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Roxy

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    Come lo misuri il tempo? E' un rompicapo irrisolvibile per me. Ho perso la capacità di apporre oggettività nelle cose che lo richiedono. Lo scorrere delle lancette è solo un sottofondo al mio modo di giostrare i minuti in cui mi sento vivo. A volte quel fottuto ticchettio mi diverte persino, di un diletto isterico strettamente legato alla necessità di prenderla con ironia questa cazzo di vita, altrimenti andrei a fondo. Altre volte mi dà alla testa, mi fa impazzire, alimenta la mia impazienza portandomi al limite della sua positiva controparte. A quel punto sento il bisogno di cedere. Pezzetto per pezzetto, ago dopo ago, mi aggrappo ad una felicità che non c'è. Eppure sembra così reale, quando improvvisamente il mondo si zittisce. E con esso, tutte le mie preoccupazioni si dissolvono. Non è un cazzo di sballo? Immagino lo sia in ogni senso. Dell'ironia però non capisco più la forma. Non distinguo il serio dal buffo, il giusto dallo sbagliato, la vita dalla morte. E' tutto un miscuglio, una poltiglia di elementi che non posso scindere gli uni dagli altri. Il mio compito è quello di immergermici senza lasciarmi soffocare. Di rimanere a galla, perché solo così avrò vinto. Ne sono fermamente convinto, mentre colleziono quelli che a mente lucida giudicherei dei fallimenti ma che mi appaiono in realtà solo come serie di eventi incontrollabili. Ogni cosa elude la volontà umana in questo universo; tanto vale arrendervisi in precedenza. Si vive meglio. Si sopravvive. Ed è questo mantra lagnoso che infesta i miei pensieri, mentre oltrepasso la porta della mia sala comune per l'ultima volta. Reggo in mano uno scatolone, mentre sulle spalle un grosso borsone malconcio penzola avanti e indietro. Pieni della mia roba, scarsa e per nulla ben tenuta. Pieni di ciò che è stata la mia vita qui dentro, in una breve parentesi ormai giunta al termine. Posso immaginare le cause della mia espulsione, ma non me ne capacito. Mi aspettavo più comprensione forse, ma anche in questo caso mi tocca arrendermi alla consapevolezza non sia abbastanza capace di giudizio per mettere bocca su una decisione simile. Poco male, ho sempre fatto schifo con la bacchetta. Questo mi rende meno simile a mio padre? Mi renderà migliore agli occhi di mia madre? Potrei andarglielo a chiedere. Magari sarà proprio casa sua la prima tappa ad aspettarmi dopo aver abbandonato il castello. Prima di raggiungere l'entrata però, ancora barcollante tra i corridoi della torre ovest con l'aspetto di un fantasma desolato, riconosco una figura tra le tante facce imprecise degli studenti che mi osservano. Non potrei non riconoscerla, la troverei tra migliaia di persone. E riconoscerei anche il suo profumo. I suoi capelli. La sua bellezza. Cazzo, quanto mi manca. Io però non manco a lei. Così credo. Sarà il caso di chiederglielo? Forse appena di tastare il terreno. L'incoscienza mi spinge a farlo, a raggiungerla sebbene Roxy, probabilmente ancora incazzata con me e di sicuro presa dai propri impieghi per darmi retta, sia girata da tutt'altra parte. Non riesco ad evitarla. Come un dannato kamikaze, la affianco come se nulla fosse mai successo. "Tuttofare!" Nominativo tipico. Abitudine tipica. Di tipico però noi non abbiamo nulla. Se solo riuscissi a capirlo... "Come mai qui? Non hai tipo degli scopettoni da catalogare o... qualunque cazzo di cosa noiosa?" Le sorrido persino, incapace di captare il pericolo. C'è persino una piccola parte di me ancora ferita dal suo allontanamento, irrazionale ed imprecisa, ma sono troppo distratto per potermene ricordare. Poggio con poca grazia lo scatolone sul pavimento, al punto da lasciar balzare fuori qualche gobbiglia regalatami da White e rovesciare alcune suppellettili già malamente impilate da sé. Non reagisco comunque, neanche ci faccio caso. "Capolinea per me, baby." E' divertente. No, non lo è per niente. Io però non riesco a smettere di sorridere.
