a million little pieces

‹ Jerome

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    Edimburgo. Calpestare le pietre dei viottoli nei sobborghi scozzesi non mi ha mai comunicato nulla. Non mi veste di malinconia girovagare per i tipici ambienti della mia terra d'origine, né riporta sensazioni orrifiche legate a quei ricordi ormai persi oltre il nodo di una corda appesa ad un albero. E' statico, come ogni dettaglio della mia esistenza. Un percorso affrontato spesso da solo, di rado con mio fratello o mia madre, mai con un amico. Ho concesso a me e Jerome un piccolo eccezionale tour prima di gettarlo dritto contro l'entusiasmo della mamma. Un weekend di riposo, passato tra le mura cigolanti della mia umile abitazione e le premure di una donna ben felice di saperci ancora uniti come un tempo. Di non sapermi solo, ora che isolarmi è tornata la prerogativa della mia esistenza. Giunti a casa mia, non ho grugnito alcuna protesta nei confronti di lei, entusiasta come sempre di ricevere la visita del rosso, di strizzare le sue guance come fosse un bambolotto da coccolare e di riempirlo di domande ed aneddoti che lo mettessero a proprio agio. A Jerome non ha mai dato fastidio; adesso riesco a sopportarlo anche io. ‹Prendiamo le bici. › Annuncio all'altra, lasciando sopraggiungere al suo principio di contestazione una rassicurazione. ‹ Sì, torniamo in tempo per la cena, giuro. › Abbiamo diverse ore prima che si faccia ora.

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    Pedalo via le mie ansie e le preoccupazioni. La testa libera dal casco e dai limiti rigidi imposti a me quanto a Jerome nel corso degli anni, mi permette di respirare. Di non patire il peso di attenzioni e riguardo con cui ho soffocato lui quanto me stesso. Un monito difficile cui abituarmi, mentre le carcasse dei miei vecchi propositi si piantano dinanzi ai miei occhi richiamando la mia coscienza affinché si riempiano ancora di quell'ossessiva premura. Lascio che a sovrastarle siano diapositive nuove e più permissive. Per me. Per lui. ‹ Se caschi giù, te lo medichi da solo il ginocchio. › Quasi una mezza bugia, soffiata con l'arroganza che gli ho evitato per mesi, alla ricerca di un posto che non mi spettasse, di un abito che non calzasse per nulla con me. Mi riapproprio di ciò che ci ha affettuosamente avvicinati, felice di poter essere me stesso senza patire il peso degli errori commessi, né la paura di quelli che potrei commettere ancora. Un po' più lontano, insomma, dall'idea di poterlo vedere sgretolarsi a causa mia. ‹ Vai avanti tu! › Gli intimo, rallentando appena l'incalzante pedalata sino ad ora sostenuta. A pochi metri da noi, un bivio ci impone una scelta. Niente di pericoloso in ogni caso. Solo una possibilità che decido di affidare a lui. ‹ A sinistra c'è il bosco, a destra il lago e la montagna. ›

     
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    Avere di nuovo Jonas in stanza, mi riporta ad equilibri che credevo persi. Molte delle dinamiche tra noi sono cambiate, e se questo all'inizio mi preoccupava, mano a mano mi quieta. Tra i vari cambiamenti che si sono succeduti tra noi ed in noi, ciò che proprio non è mutato è il rispetto reciproco ed il desiderio costante di prendersi vicendevolmente cura l'uno dell'altro. Non abbiamo più parlato di quello che è successo. Dei miei limiti infranti o delle sue cicatrici. Non abbiamo dimenticato chi si cela dietro i nostri rispettivi volti ma abbiamo capito di dover darci tempo, darci spazio. In qualche modo le cose funzionano. E quando la realtà è diventata pesante a causa di ultimi avvenimenti di cui non abbiamo parlato ma che ha evidentemente ed in modo reciproco scosso entrambi, andare via insieme è sembrata l'unica alternativa. Jonas ci ha concesso una pausa dalla vita all'interno del Campus e dai problemi che rispettivamente ci angosciano, ed io non posso fare a meno di essergliene grato. Respirare aria nuova, sembra purificarmi e distendere i nervi rimasti contratti. La sua famiglia, sua madre almeno, mi concede quel tipo d'amore di cui sono sempre stato privo e questo mi riscalda il cuore. Come se fossimo bambini, ci lasciamo cullare da quell'atmosfera calda e da azioni leggere, concedendoci una pedalata tra i luoghi in cui Jonas è cresciuto.
    “Stai tranquillo. Ricordo ancora come si pedala.” Lo prendo in giro, affiancandolo per poter indirizzare un colpo scherzoso al suo fianco.
    “Direi lago.” Giro verso destra, voltandomi a guardarlo per assicurarmi mi stia seguendo. Inspiro l'aria fredda a pieni polmoni. Le temperature sono quasi glaciali ma rinvigorenti.
    Quando poco tempo arriviamo al lato, la lunga distesa d'acqua appare ghiacciata. Mi ricorda Durmstrang ed in qualche modo questo suscita una nota malinconica in me. Salto giù dalla bici, accantonandola contro un albero prima di raggiungere la riva. “Ci saltiamo su?” Gli chiedo fingendo di prendere la rincorsa verso il lago, prima di fermarmi ed alzare le mani. “Scherzo, scherzo.” Rido per un attimo, sedendomi poi su uno dei massi posizionati sulla riva. Sfrego le mani l'un l'altra, concedendomi uno sguardo approfondito sulla bellezza della natura che ci circonda.
    “Sei stato fortunato a crescere qui. In Texas c'erano principalmente rocce e deserti. O deserti rocciosi.” Piego appena il capo, parlando di una realtà così lontana che sembra quasi finta. Mi avrà di parlare quasi della vita di un altro. “E comunque non è che avessi molto modo di girovagare.” Aggiungo poco dopo in modo quasi involontario. Mi pento persino di averlo detto. Non voglio rovinare il nostro momento di pace, macchiandolo con vecchie e nuove tristezze. Ultimamente però, mi sembra di non riuscire a smettere di pensare a lei. Per anni ho finto di dimenricarmene. Mi sono impegnato a fingere di rimuovere lei dalla mia mente, l'idea di un padre che non ho mai avuto e la verità biologica che mi opprime. Gli ultimi avvenimenti sembrano impormi il contrario. Il nome di mia madre continua a venirmi spiattellato in faccia, in modo che non comprendo e qualche volta non tollero. Quello di mio padre, si staglia come una nube scura su ogni possibilità di serenità. Credevo questo posto, la lontananza da tutti quei fattori che mi opprimono, avrebbe aiutato a purificarmi. Mi libero di quel peso con un respiro profondo e mi concedo di riprovarci. Mi volto così a guardarlo, sorridendogli. “Come stai? Oggi non te l'ho chiesto.” Un'abitudine che ho preso da quando quella cicatrice si è stretta sul suo collo. Il desiderio di prevenire un'ulteriore dramma. Di sentirmi utile.

