precario equilibrio nei mesi passati. Bugie. «La volpe di un serpeverde.» Aggiunse poco dopo, facendo spallucce. Non aveva più visto lo stronzo che aveva fatto quello alla sua volpe, e forse era stato meglio così.
    Corrugò la fronte alla sua domanda, seguendo il percorso fatto dal suo cenno. Si lasciò scappare un mezzo sbuffo prima di scuotere il capo. «No.» Avrebbe potuto mentire, dare tutta la colpa alle sue medicine per essere sparita così di punto in bianco, ma non lo fece. Non era soltanto le pillole che prendevano ad aver smorzato la sua tendenza a raccontare bugie, ma anche il periodo vissuto. Non avrebbe voluto riaffrontare Mason propinandogli una serie di verità farlocche. Sarebbe stato il modo decisamente meno sano di riapprociare a lui.
    Si concesse qualche attimo, rimuginando su quel che aveva voglia di dirgli prima di riuscire ad aprir bocca. «Ho pensato che se tu avessi ripreso a frequentare quel mondo gli effetti collaterali avrebbero potuto toccare anche me e non ne avrei avuto la forza.» Interruppe così quel silenzio, con una verità piazzata a bruciapelo tra loro. Il timore che le vecchie abitudini potessero riportarla a nuove sofferenze, l’aveva spinta alla fuga. Per quanto doloroso fosse, aveva scelto di preservarsi. « Ed ero arrabbiata. So che non ne avevo diritto. E’ la tua vita. Ma lo ero.» Aggiunse poco dopo, sincera. Lo aveva capito soltanto dopo. Aveva accumulato risentimento ma senza ragione. Non avrebbe potuto imporgli scelte di vita. Il mondo lo aveva fatto con lei continuamente e ne pagava in modo amaro le conseguenze. Non lo avrebbe costretto allo stesso destino.
    Si mosse l’interno di una guancia prima di continuare. «Non mi sono allontanata per dispetto, che tu ci crederai o meno.» Un dettaglio che voleva fosse chiaro, sebbene immaginava fosse ben difficile da credere. «E’ che avevo bisogno di sapere che il mondo non fosse tutto così… » Scosse il capo cercando di trovare una parola adatta che però non giunse. Fece spallucce, prima di alzare il capo per incontrare il suo sguardo. «Avevo bisogno di normalità. » Distrattamente la mano andò a pizzicare un braccialetto in stoffa regalatogli da un ragazzo che aveva frequentato in quelle settimane. Sapeva di non provare nulla per lui, ma il modo in cui l’aveva fatta sentire, l’aveva fatta sentire bene. Priva di preoccupazioni e soprattutto priva di paura. « Come mi vedi nei panni di una ragazza qualsiasi?»


     
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    Ogni dettaglio che si somma ai precedenti rende spaventosamente chiaro il quadro che Mason ha dinanzi. Non è solo l'essere rimasto lontano da eventi a lui ormai preclusi, quanto l'osservare la freddezza anomala con cui essi vengono esposti. C'è un muro di solida protezione a confinare l'emotività di Helena. Un'esagerazione, perché non può vederla altrimenti, il Chesterfield, che annienta tanto le pessime sensazioni quanto quelle gradevoli. Una prigione forse peggiore di quelle a cui è stata costretta. E si domanda, con una punta d'egoismo a macchiare i quesiti sollevatisi nella sua mente, se quella forzatura sia dipesa anche da lui, dalle scelte intraprese. Le parole che seguono sembrano confermarlo. Lascia che quel discorso si infiltri nelle sue orecchie, aggrappandosi alla logicità necessaria quanto agli anfratti più corrotti del suo animo. Ed è lì che ancora una volta la sua psiche crolla. Lì che viene costretto a fronteggiare una delle sue più grandi paure, il trauma del non poter maneggiare, sfiorare, anche solo guardare o respirare qualcosa di così bello, perché destinato ad una vita di caos. Ad una vita non normale. Hanno combattuto per anni per adattarsi a quelle fila tanto irregolari. Si sono detti speciali, diversi ed in senso positivo, perché autentici, più veri di tutti i cliché che girano mano nella mano tra le strade della città, di quelli che appendono le proprie melense foto alle pareti di una camera. Vivevano in una realtà fatta d'altro. Si fidava di lei per questo. Agguantava l'affinità che li legava in quell'unicità, credendosi graziato dalla vita perché degno di ricevere una dose di felicità, di amore nonostante gli eventi catastrofici solcati nel suo cupo passato. Si ritrova ora a fare i conti con la realtà opposta, col palesarsi di altri ed altri ancora dubbi che prendono forme e consistenze concrete, separandolo dalla ragazza che magari adesso è felice davvero. Serena. Calma. Una Helena che lui non ha mai conosciuto, perché quella si era plasmata sotto la pessima influenza del ragazzo. 