     
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    Quell'anno scolastico si era mostrato subito differente rispetto a quelli precedentemente trascorsi da Roxy ad Hogwarts in veste di tuttofare. Ed ora, arrivati ormai alla fine di Marzo, quella che a Settembre le era parsa solo un'impressione si era consolidata in una certezza: forse i tempi erano maturi per un cambiamento, anche se la Jackson ancora non avrebbe saputo dire di che natura. Tutto ciò che sapeva era che il castello non era più la seconda casa che aveva sempre rappresentato per lei, forse perché le basi affettive che l'avevano reso tale stavano venendo a mancare, con la fine della sua relazione con Asher come più eloquente dimostrazione di quel mutamento. Per quanto non si sentisse poi molto più matura dei ragazzi che frequentavano quella scuola, le sue esperienze di vita la rendevano in effetti molto distante da quella dimensione protetta e vibrante di promesse future rappresentata da Hogwarts. Si sentiva fuori posto e di certo il lavoro di copertura che aveva continuato a svolgere per tutti quegli anni iniziava a pesarle non poco, ora che non aveva più bisogno di tenersi buoni i servizi sociali, il Ministero, né di arrotondare guadagni che ormai si erano fatti decisamente più cospicui. Tuttavia, pur avvertendo la necessità di un cambiamento, Roxy non riusciva a collocare sé stessa in un contesto diverso, salvo ovviamente quello nel quale portava avanti i suoi affari più remunerativi. Il punto era che, forse, non voleva limitarsi alla strada, alla produzione e allo spaccio di ciò che le permetteva di guadagnarsi da vivere. Voleva anche una realtà parallela, un luogo in cui far coesistere ognuna delle sue nature: la ragazza cresciuta nel mondo babbano e la strega, la criminale e la Roxy più spensierata, che amava il divertimento e la compagnia.
    Mentre si chiedeva se un posto che rispondesse alle sue esigenze esistesse realmente, gli occhi della tuttofare intercettarono una figura familiare, la personificazione di quanto l'idea stessa di assecondare ogni proprio bisogno e desiderio fosse in effetti fottutamente imprudente da parte sua. Il Puckett si trascinava per i corridoi con uno scatolone tra le mani, osservato da ogni singolo studente avesse occasione di assistere al suo passaggio. Un attimo prima di chiedersi cosa stesse effettivamente combinando il Grifondoro - croce della sua vita e della sua carriera lavorativa allo stesso tempo, sintomo di una debolezza che lei mai avrebbe dovuto concedersi - la Jackson si ritrovò a pensare che era come assistere ad una scena tipica di molti film americani, commedie divertenti seppur prevedibili, che le era capitato spesso di guardare con i suoi fratelli e in cui le vicissitudini del protagonista iniziavano spesso con un licenziamento in tronco. Forse un modo in cui le major cinematografiche suggerivano agli spettatori che lo spietato capitalismo statunitense, infondo, poteva offrire spunti per nuove avventure. Stronzate sociali a parte, il fatto che Asher sembrasse davvero un tizio appena licenziato non prometteva nulla di buono.
    E tu non hai ben pochi motivi per andartene in giro con quel sorriso stampato in faccia?
    Coglione. Era l'appellativo che più spesso avrebbe voluto rivolgergli, quello che in effetti gli aveva rivolto più di frequente nel corso dei loro ultimi incontri, decisamente poco recenti se paragonati a quelle che erano state le loro passate abitudini. Ma insomma, come altro avrebbe potuto definire Asher Puckett? Tutto ciò che le veniva in mente era emotivamente troppo ingombrante per poter essere espresso a parole.
    Che significa?
    L'immagine cinematografica che le era balzata in mente non si discostava poi molto dalla realtà. Asher era ben lontano da potersi dire al termine della sua carriera scolastica, ma l'idea di un trasferimento in un'altra scuola non solleticò nemmeno per un momento le ipotesi della ragazza di Harlem. C'era qualcosa di definitivo nella voce del ragazzo, nelle parole che aveva scelto.
    Ti hanno buttato fuori?
    Gli occhi color caffè rimbalzarono dal volto del Puckett allo scatolone ora abbandonato a terra, poi ancora ai due frammenti di cielo che erano le iridi del Grifondoro. Gli occhi, ad un primo impatto, sembravano aver subito in misura minore il metodico massacro a cui Ash aveva sottoposto il suo corpo. Era più magro del solito, il volto scavato e pallido. Le braccia erano coperte, ma sotto la stoffa erano certamente ricoperte di segni che gridavano una desolante verità. Ma uno sguardo più approfondito, quello di chi lo conosceva bene, avrebbe colto quanto anche i suoi occhi si fossero in realtà trasformati. Persino ora, mentre ostentava un tono scherzoso, i suoi occhi erano spenti, privi della luce che li aveva sempre caratterizzati.
    Cristo, Ash... istintivamente, Roxy lo afferrò per un braccio, con l'intenzione di trascinarlo via dagli sguardi curiosi degli altri studenti Non avete un cazzo di meglio da fare?! Pensate ai cazzi vostri!
    Abbaiò quegli ammonimenti forse con troppa aggressività, considerato che probabilmente lei stessa si sarebbe fermata ad assistere trovandosi nella loro posizione. Uno studente che lasciava Hogwarts in quel modo era qualcosa di piuttosto inusuale. Un vero e proprio evento, a conti fatti. Comunque, la Jackson non provò alcun rammarico nel vedere una ragazzina del primo anno sussultare, né un gruppo di studenti del quinto bisbigliare commenti che lei non riuscì a cogliere. Trascinò Asher in disparte, certa che nessuno avrebbe rovistato tra gli averi accumulati nello scatolone, non sotto gli occhi di tutti. La rientranza di una grande finestra offrì loro un rifugio approssimativo e provvisorio. fu a quel punto che Roxy mollò la presa sull'altro, recuperando un po' di distanza tra i loro corpi poiché costretta ad ammettere a sé stessa che il contatto fisico con lui la metteva in difficoltà.