     
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    Trattengo inconsapevolmente il fiato nel vederlo avanzare spedito verso il lago ghiacciato minacciando di saltarci su. Uno scherzo - del cazzo, penso - ridotto per fortuna ad una frenata abbastanza prudente ed una risata di routine che non accompagno che con uno sbuffo seriamente teso. ‹ Mi farai venire un accidenti... › Lo borbotto provando lentamente a distendere i miei nervi ed il mio corpo. Mi dedico per qualche attimo alla bici, affiancandola a quella che Jerome ha poggiato contro un albero. Mi assicuro siano abbastanza in equilibrio da non scivolare, con capacità e premura certamente maggiori di quelle che rivolgo a me stesso con gli stessi propositi. Immagine ridicola, a ben pensarci. Forse è l'influenza di Jerome e della sua innocente infantilità che mi impone un registro mentale meno austero. Anche il modo genuino con cui commenta l'ambiente attorno a sé rievoca in me sensazioni dalle punte vagamente malinconiche. ‹ Oh sì, l'umidità che c'è qui è uno spasso. › Commento inizialmente per rallentare l'avvicinarsi di un attimo di sconforto. Mi hanno insegnato che sforzarsi di tenere fuori i pensieri negativi è un modo pessimo per sbarazzarsene. Tento quindi di abbracciarli, di accoglierli pacatamente nella mia esistenza, rassegnandomi ad un passato che non può cambiare e ripartendo verso un futuro che si colori di sfumature nuove e meno grigie. Un po' di cazzate suggerite mano nella mano come bimbi in un cerchio amichevole alle terapie di gruppo. Magari funziona davvero. ‹ Ma suppongo non potrei resistere senza laghi e boschi. › Un'infanzia trascorsa tra i rami di quelle immense distese legnose rivestite di foglie. Ed in seguito, nella più cupa della solitudine, solo le acque calme ed apatiche dei laghi hanno soddisfatto il mio desiderio di silenzio. Di vuoto. Onde leggere e solitarie, un po' come me. Affianco Jer non appena si volta verso di me, in uno slancio di premura ormai consueto nel corso delle nostre giornate. Qualcosa che se da una parte mi lusinga, dall'altro alimenta la mia preoccupazione. Se fossi diventato un peso per lui? Se la mia incolumità l'avesse terrorizzato al punto da obbligarlo a tenermi d'occhio? Decido di non lasciar irrompere tali idee in questa nostra bolla di benessere condiviso. Lo supero quindi di qualche passo, apprestandomi a tastare col piede i bordi ghiacciati della riva. Non sembra scricchiolare. ‹ Calma piatta. › E' la risposta al suo quesito. Si adatta all'ambiente che ci circonda, ma è di me che parlo. Di ciò che sento. Non provo particolare benessere in questo istante, ma ogni demone pronto a spezzare i miei equilibri sembra trattenersi assopito per adesso. E' già un bene. ‹ E tu? › Spero si aspettasse il mio quesito. Spero si aspetti anche l'apposizione che sopraggiunge l'istante dopo. ‹ Io sono stato sincero, eh. › Non lo metto realmente alle strette; lo informo piuttosto dell'attenzione che ho riposto nei suoi confronti. I suoi crucci sono plateali, non so dirmi se dipenda dal lavoro o ci sia altro ad infestare la sua mente. Non ho più preteso di infiltrarmi tra le sue ansie e paure. Posso tendergli la mano, accompagnarlo lentamente sulla strada di uno sfogo che lo liberi di qualche peso. Un po' come me che, con estrema pacatezza, mi accingo a compiere a tentoni qualche passo sulla superficie gelida del lago. ‹ Se fai piano, ci regge entrambi. › Un invito a seguirlo, per affacciarsi un po' oltre orizzonti che forse il rosso non ha mai superato.