'Come tutte le altre.' Si lascia sfuggire disincantato. E non è forse quella la risposta che sperava di ricevere? L'omologarsi alla normalità, non implica il trasformarsi in una copia di una copia? Il mimetizzarsi in qualcosa così bene da finire per diventarne realmente parte? A quel punto, perché non dovrebbe esserci riuscita? E perché a lui spetterebbe esserne rammaricato? 'E tu come ti vedi nei panni di una ragazza qualsiasi?' Soffia al cielo quella domanda, distogliendo lo sguardo da quei connotati irriconoscibili. Vorrebbe dirsene indifferente. Ed invece fa un male cane. E farà ancora più male, quando rintanatosi nella propria stanza, tra le scartoffie di un affare e la mappa del prossimo luogo losco da raggiungere, non ci sarà più nemmeno quel briciolo di illusoria speranza ad offrirgli un po' di luce dal piccolo spiraglio oltre il male. 'Ti piace? Ci stai bene?' L'egoismo ambisce ad un diniego. L'amore però, quello tanto forte da lasciare andare quando necessario, si appiglia ad una sommessa affermazione. Tagliente, dolorosa, tramortente, ma il meglio che possa sperare per lei. Un futuro migliore, pulito, dopo anni di malessere ancora stampati ad inchiostro fresco sulle pagine di uno squallido giornale. 'Immagino i tuoi ne siano felici.' E no, quell'infelice richiamo sulle imputazioni spesso ricevute nei riguardi della devozione provata verso Hubert non riesce proprio a trattenerlo.


     
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    Le sue parole arrivarono feroci e silenti. L'attacco di un predatore nella notte. Avrebbe dovuto aspettarsele ma fecero comunque il loro effetto. Un bruciore assordante. Fastidioso.
    «Non sembra un complimento.» Strinse labbra in una smorfia indecifrabile, distogliendo lo sguardo dal suo, quasi forse a celare la sofferenza che le sue parole avevano innescato. Helena aveva cominciato da mesi un percorso di rinascita o pseudo tale. Aveva cercato di liberarsi dei vecchi fardelli e dei suoi limiti, ma ancora ora non essere vista le provocava un profondo rammarico. Una sensazione tramortente di confusa perdita.
    Le sembrava sempre che l'immagine riflessa allo specchio non combaciasse con l'idea che il mondo aveva di lei. E alla fine anche lei finiva col non sapere più chi realmente fosse.
    La stessa? Diversa? Niente era più certo. Niente aveva più senso.
    Afferrò una ciocca di capelli mentre persa, lenta, fissava il vuoto. «Non mi vedo.» Una risposta sincera mentre le dita si intrecciavano ai fili scuri dei suoi capelli ed i suoi occhi restavano fissi su una pietruzza sul sentiero.
    Una risposta ambigua la sua a cui seguì il silenzio. Non avrebbe saputo cosa rispondere ai suoi nuovi quesiti. Lo guardò, pensosa e confusa senza riuscire ad aprire bocca.
    Che fosse quel nuovo cambiamento o le pillole a renderla così offuscata, non avrebbe saputo dirlo.
    Percepì distintamente però la stoccata del Chesterfield. Quel desiderio di ferire, se non lei almeno i suoi genitori che con le loro interferenze avevano ferito e tramortito più volte il loro equilibrio. Helena non lo accusava, non più. Era anzi d'accordo con lui.
    «I miei sarebbero stati felici vedermi in sposa di uno psicopatico. Non mi importa più molto di quello che pensano.» Fece spallucce. Non li aveva perdonati. Forse non lo avrebbe mai fatto. Aveva accettato le loro scuse per non aver capito l'entità di ciò che stava accadendo, ma non riusciva a non dare comunque a loro la colpa di tutto. A sua madre principalmente. Alla sua ridicola ossessione di vederla come la ragazza che non era mai stata nella vana convinzione di poterla così rendere felice.