    Si sono accorti che sei andato ben oltre l'Erba Allegra?
     
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    Una parte di me si aspettava di fronteggiare uno sguardo così duro. Perché allora fa comunque male? Mi manca la razionalità che ero in grado di mantenere in momenti come questo. Era solo dura doverla affiancare a tutto il resto; mia madre, i soldi, tutto quel pensare compulsivo, le difficoltà da fronteggiare. Quest'adrenalina altalenante mi tiene abbastanza impegnato da rendere quel disastro nullo, qualcosa di cui nemmeno ricordo le fattezze, né tantomeno gli effetti. Forse è così perché di quelle conseguenze mi ci sono cibato, assetato sino all'ultima goccia del silenziatore a quei pensieri. Dritto in vena. Dritto in un corpo incapace di giostrarsi in quel mondo brusco. "C'è sempre un motivo per sorridere, quando sei nei paraggi." Dovrei frenare i miei impulsi, le mie parole. Dovrei rendermi conto del tipo di fendente traditore rappresentino per la Jackson. Continue sferzate al cuore che lo lacerano crudelmente. Un sorriso, una considerazione tanto leggera, può uccidere più delle velenose parole che un litigio normalmente scatenerebbe. Immagino sia ciò che caratterizza la tossicità di cui sono vittima. Un nome, una garanzia. Una condizione, il consequenziale caos che ci frantuma le anime. "Oh yes, baby! Il mio soggiorno in questo posto per damerini col cervello molto più grande di una noce è ormai finito! Grazie, grazie, gli autografi dopo." Rispondo a lei, prestando al contempo attenzione agli sguardi attenti di chi ci è intorno. Meritano risposte alla loro curiosità, no? Roxy non pare del mio stesso avviso. Sentirla sbraitare contro ciascuno studente nei paraggi mi strappa l'ennesimo sorriso, più simile ad una risata sommessa a dire il vero. Cosa ci sia da ridere? Non ne ho la minima idea. Tuttavia in questo stato ogni cosa appare divertente ai miei occhi. E' una protezione, lo scudo al dolore che mi spingerebbe ancora tra le grinfie di una siringa. Non è il momento adatto per farlo, decisamente. "Ciao, belli!" Farfuglio a fatica, lasciandomi trascinare dalla Jackson senza grandi proteste. L'ombra di un "Non toccate la mia roba!" si perde in mugolii confusi, un po' come i miei occhi arrossati che vagano di qua e di là. Nessun obiettivo, né un punto fisso. Persino il volto di Roxy non riesce a mettersi a fuoco nelle iridi di un celeste spento, quasi ingrigito dagli eventi. Dal morale. Dalla mia vita. "Uhm..." Rimugino sinceramente confuso alla domanda della ragazza. Vorrei avere una risposta certa, ma nessuna delle mie sembra esserlo. Lei forse riuscirà a vedere meglio di quanto persino io faccia. Probabilmente è sempre stato così. "Beh, sì! Cioè... non ho fatto del male a nessuno, però la preside non mi vuole più così... credo!" Continuo a rilasciare informazioni sparse, incerte. Solo briciole di una realtà che non comprendo, ma facilmente intuibile ad un occhio esterno. Ancor di più, allo sguardo attento di una Roxy in balia del dramma di merda a cui la sto sottoponendo senza rendermi conto. "Magari è per i miei voti di merda, non so fare un cazzo." Leggero il modo in cui le parole vengono fuori dalle mie labbra. Portano chiaramente significati assai più pesanti. E' questa la figata delle droghe: rendono vivibile l'inferno in cui altrimenti bruceremmo. "E poi è un'esagerazione, non ho fatto nulla." Una bugia, l'ennesima, pronunciata con infantile semplicità. "E se anche fosse, potrei smettere quando voglio." Un'altra, scontata e tipica di chi ci è già dentro in maniera forse irrecuperabile. "E tu come stai? Sembri più incazzata del solito." Innocente, ma di sicuro sconveniente. Come tutto il resto.
     
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    Non si aspettava niente di diverso dal tono scherzoso con cui Asher reagì alle sue parole. Ormai aveva capito che il ragazzo aveva deciso di gestire così le loro conversazioni: se non era l'astinenza a prevalere generando irritazione e rabbia com'era successo quell'Estate, allora l'approccio di Asher era scanzonato e leggero. Peccato che tutto ciò risultasse tanto ostentato da rivelarsi "finto", costruito, un involucro privo di un reale contenuto. Il risultato era disturbante per Roxy: distorceva la realtà, rendeva ogni loro confronto una messa in scena priva di spontaneità, un teatrino a cui lei avrebbe rinunciato volentieri, ma all'interno del quale veniva inevitabilmente coinvolta.
    Mpf.. risparmiamelo.