     
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    “Ohw. Ma che carino. Parli già come un signore attempato.” Lo prendo in giro, rifilandogli una leggera gomitata. Adeguarsi ad un equilibrio come questo, mi fa bene. Per un po' mi sembra di dimenticarmi della cupezza in cui mi sentivo immerso nella quotidianità caotica della vita accademica. Qui, solo con lui, sotto il cielo limpido di un paesaggio che sembra quasi dipinto, mi sembra di tornare pulito. L'idea di ritornare a Londra e rivivere i miei angoli bui, mi angoscia. Mi impongo di non pensarci e di lasciarmi andare a questa parentesi di serenità, con lui. Ne ha bisogno. Ne abbiamo bisogno entrambi.
    Lo guardo sorpreso, aggrottando le sopracciglia quando mi chiede di osare. Non ho problemi a farlo. Vedere lui libero dagli schemi rigidi in cui si imprigionava, mi strappa però un sorriso.
    “Sicuro? Dopo il pranzo di tua madre ho assunto il peso specifico del piombo.” Gli chiedo, prima di dargli la mano e azzardare un passo. Farlo mi libera della pesantezza del quotidiano. Mi riporta a momenti di una vita fa, all'ingenuità di quel ragazzo che sembra non esistere più.
    Mi prendo qualche attimo prima di rispondere alla sua domanda. Soltanto dopo qualche passo, fermo, mi decido a parlare. “Non lo so come sto. Non me lo chiedo più tanto spesso.” Non lo guardo. Mi limito a fare spallucce mentre gli confesso il mio problema più grande: l'incertezza. Da quando la mia vita è cambiata, mi è sembrato di non riuscire più a trovare stabilità. Ho trovato appiglio nel caos osceno del Fairy Tale, ma questo non mi ha fatto sentire meglio. Allevia soltanto il mio dolore, offuscandolo con luci stroboscopiche e scariche d'adrenalina.
    Gratto un sopracciglio, prima di alzare il capo per incontrare il suo sguardo. “Non ho superato l'esame di Erbologia applicata. E sì, era la seconda volta che lo provavo.” Gli spiego, afflitto. Non c'è assolutamente nulla di sbagliato in un esame saltato, sbagliato. Non riesco però a prenderla nel modo corretto. Il peso che do a quest'esame è eccessivo. “E' colpa mia, chiaramente. Avrei dovuto studiare di più. Lavorare e dormire di meno.” Non è solo l'esame a pesarmi, o l'aver fallito nell'unico impegno che mi ero prefissato. È la consapevolezza inconscia ed involontaria, di essere rappresentato dal voto del mio esame. Così la mia realtà muta da ho fallito l'esame a sono un fallito. “E poi mi chiedo se cambierebbe davvero qualcosa se, da domani per esempio, decidessi di impegnarmi di più. Di smettere con quello che sono diventato.” Scuoto appena il capo, lasciandomi andare ad un fiume di parole che solitamente tengo per me. A considerazioni che in questi anni non sono più riuscito a fare. Mi sono nascosto dietro mille e più maschere e a cosa è servito se mi sento di nuovo così perso? “Forse non servirebbe a nulla comunque.” Arreso e senza speranze. “Insomma, non dovrei stupirmi se le persone a cui tengo continuino a preferire altri a me. Pure io preferirei altri a me. Non sono affidabile né capace.” E mi lascio andare a pensieri divaganti di verità di cui non gli ho parlato, né ho confidato ad altri. Lo faccio senza volerlo. “Sono solo un casino.”

     
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    ‹ Fottiti. › Intervengo divertito, restaurando il clima di pace di cui abbiamo decisamente bisogno. Uno in cui limitarsi non è contemplato; non più di quanto le medicine mi impongono, perlomeno. ‹ Beh, era ora mettessi un po' di ciccia su quelle ossa. › Un nuovo celere slancio di premura, prima che la mia mano artigli la sua con più forza. Avanziamo lenti sulla distesa ghiacciata che ci circonda, abbastanza da non avvertire neanche il minimo scricchiolio da ghiaccio potenzialmente pericolante. Più ci avviciniamo verso il centro, più si fa solido. Tanto da non poter essere spezzato dalla pesantezza delle nostre rivelazioni. Attendo con pazienza che Jerome parli. Sentirlo farlo di propria volontà mi scalda appena il cuore. Meno lo fanno le confessioni che mi porge, un cesto di fiducia quello che racchiude ogni informazione che mi concede. Vorrei sminuire il disagio provato per un esame fallito, ma non avrebbe alcun senso. Il suo modo di vivere eventi di quel genere è personale. E sapere poi quanto in balia di onde irrefrenabili le sue emozioni riescano ad essere, mi impedisce di incoraggiarlo con frasi fatte che farebbero venire persino a me la voglia di mollare un pugno a chiunque le pronunci. Ciò da cui parto è piuttosto l'unica consapevolezza che posso reggere saldamente tra le mani, che a mia volta porgo a lui senza indugio. ‹ Conta qualcosa se ti dico che personalmente sei il mio preferito? › E' una verità su cui dubito Jerome possa sinceramente covare qualche dubbio. E' plateale la predilezione che ho sempre conservato nei suoi riguardi, persino a costo di ferire altre persone. Nulla di volontario, forse più uno schema da cui non riesco ad uscire, perché consapevole di poter essere me stesso oltre la diagnosi, di essere qualcuno di buono e non solo un fascio di nervi pronto ad esplodere. E' questo ciò che mi ha spinto a vacillare quando il nostro allontanamento si è fatto sempre più evidente. La paura di perdere l'unica persona che riesca a guardarmi negli occhi e vederci il mare, non un cumulo di pece e cattiveria. Né il tradimento di cui vengo costantemente accusato da chi non si affaccia con cautela e pazienza verso il mio cuore. ‹ Ci riproverai. La prossima volta puoi studiare di più e lavorare di meno o... riprovare e basta. › Lo incoraggio così, entrando in punta di piedi in quel disagio che va probabilmente ben oltre un esame andato male. Jerome parla di un senso di fallimento che abbraccia probabilmente ogni ambito della sua vita. L'ho provato sulla mia pelle, forse ne sto uscendo. A lui serve più tempo magari. O potrebbe bastargli una mano amica pronta a sorreggerlo o accompagnarlo. ‹ Non hai una data di scadenza, lentiggine. E non sei un'incapace, né inaffidabile. › Vorrei potesse crederci sul serio. So che la mia parola non basterà a renderlo capace di questo. Ecco perché tento di spostare l'attenzione su altro. Elaborare faccende accademiche non è mai semplice. Negli ambiti personali però, almeno con lui, forse sono un po' più ferrato. ‹ Comunque sento che c'è qualcosa che non so. › Mi volto quindi verso di lui, distogliendo per un attimo lo sguardo dal panorama sempre più maestoso che ci circonda per puntarlo dritto contro i suoi occhi lucidi di freddo. ‹ Chi ha osato preferire qualcun altro alla lentiggine più squinternata che c'è? › Chi è, insomma, il protagonista dei suoi attuali crucci?