    «Avevo solo bisogno di qualcuno di stabile a cui affidarmi.» Per quanto fredda, la realtà era quella. Aveva scelto di tornare dai loro genitori, accettare il loro aiuto, solo perché certa di poter contare su di loro soprattutto dopo la decisione di Mason. Aveva scelto la strada più facile convinta di non avere alternative. In quello in fondo continuavano a somigliarsi.
    Lo guardò per qualche attimo in silenzio. Cercò qualcosa sul suo viso, nei suoi occhi. Scavò oltre la tristezza di quella conversazione alla ricerca d'altro, non avrebbe nemmeno saputo dire cosa.
    «Tu sei felice?» Una domanda improvvisa che spezzò il silenzio. «Di nuovo con la tua famiglia. Con le tue vecchie abitudini. È tutto più facile ora, no? Tutto già scritto.» E non c'era rancore in quella domanda. Era solo una rassegnata verità. Una alla quale si era adeguata, sebbene con fatica, da quel momento in cui Mason aveva scelto senza di lei.

     
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    Tra un silenzio e l'altro, si sollevano parole placate di furia, ma pregne di celata sofferenza. Di rabbia. Rancore. La voce del Chesterfield racconta la propria verità posandola sotto un'apparenza bugiarda. Fa un tutt'uno di realtà e menzogna, solo perché prossimo alla rassegnazione, all'adattarsi all'idea Helena sia ormai in un mondo a sé, una porzione di vita a parte cui non gli è più concesso l'ingresso. Non perché non sia in sé, ma perché quell'alternativa sembra sul punto di inglobarla inevitabilmente. 'Ma è quello che vuoi, no?' Essere come le altre, essere normale. È l'obbiettivo che ha scelto di perseguire, quello che ha sbattuto in faccia al ragazzo senza remora alcuna. E sebbene finga di farlo, non si stupisce per nulla dell'effetto di quel tentativo. Puntare a qualcosa ed ottenerlo, lo sa bene, non dà quasi mai la soddisfazione sperata. Helena ha cercato la pace, trovandola in un'illusione. Il prezzo da pagare è perdere se stessa. I farmaci forse sono i compagni che la trascinano lontana da ciò che è. Come potrà rendersene conto, a questo punto? Sospira amareggiato da quella prospettiva, evitando ancora il suo sguardo per evitare di cedere all'effetto che altrimenti gli farebbe. È già difficile resistere al suono della sua voce, a quella calma che della Haugen ha solo il timbro. Persino le sue parole, vuote della furia che normalmente le dominerebbe, risultano gusci vuoti. 'È ciò che credi? Che sia facile?' Sorride amaro, saltando volontariamente il quesito precedente. Come potrebbe essere felice? E come può lei pensare ancora, con così tanta ostinazione, che il brusco percorso a cui ha scelto di sottoporsi sia facile? La protezione guadagnata, l'aiuto ricevuto, non eludono i nuovi ostacoli che gli tocca fronteggiare ogni giorno: le dita sporche di sangue, la coscienza nera, il riverbero della delusione del fratello a bussare nella sua testa. Ogni giorno. Incessantemente. 'Voglio solo ottenere la mia giustizia. Poi non so cosa succederà, cosa farò o dove andrò.' Ribadisce, non aspettandosi più nulla in cambio. Non comprensione, né appoggio. Non ne ha ricevuto quando il loro equilibrio risultava stabile; perché dovrebbe essere diverso, ora che le loro strade appaiono definitivamente separate l'una dall'altra? 'Ho scelto di farlo, ma non avevo scelto di farlo da solo.' E per quanto suoni come un'accusa, non lo è. Le rivela solo la propria verità, quel punto di vista che non sono mai stati in grado di condividere. Porge tra le sue mani la sofferenza che l'ha ingabbiato ad ogni incontro mancato, alla crescente consapevolezza la vita di Helena abbia preso una piega differente, che non lo vede più come partecipante. Non un compagno. Non una spalla. Non il membro inattaccabile di quella squadra andata distrutta, infranta coi loro patti, con i sogni, con la voglia di raggiungere una via d'uscita che non si è mai palesata. 'Ma forse funzioniamo meglio così, no? Prima era tutto troppo marcio perché andasse bene.' Gira attorno a quel punto sospeso. Una parte di sé ha bisogno di una verità solida a cui fare riferimento, per quanto dura possa essere. L'altra, ancora umilmente attaccata a quei sentimenti mai rassegnatisi, ne ha tremendamente paura. Aspetta che sia lei a dare una definizione a quell'interrogativo. In quel campo però nessuno dei due è mai stato ferrato. Le etichette non hanno mai imparato ad assegarsele. 'Dovresti guardarti meglio allo specchio. Magari scoprirai di essere felice come desideri.' Sputa appena più aspro, sollevandosi dalla panchina per schiacciare col piede il mozzicone scivolato a terra. Spegne quella scintilla come Helena ha implicitamente fatto con la loro. 'Però se continui a non vederti, forse c'è qualcosa che non va.' Rivela scettico, colpevolizzando lei, le sue scelte, le medicine, la famiglia, la sua vita. Volhard. La sua violenza. E nel profondo, silenziosamente, anche e soprattutto se stesso.