    Lo ammonì dunque in modo brusco, decisa a stroncare sul nascere le ruffianate dell'altro, complimenti o dolcezze che un tempo avevano significato qualcosa - molto più di quanto fosse stata disposta ad ammettere all'epoca - ma che ora non valevano più nulla perché contaminate dall'unica vera ossessione verso cui il Puckett era costantemente proteso. La Jackson non riusciva a tollerare che lui macchiasse in quel modo quello che un tempo era stato un approccio spontaneo, un modo di porsi nei suoi confronti che l'aveva messa in imbarazzo, magari anche fatto roteare gli occhi in alcune occasioni, ma che infondo l'aveva sinceramente intenerita. Era doloroso, oltre che terribilmente irritante. Roxy decise comunque di lasciar perdere, non avrebbe sollevato alcuna discussione in merito.. soprattutto visto il peso della notizia che lui le aveva appena confermato.
    Ma che stronzata..
    La sua indignazione vibrò nell'aria. Così Hogwarts ora sbatteva la porta in faccia ad Asher Puckett? Per quanto Ash la definisse come tale, quella scuola non era mai stata un circolo di damerini ma anzi un ambiente piuttosto eterogeneo. Le porte di quel castello si erano aperte anche per ragazzi come lei, Frankie, Brandy.. adolescenti bollati come problematici, che avevano un trascorso all'insegna dell'illegalità e magari si erano fatti anche un soggiorno più o meno lungo in riformatorio. In confronto a loro, Asher era un bravo ragazzo: aveva sempre danneggiato deliberatamente solo sé stesso, non era un pericolo per il prossimo, piuttosto una potenziale vittima per chiunque volesse approfittarne.
    I tuoi voti non c'entrano. Non ti vogliono più perché hai scritto "tossico" sulla fronte.
    Faceva il finto scemo, ma Roxy era certa che il Grifondoro fosse sufficientemente consapevole dello stato delle cose. Magari avevano usato il suo rendimento scolastico come scusa, ma nessuno studente era mai stato sbattuto fuori perché non studiava abbastanza, difatti Hogwarts era piena di ripetenti che frequentavano ben oltre il normale termine di permanenza tra quelle mura. Magari Asher si presentava poco a lezione, ma era più probabile che il vero problema fosse che, quando si faceva vedere, il suo aspetto ed il suo stato fossero considerati impresentabili per chi assisteva allo scempio che quel coglione stava facendo di sé stesso. Roxy si appoggiò al davanzale interno, posando il capo contro la vetrata e frugandosi in tasca alla ricerca del pacchetto di sigarette. Fumava sempre quando era nervosa e in quel momento era ben lontana dal porsi il problema del luogo in cui si trovava.
    Non posso credere che lo stiano facendo. Si sono bevuti il cervello?! Un tempo le cose sarebbero andate diversamente..
    Ne era convinta. Alcuni presidi avrebbero agito diversamente, alcuni inseganti si sarebbero schierati impedendo che venisse preso un simile provvedimento. Avrebbero provato ad aiutare quello studente alla deriva, ad offrirgli il loro supporto sotto ogni punto di vista, cazzo.. forse avrebbero persino provato a farlo disintossicare tra le mura del castello. Ormai era fottutamente chiaro che a nessuno importasse più niente di persone come Asher Puckett.
    Ti rendi conto che parli proprio come un tossico che ha perso il senso della realtà, mh?! sbraitò in modo del tutto improvviso, facendo quasi cadere a terra l'accendino e recuperandolo al volo in extremis, per poi rivolgere all'altro un'occhiata di fuoco Tu non smetti quando vuoi, non funziona così.
    Si accese la sigaretta e aspirò, trattenendo il fumo dentro di sé e poi rigettandolo fuori con stizza. In quel momento il pensiero che avrebbero potuto ammonirla per questo, convocarla in presidenza o chissà che altro, le attraversò la mente, ma Roxy se lo scrollò di dosso picchiettando sulla sigaretta per far cadere la cenere sul pavimento in pietra. Se Asher avesse riattaccato con quella storia del pieno controllo del suo rapporto con la droga, la Jackson sentiva che avrebbe dato di matto. Era dai tempi di Harlem che si sorbiva quelle stronzate, persino da prima di accendersi la sua prima sigaretta, di pomiciare per la prima volta, di bere la sua prima fottuta birra. "Posso smettere quando voglio" era la frase preferita dei tossici nel corso dei primi mesi di dipendenza, ma nel caso di Asher quell'opera di autoconvincimento si stava protraendo così a lungo da risultare ancora più preoccupante.
    Certo che sono incazzata, Cristo! Sono più incazzata del solito..? Beh, questo è il mio "solito" da quando tu hai deciso di mandare a puttane la tua vita!
    Aveva alzato la voce e si era di nuovo guadagnata qualche sguardo allarmato da studenti di passaggio. Non ci fece caso. Sapeva che Asher era troppo immerso nella sua dipendenza per prestare attenzione al suo prossimo, quindi era normale che non si rendesse conto di quanto ciò che stava facendo a sé stesso influisse sullo stato emotivo di Roxy. Era comprensibile che non capisse che, malgrado l'americana avesse posto fine alla loro relazione, questo non l'aveva realmente portata a prendere le distanze da lui. Ma il fatto che la riccia potesse facilmente dare un senso alla mancanza di intuizione da parte di un tossicodipendente, questo non le impediva di incazzarsi ugualmente con lui per quella ragione.