     
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    “Beh, si sa che tu hai gusti opinabili.” Lo prendo un po' in giro, sminuendo in parte il suo commento. Non è così. Non credo abbia gusti pessimi, di sicuro però la sua visione delle cose pare distorcersi quando il suo sguardo è rivolto verso di me. Io almeno non sono mai riuscito a vedermi nel modo candido in cui riesce a fare lui. Di recente poi, la mia immagine si è distorta del tutto. Il mio riflesso allo specchio, appare opaco. Sudicio. Come un elastico tirato troppo e troppo a lungo, mi sento sfibrato. Tornare alla mia lunghezza iniziale, appare impossibile.
    “Uhm. Chissà.” Faccio spallucce, storcendo il muso. In silenzio mi limito a seguirlo, tenendogli la mano ed adeguandomi al suo passo. Non lo faccio da mesi, adeguarmi agli altri. Ho dato ascolto solo a me stesso e ad i miei istinti, spingendo il piede sull'acceleratore quando il silenzio assordante dei miei pensieri cominciava ad opprimermi. Stavolta è a lui che mi affido e dovrei festeggiare per questo perchè, anche se tra le mani di tutti, nessuno è mai riuscito a stringermi. Jonas invece riesce a toccarmi. Il calore che ne deriva, scioglie le mie difese.
    “Nessuno.” Scuoto il capo, avanzando ancora di un passo sul ghiaccio spesso. E per un attimo fermo, mi perdo a guardare la superficie sotto i nostri piedi. Le bolle ghiacciate che creano giochi simmetrici, il blu nelle sue infinite sfumature. “No, davvero. Credo siano solo mie sensazioni.” Aggiungo poco dopo, provando a dissimulare per non creare inutili preoccupazioni. L'ho fatto di continuo in questi mesi. Ho dissimulato, nascosto il mio fastidio, il mio malessere. Volevo che qualcuno si occupasse di me, ma sentivo di non meritarmelo. Ho ricercato le attenzioni di cui necessitavo in anfratti angusti e non ne ho ricavato nulla se non disgusto e disprezzo verso me stesso, a volte comunque troppo offuscato da agenti chimici per essermi palese. “Lo sai, sono pazzo. La mia realtà è sempre diversa da quella del mondo reale.” Scherzo sulla mia condizione, con una nota amara. Ho sempre avuto la convinzione di vedere il mondo come da uno specchio. Quando lo attraverso, non mi ritrovo però nel paese delle meraviglie, ma nel disastro che ho creato e che ho finto di ignorare. Ed ora mi ritrovo di nuovo nel mio caotico mondo, circondato da demoni che vogliono spingermi sotto la lastra di ghiaccio sulla quale camminiamo. Mi ci impegno per lasciarmi andare. Per aprir bocca e gridare l'aiuto di cui necessito piuttosto che farmi affogare. “Mi sento come quella maglia vecchia che hai nell'armadio da secoli e che non metti mai. La tieni lì nel mucchio per guardarla e dirti che dopotutto non sei così sprovvisto di vestiti, ma in fondo sai che di lei non ti interessa, né la indosserai mai. Non so, magari perchè di lei non ti fidi. Potrebbe metterti in imbarazzo a causa di un buco che non avevi visto ma che sai esserci.” L'esempio che gli riporto, è apparentemente futile. Infantile. Utilizzare metafore piuttosto che eventi certi, mi aiuta a chiarire quel che a parole non riuscirei ad esporre e ad essere più dettagliato di quanto non sarei se usassi solo la verità. Al contempo, mi allontana dalla realtà. Mi aiuta, in qualche modo, a vederla da una prospettiva esterna. A volte questo la migliora, altre volte invece è solo il contrario. “E poi hai quella maglia che le somiglia, ma che è nuova, priva di buchi e ti calza a pennello. Quindi, è lei che indossi, così che tutti possano vederla su di te e dirti che sei davvero fortunato ad averla.” Aggiungo poco dopo, concludendo il mio esempio bislacco. Forse crederà soltanto che io stia farneticando. Magari è così. “Se fossi meno me e più Bram ad esempio, tutti si fiderebbero. Persino tu l'hai preferito.” E mi lascio andare, esponendo un cruccio che continua a tormentarmi da quando Daphne ha parlato ad entrambi di qualcosa che credevo sarebbe stata solo nostra e che fino a qualche anno, credevo sarebbe stata sempre e soltanto mia. In parte continuo a crederlo. Espormi però, mi fa sentire stupido e sbagliato. A disagio, avvampo, alzando lo sguardo su di lui e scuotendo il capo. “Scusami. Scusami, davvero, non dovevo dirlo.” Rilascio la sua presa e provo a tornare indietro. È sempre così che succede: quando qualcuno mi dà la mano, io lo trascino verso il basso. Non dovrei stupirmi se gli altri non è me che scelgono.