     
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    Non rispose.
    Era chiaro, almeno a lei, Mason la stesse implicitamente accusando di aver preso una scelta come quella che l’aveva portata irrimediabilmente lontana da lui. Per Helena non era così semplice. Non aveva agito come aveva fatto per dispetto, nè per curarsi da una persona in particolare, da una presenza in particolare. Era caduta molte volte in quegli anni, ma dopo quel che era accaduto a Villa Volhard si era sentita spezzata. Le era sembrato di non esistere più. Le era sembrato di essere già morta. Allontanarsi era stato il suo modo di cercare riparo. Di cercare vita. Non aveva ritrovato se stessa ma stava cominciando a rassegnarsi all’idea di essersi persa per sempre.
    Ascoltò le parole di Mason.
    D’altro canto, non poteva far altro che accogliere il dolore dell’altro. Sebbene con cautela, anche se non con meno sofferenza, il Chesterfield le riservò contro la sua acidità, il rigurgito del suo dolore. Solo qualche mese prima, Helena non avrebbe perso tempo a scagliarsi di rimando contro di lui. Non fu quel che fece.
    Strinse le labbra chinando il capo, accogliendo le colpe che Mason aggiungeva alla lista infinita che la Haugen aveva già stilato per sè. «Okay.» Lo aveva lasciato solo, era di questo che la accusava ed Helena non avrebbe potuto contraddirlo. Nelle sue condizioni però, non si era sentito in grado di affrontare anche quel tipo di guerra. Dinanzi alla possibilità di nuovi dolori, aveva scelto il ritiro.
    Le parole che seguirono furono più dolorose di quanto si aspettasse, e nonostante il costante obnubilamento provato nei confronti della vita grazie alle medicine assunte, sentì come un frastuono nel petto. Il suo cuore si mosse veloce mentre lo sguardo, ora lucido e ferito, ricercava il suo.
    Marcio. Si chiese se pensasse realmente quello di loro e se tutto quello che avevano passato, condiviso, amato si riducesse a quello. Marcio. Chinò lo sguardo stringendo i denti sul labbro inferiore, le dita sull’orlo dei suoi pantaloncini a sfiorare le cicatrici che prudevano, quasi urlavano di essere toccate, squarciate. «Già.» Aggiunse poco dopo, lo sguardo lontano le spalle basse. Lo imitò a quel punto, incapace di resistere. Si tirò in piedi, guardandolo un’ultima volta. Le sue parole scatenarono una tempesta emotiva che non sarebbe stata in grado di sopportare. Non lì, non senza aiuto. Sentì la necessità di allontanarsi, di tornare al proprio dormitorio e magari dormire. «Devo andare.» Non replicò, non rispose agguerrita. Deponeva le armi dinanzi a quel dolore che non sapeva gestire. Si allontanò di qualche passo, facendo ben attenzione a tenere lontana da lui il suo sguardo. Poi però si fermò. «Fa attenzione. La giustizia a volte fa schifo. Garantito Non lo guardò mentre gli faceva dono di quelle ultime parole. Un monito a cercare bene la giustizia in luoghi diversi dal consueto. Di sicuro diversi da quelli che invece Mason dibatteva.

     
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