    E ora ci si mette pure la presidenza, mi viene voglia di andare a ribaltare qualche fottuta scrivania!
    Le prudevano le mani. La velocità con cui divorava la sigaretta era sintomatica della concreta possibilità che, da un momento all'altro, la tuttofare potesse marciare come una furia fino all'ufficio della preside e scatenare l'Inferno, sbraitando contro chiunque avesse un minimo di autorità all'interno di quella scuola. Il controllo del giro di Hogsmeade e di diverse zone di Londra le aveva dato alla testa, aver sempre soldi in tasca e ragazzi che agivano per suo conto le aveva messo addosso quell'adrenalina che tanto aveva desiderato e nell'euforia di quel suo nuovo status ogni ostacolo le sembrava pronto per essere abbattuto. Solo gli occhi di Asher, quei due frammenti azzurri così opachi rispetto a come si offrivano al mondo un tempo, la trattennero dal farsi definitivamente licenziare. Asher non aveva più un lavoro, era stato espulso da scuola e probabilmente aveva un letto in cui dormire solo in casa di sua madre, con tutta la tossicità emotiva di cui quel luogo era impregnato.
    Cosa cazzo pensi di fare, ora?
     
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    La realtà mi appare ovattata, deforme. Si adatta a contorni variabili, ad un disegno che non trova stabilità né abitudine. I gesti di Roxy, un tempo per me chiari e concisi perché caratterizzati da quella schiettezza che ho sempre apprezzato, non trovano riscontro in alcuna logica per me adesso. E' perché non riesco a guardare la realtà con occhi altrettanto oggettivi. Di conseguenza, comprendere a cosa le sue reazioni siano dovute, a cosa siano rivolte, è un intrigo che mi annoda il cervello. Un cubo di rubik che rende i miei pensieri irrisolvibili. Con chi è arrabbiata? Con me, con la scuola, con qualche cliente? Perché il fuoco che sputa raggiunge il mio volto e poi si espande alle pareti di questi corridoi? Ed i ragazzi che guardano... anche loro diventano vittime del suo astio. La preside, i professori, magari la stessa istituzione scolastica nella sua generalità. Tutte ipotesi che non concepisco. Papabili risposte che non afferro. "Non c'è scritto niente sulla mia fronte. Dovresti vedere le mie pagelle." Intervengo senza sosta, seriamente fermo in questa bolla mancante di realizzazione. E' uno dei principali danni collaterali del tunnel in cui sono incappato. Ti appanna gli occhi, poi pone un velo d'incomprensione sui tuoi sensi e sulla ragione. Ed io che posso farci? Non mi hanno insegnato come liberarmi di questi effetti. Oh... beh, l'hanno fatto, ma non ho avuto abbastanza forza da ricordarmene. "Secondo me stai esagerando." Un cartellino rosso, l'azzardo che normalmente saprei di non dovermi permettere. Non per la presenza di un'assurda permalosità presente nella Jackson, piuttosto invece particolarmente lontana dagli schematici stereotipi femminili basati su concetti tanto frivoli e falsamente accomunanti. E' l'andare contro i suoi tentativi di aiutarmi a suonare estremamente sbagliato. A prescindere dai modi in cui lo dimostra, c'è premura nelle sue parole, nell'agitazione di cui è vittima. In altre condizioni lo capirei nell'immediato. Ora però è solo la superficie quella che si palesa ai miei occhi, una fredda verità sformata che mi appare sotto vesti crudeli, dettate da un'assenza di consapevolezza abitualmente posseduta. Si ritorna un po' bambini, dove la strada per le soluzioni è univoca. Le urla sono rabbia, i pianti tristezza, i sorrisi felicità. Non c'è alternativa, perché tutto segue una linearità che mi è di conforto, che ho ricercato proprio per sfuggire agli intrecci incomprensibili della vita. Una che mi si ritorce però contro, impedendomi di carpire l'affetto, l'amore magari, insito nell'isterismo di facciata che la Jackson sputa contro tutto ciò che le è intorno. Odio questo genere d'inghippo. Lo odio ora più che mai, perché mi presenta una delle persone più importanti della mia vita come una nemica afflitta dall'insopportazione nei miei confronti. "Non ho mandato a puttane niente, stai delirando!" Controbatto ancora alle sue parole, inconsapevole del male che le faccio, di quanto nella mia insistenza sia insita ogni singola accusa che lei mi rivolge. Preoccupazioni mascherate da rimproveri; un tranello in cui casco disperatamente. "Ehi, che fai?" E' comunque con calma ed annebbiamento che mi rivolgo a lei, le sopracciglia inarcate nello stupore quando una sigaretta si accende tra le sue dita. Riesco a collegare l'ambiente in cui ci troviamo, a ricordarne i moniti e divieti, abbastanza da avanzare con soffocata premura nei riguardi del suo impiego, in definitiva di lei. "Non dovresti, potresti passare i guai." Eppure non allungo la mano in direzione della piccola bacchettina di tabacco. Sospiro pesantemente, stanco, poggiando la schiena al muro