     
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    E' facile lasciarmi andare a discorsi di questo genere con Jerome. Per più di un anno abbiamo perso l'abitudine di parlarci con sincerità, di confrontarci, cuore contro cuore, senza il timore di commettere passi falsi. Senza la paura di ferirci. Parliamo di noi stessi, di ciò che siamo, di ciò che proviamo ed azzeriamo le pretese. Quietiamo gli animi. Torniamo il sostegno l'uno dell'altro ed aprirci è semplice, come bambini che si tendono la mano al parco-giochi. Non mi preoccupo di azzerare il leggero allarme riposto nelle sue rivelazioni. Non pretendo al contempo di farmene carico. Ascolto le parole che pronuncia, gli esempi bislacchi che propone, assaporando di quel momento ogni attimo. Lascio che quella negatività fluisca dalle sue labbra per liberarlo dei pesi che avverte al petto, allo stomaco, alla coscienza magari. ‹ Sono pazzo anch'io, no? › Un modo, un altro, per accompagnarlo. Un modo non per sminuire le sue sensazioni, ma per ricordargli che in fondo non è sbagliato a possederne. Che c'è un pezzetto fuori posto in ognuno di noi, a prescindere dalle diagnosi cliniche. Ed un po', in definitiva, suppongo di poterlo capire più di molti altri là fuori. Lo faccio, finché le sue ultime confessioni non mi costringono a fermarmi improvvisamente e ricercare spiegazioni in concetti che non comprendo, troppo lontani dalle mie verità ma così ardentemente incastrati tra le sue. ‹ Eh? › Raggelato sul posto, mi volto verso di lui, sentendo la presa della sua mano annullarsi e vedendolo infine voltarsi per scappare. ‹ Fermo dove sei! › Prima che possa riuscirci, contro il buon senso e la delicatezza richiesta, cammino con decisione verso di lui, per raggirarlo ed agguantarlo per una spalla. Lo scricchiolio del ghiaccio sotto la nostra agitazione ci costringe a fermarci. Uno di fronte all'altro, riacquistiamo l'equilibrio necessario prima di tornare sul vento di amarezza che ha soffiato alle mie orecchie. ‹ Jer. Cazzo, non ho mai preferito nessuno a te. Siete due persone diverse, non mi sembrate una bella maglia ed uno straccio pieno di buchi. › Perché si è convinto di questo? Perché continuare a riporre così tanta insicurezza nei confronti di una persona che non è più parte della mia vita? Ed anche allora, come poteva non rendersi conto della verità? Come poteva non capire che Bram fosse vittima di un mio tranello mentale, mentre lui mi appariva irraggiungibile? ‹ Con lui sono stato... pessimo. Dev'essere così arrabbiato che quello che mi è successo pare non l'abbia minimamente toccato. Se questo significa avere delle preferenze... si salvi chi può! › Gli spiego il mio punto di vista, raccontandogli qualcosa che non mi tocca come forse dovrebbe. Rimarco passi da lui stesso precedentemente compiuti, tracciando i contorni del menefreghismo altrui. Di tutte quelle persone che mi sono state addosso per fama e che mi hanno voltato le spalle non appena non hanno più potuto ricavare nulla. Delle persone a cui non importa realmente di me e del mio benessere. Quelle persone che non sono mie amiche. Che non sono come Jerome. ‹ Ci sono sempre persone a cui non piacciamo, lentiggine. Io non piaccio a lui e non piaccio neanche a tua sorella, che se avesse potuto mi avrebbe fucilato con gli occhi in caffetteria, pur di difenderlo. › Non gli ho mai raccontato di quell'episodio. Era lontano. Eravamo lontani. Ho lasciato correre il mio malessere, non rendendo nessuno partecipe di esso. E forse non dovrei farlo neanche adesso, ma è un altro il punto a cui voglio arrivare. Uno che non riguarda me, strettamente legato alle sensazioni che prova Jer. ‹ Ma va bene così. Non siamo perfetti. Nessuno è migliore di un altro. › Nessuno è migliore di lui, nel mio cuore. Nessuno lo è, in un mondo in cui tutti noi siamo dannatamente sbagliati. ‹ E poi a me piaci. E siamo qui insieme adesso, no? Amici come sempre. › Fievole il sorriso che gli lancio, una curva leggera ed appena percettibile quella disegnata sulle mie labbra. Quasi un traguardo a dispetto dei bronci che mi contraddistinguono. Forse il vero, unico indice della pace che provo in questa parentesi di vita. ‹ Io mi fido di te. ›

     
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    Mi fermo, assecondando le sue parole. Mi reggo a lui per riuscire a mantenere l'equilibrio perso e lo stesso lui fa con me. La cosa mi strappa un sorriso. È sorprendente quanto, in qualsiasi contesto della nostra esistenza, ci rifugiamo nel tocco reciproco, nel sostegno senza cui vivere sarebbe un bel po' più complicato. Tutto questo, la nostra complicità, mi era mancata.
    Ascolto ciò che ha da dirmi. Conoscevo già della sfuriata di Daphne in caffetteria, se n'è parlato per giorni nei corridoi delle torri al Campus, e sebbene intristito e mortificato da ciò che Jonas ha dovuto subire, non me ne sento del tutto sorpreso.
    “Sembra una cosa da lei.” Affermo infine con un sorriso in parte colpevole, come se avessi potuto fare qualcosa, in parte rassegnato. In quel periodo, ero troppo preso da me stesso per riuscire ad essere un bravo amico o anche solo una brava persona.
    Gli sorrido, in risposta al suo.
    “Anche io.” Chiarisco ciò che per mesi deve essergli sembrata una bugia. Mi fido di lui. Molte volte ho peccato di ingenuità nei rapporti, ma sono sicuro e sincero quando affermo che è attualmente l'unico amico che sento di avere. Il mio porto sicuro.
    Eppure non riesco a liberarmi del tarlo che tormenta i miei pensieri. Ed è per onor di sincerità che mi spingo a continuare.
    “Ti fideresti di me anche per cose importanti?” Gli chiedo quindi, guardandolo serio.
    “Intendo, tipo... non so, se dovessi affidarmi qualcosa di burocratico, o magari economico. Qualcosa di adulto.” Qualcosa di impegnativo insomma che richieda una mente stabile, una persona responsabile ventiquattro ore al giorno. “Sapendo come sono, quello che posso diventare e quello che ho fatto, ti affideresti comunque a me?” È una cosa che mi sono sempre chiesto. Per chi mi conosce e sa i miei limiti, è facile affidarsi a me? O sarò sempre il ragazzo un po' fuori di testa da tenere lontano in determinati settori? Da affiancare per evitare che il suo peggio rovini ogni cosa. “Puoi essere sincero, non mi offendo. Ho solo bisogno di capire cos'è che pensa di me il resto del mondo. Sono un buon amico secondo quel che dici, ma sono anche una persona affidabile? E una persona affidabile drogherebbe il ragazzo del suo amico? O provocherebbe alla persona a cui vuole bene una crisi d'astinenza buttando via le sue medicine?” Lo rendo testimone del vortice di pensieri che mi assilla, cercando in lui un punto di vista diverso dal mio. Forse spero solo in un diniego. In qualcuno che metta a tacere le mie paranoie. Ed in ogni caso so che non servirebbe. “Sono un coglione. Me la prendo tanto per tutta questa storia dell'associazione, ma sono il primo che non si fida di se stesso.”

     
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    Non emetto un fiato in più circa sua sorella ed i suoi piani d'azione. In parte, non me ne importa nulla. Principalmente cerco però di preservare il rosso da una scelta, dalla possibilità di spezzarsi nella convinzione di doversi schierare dall'una o dall'altra parte. Non è il mio intento risucchiarlo via da altre persone e dalle loro vite, persino quelle che mi hanno fatto male e ho dovuto fronteggiare totalmente da solo. Quel ruolo da egoista ho cercato di lasciarmelo dietro insieme con qualsiasi altro geloso pretesto che ledesse la mia sicurezza. Le parole di Jer virano comunque verso tutt'altra direzione. C'è qualcosa che lo spinge a perdersi in elucubrazioni che si sforza malamente di frenare. Un insieme di vorticosi ghirigori che ondeggiano attorno ad un punto preciso, ancora incapaci di braccarlo o anche solo di raggiungerlo per rendermelo più evidente, palese, chiaro. Attendo che sia pronto a farlo, mentre ancora lo sorreggo per una spalla, limitando nell'immobilità gli scricchiolii del ghiaccio sotto di noi. Una lastra che si incrina ma non cede, un po' come Jerome. Un po' come noi. ‹ Sì, lo farei. Lo faccio. › Ho continuato a fidarmi nonostante tutto. E' anzi averlo vestito di così tanta responsabilità ad averci allontanati, forse. Aver continuato ad ergere su di lui una figura in cui non si rispecchia. Una migliore ai suoi occhi, quasi idealizzata probabilmente. Una che non riesco ad abbandonare, perché nient'altro che lo specchio della verità che osservo ogni giorno. In fondo è il prezzo da pagare nel rapportarsi agli altri. Siamo noi stessi solo in parte, siamo ciò che mostriamo, raramente ciò che riusciamo ad essere nell'ombra. Ognuno di noi conosce solo ciò a cui assiste. La natura che coviamo dentro resta una consapevolezza assoluta che gli altri non potranno mai toccare del tutto. E' il peso che trasciniamo a fatica ogni giorno, anche se non ci sta bene. E' ciò che io stesso proteggo, perché tirare fuori il nero di cui il mio animo si imbratta incupirebbe il mondo intero. Ciò di cui sono convinto si rispecchia in parte nei timori che Jerome impacciatamente tenta di espormi adesso. Ripercorre i propri errori, episodi cui mi sono appellato io stesso per esprimere il mio disappunto, per mettere su quella corazza d'incomprensibile rancore che mi ha accompagnato sino a quando non ne ho avuto abbastanza di lasciarmici prosciugare. Curioso come le colpe commesse ledano più al loro fautore che a chi ne riceve. Io ci sono passato su, eppure lui sembra non dimenticarsene. ‹ Siamo umani, tutti commettiamo sbagli. Ma gli errori non dovrebbero essere una condanna a vita. › Ripeterglielo non risolverà i suoi crucci, mi è evidente. Secondo dopo secondo, leggo il macigno di una verità incontenibile premersi contro le sue labbra per venirne fuori. E quando dalla bocca scivola via una parola che ha ben poco di generalizzante in sé, non posso far altro che indagarci, ipotizzando sia venuta a galla una porzione della specificità che ha innescato i dubbi di cui è preda. ‹ Aspetta, cosa? Associazione? › Ribatto quindi, sottolineando a mia volta quello che pare essere il fulcro di quei discorsi. Un punto che non lascerò scemare minimizzandolo e virando altrove con la mente. Un motivo per aiutarlo, anche solo ascoltandolo, nella speranza dopo tutto questo tempo me lo permetta ancora. ‹ Di che parli? ›