come se non dormissi da giorni. Le montagne russe su cui viaggio da diverse settimane mi logorano. Alterno euforia ad attimi rassegnati come questo. Spento, rimugino per qualche istante sulla sua domanda, non trovando un capo o una coda che rendano le mie eventuali risposte concrete. "Vado a casa, no?" Non specifico quale. Fondamentalmente non so neanch'io a cosa mi riferisca. A volte mi sembra di avere sin troppe case a cui rivolgermi ed altre è come se non avessi neanche una tegola per riparare la mia testa. Sto ancora al mio appartamento, ma non credo di aver pagato l'affitto di questo mese. Forse neanche quello dello scorso. Oppure l'ho fatto? L'avrà fatto qualcuno per me? Non riesco a ricordare. Non mi importa. "Dai, è un paradiso, pensaci! Niente più compiti, basta lezioni, niente bacchette e strane cazzate da citrulli fuori di testa." Una considerazione accompagnata da un commento necessario, che solitamente tratterrei. Ora però fluisce dalle mie labbra con naturalezza innata. "Così non somiglierò più così tanto a quello stronzo di mio padre." Condividere parti di me con quell'uomo ha sempre disgustato mia madre e me di riflesso. Superficialmente potrei dire di provare sollievo nell'esservi ancora più lontano adesso. Non è solo l'orgoglio che prevedo nella reazione della mamma. C'è dell'altro, fino ad ora controllato da un insano desiderio di migliorare, migliorarmi, che torna a galla investendomi con la rassicurazione di cui ho bisogno. Peccato che Roxy non sembri dello stesso avviso. A lei probabilmente piaceva l'idea di avermi qui intorno. Un po' sciocco da parte sua, ma l'ho sempre apprezzato. Me ne sono cullato, convinto di poter andare avanti grazie a lei. Evidentemente non l'ho mai meritato. "Che importanza ha? Troverò un modo per cavarmela, sono in gran forma!" Commento ancora velato di quell'infantile ottimismo. Un veleno, più che una medicina. Un solo, piccolo, fugace sprazzo di positività prima che la prospettiva di un futuro ancora più lontano da Roxy appaia vivida ai miei occhi, più di quanto non sia riuscito a fare sino ad ora. "Cazzo, però... tu mi mancherai da morire." Confesso senza fronzoli, sollevando lo sguardo lucido ed arrossato sul suo. "Mi manchi già tanto, in realtà." Sincero, non riesco a trattenere quelle moine che sono sempre stato troppo bravo a rivolgerle.
     
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    Le parole di Asher le mandarono il sangue al cervello, per l'ennesima volta. Una parte di lei considerava di doversi controllare: non tanto per l'ambiente in cui si trovava, quanto per il fatto che se si fosse lasciata guidare unicamente dalla rabbia e dall'esasperazione avrebbe ottenuto il medesimo risultato a cui avrebbe potuto aspirare allontanando il ragazzo con uno spintone e lasciando che proseguisse per il suo cammino di auto-distruzione. Tanto valeva che se ne andasse, se tutto quello che sapeva fare era aggredirlo in risposta ad ogni stronzata che sentiva uscire dalla sua bocca. Il fatto era che ascoltarlo senza dare di matto le risultava davvero difficile: il fatto che fossero passati mesi da quando avevano rotto non migliorava le cose, quel tempo non era servito a placarla permettendole di affrontare la situazione in modo diverso. Roxy non aveva mai saputo affrontare le emergenze in modo pacato, calmo, razionale e non aggressivo. Si trattava di qualcosa che andava ben oltre le sue capacità.. e doveva ammettere che il suo modo brutale di gestire i problemi le era sempre parso abbastanza efficace, almeno sul breve termine.
    Non dirmi che sto esagerando, cazzo.. non lo sopporto.
    Aveva sentito quelle parole uscire dalla bocca di sua sorella un'infinità di volte. Ogni volta che il fidanzato di merda di turno le metteva le mani addosso la reazione di Steph alla furia della sorella era un "stai esagerando", solo quando ci andavano davvero pesante accettava che Roxy risolvesse le cose a modo proprio, senza però mai ammettere che la sorella minore aveva avuto ragione sin dall'inizio. Con il Puckett la situazione era spaventosamente simile: anche per lui l'espulsione da Hogwarts evidentemente era una faccenda di poco conto e solo una volta che si fosse trovato a fare i conti con le conseguenze avrebbe capito che quello era stato l'inizio della fine.
    Tu non ti rendi conto di cosa significa tutto questo per te, non è vero?
    Imprecò a mezza voce, assalendo la sigaretta come se la sua rabbia avesse bisogno di ulteriore carburante, fuoco per poter divampare meglio. No, non vi era affatto quella necessità. Ma se non si fosse sfogata nel semplice atto di fumare, probabilmente la Jackson avrebbe ripreso a gridare. E invece no, ok.. niente urla, ma forse era necessario spiegare ad Asher come stavano effettivamente le cose, mostrargli ciò che agli occhi dell'americana era assolutamente evidente.