     
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    Lo guardo con un’espressione bonaria prima di chinare lo sguardo e scuotere il capo. “Lo sai che non era uno sbaglio. Non era come non vedere qualcuno ed urtarlo, era una cosa diversa.” Era una cosa da pazzi. La comprendo la sua tendenza a coprire i miei sbagli, a renderli meno ostici, più semplici da sopportare. E’ esattamente quel che farei al suo posto ma certe volte comportarsi così è deleterio. Fingere la realtà non sia quella che abbiamo davanti, non può essere utile. Non lo è mai. Si finisce solo per alienarsi. Ci si ritrova in un mondo fittizio e prima o poi ci si schianta contro la dura superficie della verità. Non aiuta nessuno.
    La sua domanda e la confusione che ne deriva, mi fa sentire un coglione. Essermi lasciato scivolare notizie che avrei forse dovuto tenere per me, rientra tra le cose di cui non vado fiero e che vorrei non mi appartenessero. Fare un passo indietro però è a questo punto impossibile. Quel che posso fare è semplicemente parlare. Essere sincero. Chissà che non riesca comunque a trovarne giovamento.
    Prendo un bel respiro, grattando la nuca mentre riorganizzo i miei pensieri. “Daphne ha fondato un’associazione per le vittime di violenze.” Comincio a spiegargli, grattando un sopracciglio. “Ha il nome di mia, nostra madre.” Gli lancio uno sguardo eloquente. Non siamo mai andati nel dettaglio di questa storia. Quel che Jonas conosce è un accenno di tutta la verità. Dopotutto quella parte di storia, tendo a celarla anche a me. A volte vorrei semplicemente dimenticarmene. “Ha chiesto a me di farne parte. E a Bram.” Continuo poco dopo, annuendo. “So che non dovrei esserne geloso. E’ il suo migliore amico, era chiaro che lo facesse. Probabilmente anche io ti vorrei al mio fianco in una crociata simile.” Ed ha senso. Se fossi motivato a costruire qualcosa che per me è importante, vorrei al mio fianco tutte le persone di cui mi fido. Tutte quelle persone su cui saprei di poter contare. Ecco perchè continuo a sentirmi decisamente fuori luogo per lei. Come posso essere io, Jerome Morrow con la sua malattia, la persona più adatta ad un ruolo come questo? “E’ che non riesco a non pensare che in fondo l’abbia fatto perchè sa che sono inaffidabile.” Mi confido poco dopo, tirando su lo sguardo colpevole ed affranto verso di lui. “E nessuno dei due ha fatto nulla perchè io mi sentissi così eh ma mi sento inutile. Loro sembrano sempre sapere cosa fare, cosa dire e come muoversi. Io invece cosa so fare?”

     
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    Ribattere alle sue parole mi è impossibile. Quando un'opinione è così radicata tra le nostre certezze, è impossibile permettere a qualcun altro di estirparla. Ci appoggiamo così tanto agli altri, ma non ci rendiamo mai conto che non sarà abbastanza se non facciamo affidamento su noi stessi. In questo, come in tanto altro, io e Jer ci ritroviamo dannatamente simili. Vestiamo gli stessi panni, ci abbattono le stesse paure, trasciniamo lo stesso peso di mancata identificazione che la malattia ci suggerisce. Cerchiamo appiglio a qualunque cosa sia lontano da quelle cartellette, ma non funzionerà finché non impareremo piuttosto ad adattarci alle diagnosi e ridisegnarle a modo nostro. Un modo pulito, migliore perché siamo noi. Ascolto quindi il suo racconto. Lascio si sfoghi su ciò che concerne l'improvviso cambio di rotta che la sua vita ha assunto. Un'associazione. Sembra una cosa seria, qualcosa che riflette senza dubbio la caparbietà della Mikkelsen. Quell'immagine però è capace di riflettersi allo stesso modo nel riservato profilo di Jerome? ‹ E a te sta bene? › Un intervento calmo, pacato, un impulso di riflessione prima che i problemi più superficiali - o così tende ad esporli - facciano capolino dalle sue labbra. Gelosia... ci ho avuto a che fare più volte di quanto avrei voluto. Oltre la corazza di rabbia ed incomprensione, c'è una profondità fatta di paure ed insicurezze. E quell'insicurezza va sempre rapportata agli altri? O è forse lo specchiarsi arrogante delle parti che più temiamo di noi stessi? ‹Lo pensi perché sei tu a crederti inaffidabile. › Accompagno le mie parole con una nuova carezza sulla sua spalla, un colpetto al braccio ed un invito a scivolare giù lentamente, a sedere sulla lastra di ghiaccio che ancora ci regge. Sotto sforzo, anch'essa, eppure fermamente rigida sotto i nostri corpi smagriti e consumati. ‹ Tu credi che io sia inaffidabile? O un demonio? › Scuoto il capo, un sorriso a mezza bocca, prima ancora che possa rispondermi. ‹ So che non lo credi. Eppure ho fatto così tante di quelle cose sbagliate, che tutto il mondo mi crede la peggior merda sul pianeta terra. Ed anche io lo faccio. › Pongo me stesso sul suo stesso livello. Lo rendo spettatore di un malessere simile. Chi meglio di me può comprendere cosa significhi convivere con un demone che non potrà mai essere scacciato del tutto? ‹ Ma tu no, non lo fai. Vedi in me più di quanto io riesca a vedere. › Non ha mai smesso di farlo, sebbene l'abbia creduto per mesi, anni forse, troppo stretto nella mia stessa convinzione per credere a ciò che occupava invece le boschive gemme dei suoi occhi. ‹ E loro, tua sorella, Bram... non sono santi. Nessuno al mondo lo è. › Mi limito a questo, scartando il soggettivo fastidio provato nei riguardi di entrambi. Non è ciò di cui il Morrow ha bisogno adesso. ‹ Non hai niente in meno di loro. Non hai niente meno di Bram... a parte i soldi, forse. › Sorrido appena, soffiando l'accenno di una risata che non trova esplosione nell'esagerazione. Sommessa, pacata, eppure sinceramente dedita alla tranquillità dell'altro. Un incoraggiamento che non necessita più di spiegazioni, mentre un ultimo invito scivola dalla mia bocca per raggiungere le sue orecchie. ‹ Dovresti parlarne con tua sorella. › Dell'associazione, di come si sente. Di se stesso, in relazione a qualcosa di così personale da non poter girare tra le mani altrui in maniera tanto superficiale.