    Tornerai nel tuo fottuto appartamento, se ne hai ancora uno.. altrimenti da tua madre. e forse era evidente il sottointeso per cui quell'opzione per Roxy era anche peggiore In ogni caso, la tua vita diventerà un alternarsi di fasi in cui sei fatto e fasi in cui fai di tutto per procurarti i soldi necessari a comprare la roba.
    La previsione che gli stava illustrando era cruda e lapidaria, ma dannatamente lucida. La Jackson aveva visto un'infinita di ragazzi intraprendere quel percorso - era stata proprio lei ad accompagnarli in quella discesa agli Inferi - ed era certa che non vi fosse alcuna alternativa oltre alla disintossicazione. O riuscivi ad uscirne o ci rimanevi dentro con tutte le scarpe e la droga diventava il centro nevralgico della tua esistenza, tutto il resto finiva con il trasformarsi in semplice rumore di fondo. Uscirne non era facile, questo ovviamente il Puckett non sapeva bene.. tanto che lui stesso era la prova che non ci si poteva mai dire del tutto liberi da quella merda. Un tossico non smetteva mai di essere un tossico. E lei era stata davvero stupida a non tenerne conto.
    Me ne sbatto, Ash. Non mi serve questo lavoro del cazzo, la ragione principale per cui sono ancora qui sei tu, coglione.
    Vomitò quella verità senza stare a pensarci troppo. Si rese conto di quanto fosse onesta nella sua semplicità solo quando fu la sua stessa voce a renderla tale. Fino a quel momento, nella sua testa, Roxy si era raccontata che il motivo principale per cui restava ad Hogwarts aveva a che fare con l'avere una professione di copertura e con la possibilità di tenere d'occhio lo spaccio di droghe leggere tra i ragazzini del castello. Ma per quanto riguardava quella piccola fetta del loro mercato, Brandy poteva gestire tutto da sola senza problemi.. ed era ormai evidente che per la Jackson sarebbe stato più indicato un altro tipo di professione che rendesse credibili le continue entrate economiche in casa sua. Magari un locale in cui riciclare il denaro della roba, qualcosa che ripulisse alla perfezione i suoi guadagni. Già, Roxy era ancora lì a pulire i pavimenti per un'unica ragione: stare vicina ad Asher. Quanto era patetico tutto ciò? Patetico e ormai anche piuttosto inutile.
    Non è mai stato tuo padre.. il genitore a cui rischi di assomigliare.
    Quel commento suonò particolarmente sferzante, in parte sicuramente in conseguenza del bisogno di compensare al sentimentalismo delle parole appena pronunciate. La ragazza di Harlem non poteva fare a meno di provare un bruciante rancore nei confronti della madre di Asher, di quella donna che continuava a confermarsi come una presenza tossica nella vita di suo figlio. Sapeva che anche lei era una vittima, eppure non riusciva a perdonarle l'incapacità di rappresentare un punto fermo nella vita del Grifondoro, qualcuno su cui contare e da cui sentirsi realmente amato. Naturalmente Roxy si rendeva perfettamente conto di quanto fosse ipocrita da parte sua dare giudizi morali sulla gente: difatti non era interessata a giudicare quella donna, semplicemente si limitava a nutrire astio nei suoi confronti.
    Se io ti mancassi davvero faresti qualcosa per uscirne.
    Una mossa penosa e disperata. Erano parole quasi infantili da pronunciare, eppure Roxy non poteva negare a sé stessa di crederci davvero. Sapeva che la questione non era così semplice, ma una parte di lei trovava insopportabile il pensiero che Ash non volesse fare nemmeno un tentativo, che per quest'ultimo la propria vita e il loro legame non contasse nulla rispetto alla sua devozione alle sostanze da cui si era lasciato irretire.
    Un tossico non smetteva mai di essere un tossico, ma poteva diventare un tossico che non si drogava. Che si impegnava a non farlo. Che poi un giorno ci sarebbe probabilmente ricaduto - e per questo restava un tossicodipendente per definizione - ma che ogni volta avrebbe fatto di tutto per venirne fuori. Questo era il miglior possibile epilogo per una persona con una dipendenza di quel tipo: una battaglia continua, per tutta la vita. Ma non era comunque meglio della resa?
    So che non è facile, ma non prendi neanche in considerazione l'idea di provarci.
     
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    Sarebbe bello potersi estraneare da ciò che siamo. Un'anima che attraversa le pareti del nostro corpo, che osservasse da fuori ciò che l'inconscio ci spinge a fare, guidando una macchina di muscoli che si agitano e merdate che vengono fuori dalle nostre bocche. Se solo fossi intangibile, la non concreta fotocopia irrealizzata di me stesso, mi inorridirei al punto da porre un freno al rivoltante spettacolo di cui sono preda. Bloccherei i miei polsi, tapperei la mia bocca, risucchierei via dal cervello marcio che mi ritrovo tutto ciò che lo rende tanto instabile, corrotto al punto da non distinguere più cosa sia il bene e cosa sia il male. Ne vedo le forme rimescolarsi, assumere le mie sembianze e sovrapporsi poi a quelle di Roxy. Un disegno sbagliato, la contaminazione del mio male nei confronti di qualcosa di troppo bello perché il mio veleno lo infetti. E' sempre stato così, ma ora non me ne rendo conto. Tra i tanti dettagli che sfuggono all'evidenza che l'assuefazione calpesta, forse il più peccaminoso è questo, il modo in cui il mio male annienta ciò che per me si è rivelato candido sin dall'inizio. Nonostante i moniti di mia madre, la possessività con cui ha riposto poca benevolenza nei confronti della Jackson, pur nascondendone l'evidenza ai suoi occhi, meno ai miei, ho perpetuato nell'immaginario di una salvatrice che potesse liberarmi da ogni male. L'ha fatto vendendomi le prime dosi forti della mia vita, ha continuato accogliendo e rispettando la mia disintossicazione, e di nuovo adesso spero forse in un ritorno alle origini, nella comprensione che mi riservava quando ero solo un ragazzetto spaesato a cui bastava zittire un po' il mondo per andare avanti. Quand'è che tutto questo è cambiato? Non trovo risposta al rimodellarsi delle cose. Mi sembra di impastare informi poltiglie che scivolano giù dalle mie mani. Non assumono un senso, non c'è forma che allevi i miei dubbi. Solo lo scalpello infuocato di chi infierisce ancora di più sulla creta asciutta del mio malessere indecifrabile. Non batto ciglio alle parole della Jackson; non me ne faccio niente delle sue preoccupazioni, perché mi è impossibile collegarle alla realtà. Mi rendo conto solo dopo, quando sono le parole giuste - per meglio dire, le parole sbagliate - a raggiungermi, di quanto abbia scavato a fondo in questo rapporto. In noi. Vi ho riposto più speranze di quanto le nostre bocche abbiano avuto il coraggio di pronunciare. Si sono mischiate tante di quelle volte le nostre labbra, i nostri corpi, ma mai una sola volta siamo stati un po' meno codardi, un po' più sinceri. Quella realtà però mi tira uno schiaffo in pieno volto, risvegliandomi dal torpore innaturale che mi ha quietato sino ad ora. Al ringhio di quel "Se io ti mancassi davvero..." non mi serve aspettare il proseguo per accendermi di una furia che mi annienta. "Non devo tenere in considerazione un cazzo, Rox. Io sto bene!" Ferito, urlo quella realtà incurante dell'ambiente che ci circonda, incurante di chi osserva o ci ascolta. Non me ne frega più un cazzo di niente, di nessuno, di me. Perché dovrei frenarmi? Perché addormentarmi sperando di non aprire mai più gli occhi? Ci sono già passato e non mi va. Vorrei solo Roxy fosse in grado di capire. Ed io vorrei comprendere perché lei non abbia la possibilità di farlo. "Non ho fatto niente." Ribadisco, calmo, freddo, raccogliendo il fiato che mi è venuto a mancare a seguito delle mie urla. Il volto si quieta, le vene si ritraggono, il rossore improvviso che l'ha colto svanisce per ridonarmi il pallore che mi spegne. A rimanere vivida è però la mia sofferenza, quel dolore per niente muto che attecchisce ai sibili che torno a rivolgerle. "Vuoi decidere tu cosa sia vero? Vuoi anche decidere cosa debba provare o meno?" Altre le frasi sconnesse da ogni logica che le piombano alle orecchie. Immagino lei ci sia abituata, ma quanto male le farà riceverle proprio da me? Quante crepe dell'anima sto squarciando con le dita febbrili di chi non è capace di prendersi cura di qualcun altro? La verità è che l'egoismo di cui mi veste me lo sento addosso. Lo faccio costantemente, nei confronti suoi, di mia madre, di chiunque. Mi convinco di essere l'effetto collaterale di due persone buone, il cui unico errore è stato concentrare i propri difetti in un unico prodotto. Positivo più positivo, dà il negativo che mi contraddistingue. Merito davvero di essere ascoltato? Merito di essere convinto di dettagli che non voglio vedere, né ascoltare? Per un po' resto in attesa di una sua reazione, qualunque essa sia. Poi, stanco di essere ferito, ma ancor più di ferirla senza capirne il perché, recupero da terra il mio scatolone. Tento malamente di sollevarlo, di dare un ordine vago alle mie cose perché è l'unica cosa che mi resta da provare. Ma quella roba non è la mia vita. Ne fa solo parte, ma ordinarla non significherà mettere a posto i miei casini. Se fosse così semplice, sarei fuori di qui a godermi l'ordine di una passeggiata al parco, non a lasciarmi risucchiare dal caos di una dose mancante, di un'astinenza prepotente. "Smettetela di starmi col fiato sul collo. Sei peggio di mia madre." Forse il più erroneo dei paragoni mai avanzati. Il loro amore nei miei confronti veste panni totalmente diversi. Sono due titani che si scontrano, l'affetto e la possessività che fanno a botte, l'altruismo e l'egoismo che esplodono devastandomi. Ed io non so più da che parte propendere. Non so più neanche come fare a sistemare me stesso. "Se tu non vuoi aiutarmi però, dovrò trovare un altro modo." Un monito? Forse un avvertimento. Oppure un ultimo latente disperato grido d'aiuto che nemmeno io sono in grado di riconoscere.
     
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