     
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    Lo guardo confuso, interdetto, incapace di rispondere. La sua domanda mi coglie di sorpresa. A me sta bene? E’ un interrogativo che nessuno mi hai mai posto nel corso dei grandi cambiamenti che hanno sconvolto la mia vita. Mi sono ritrovato costretto a seguire la marea senza avere la possibilità di oppormi. Costretto a vivere un trauma sulla mia pelle, costretto ad un trasloco, ad una nuova scuola, ad una nuova vita, a partenze, ad addii, a nuovi arrivi. Mi è sempre stata tolta la possibilità di scegliere. Mi chiedo se questo non abbia influito sulla mia pessima capacità di giudizio. Sulla mia impossibilità ad allontanare il peggio quando avanzava con prepotenza nella mia vita vestito di amicizie che hanno approfittato della mia ingenuità. Sulla mia impossibilità ad evitarmi il degrado in cui sono finito a crogiolarmi.
    Faccio spallucce evitando di rispondere, seguendo piuttosto il suo discorso. “Perché tu lo sei.” Per me lo è sempre stato. Una figura presente, integra. Non importa ciò che si è celato dietro il nostro rapporto, o gli screzi che hanno rischiato di rovinarci. Jonas ha tenuto fede alla sua promessa di non sparire ed è rimasto. E’ l’unico che l’ha sempre fatto.
    Rido alle sue parole, smorzando la tensione provata. Non sono del tutto d’accordo con ciò che dice. Sapere che anche gli altri abbiano dei lati negativi non mi fa sentire migliore. In qualche modo sono troppo egocentrico per poter badare agli altri in tal senso. Troppo incentrato sul mio male per rivolgere lo sguardo a quello altrui. “Non voglio rovinarle questa cosa. Credo ne abbia bisogno.” Sono convinto sia così. Immagino abbia a che fare con Bachskov ed il non essere riuscita a vedere prima che razza di mostro fosse. Non posso immaginare il modo in cui si sia sentita, nè quindi mi va di giudicarla o smorzare i suoi tentativi di rivincita.
    Piego le labbre, tormentandomi una guancia con i denti prima di riuscire a parlare di nuovo. “L'uomo con cui è cresciuta, nostro padre, ha abusato di nostra madre che ha poi partorito noi.” Una rivelazione che gli ho taciuto, quella su mio padre. A volte provo a dimenticarmene. Essere un mostro, figlio di un diavolo. E’ una realtà a cui provo a scappare da tutta la vita. Dal proprio DNA però non si può scappare. “Ho scoperto di tutto questo solo qualche anno fa, ma conoscevo mia madre. Lei era, assente e quando non lo era, era orribile. Però era lei.” Aggiungo poco dopo, indirizzando lo sguardo verso di lui. Uno sguardo pacato che appare inconsapevolmente lucido. Parlare di Theresa smuove tasselli che mi impegno a tener fermi. Rievoca dolori che credevo dimenticati. “Daphne è cresciuta con una persona che non ha mai conosciuto invece. Quando ha scoperto chi era, le è caduto il mondo addosso. Lui l'ha cacciata di casa e ora che Daphne ha messo su l'associazione probabilmente vorrà farci fuori. Ci ha già provato. Un’altra rivelazione che aggiungo quasi come se non avesse importanza. Perchè più di ogni cosa, persino più della mia incapacità di sentirmi accettato, c’è questo: la consapevolezza di essere in pericolo. E non è per me che sono preoccupato. La morte non mi spaventa. E’ il dolore che potrebbe conseguirne che mi rende inquieto. Attribuisco anche all’ansia provata, il mio desiderio incontenibile di stasi, la necessità di mettere a tacere la paranoia che mi consuma. In questo, i miei eccessi chimici mi aiutano. Lo fanno le droghe quanto il sesso. “Dirle che mi sento tirato fuori perché inadeguato mi farebbe sentire solo cattivo ed egoista ed io non voglio esserlo.”



     
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    Arrogarsi il diritto di dirsi pienamente consapevoli dei sentimenti altrui è uno dei peccati più velenosi. Ogni esperienza è a sé, il vissuto forgia il carattere, le consequenziali reazioni sono le più disparate, ciascuna unica ed affine solo a se stessa. Resto quindi rinchiuso nella mia piccola ma confortevole teca di supporto, osservando il malessere di Jerome plasmarsi in considerazioni stonate con ciò che i miei occhi vedono, con ciò che il rosso ha sempre rappresentato per me. Custodisco quella figura di docile positività in uno scrigno d'affetto, non lasciandole infettare ciò che si riflette invece nello sfogo di Jerome. Per quanto poi risulti invece racchiusa in confini seghettati, pungenti, la figura della sorella, non sono certo di poter mettere bocca sul suo modo d'essere. Di sicuro non sul suo dolore, né su ciò che meriti o meno. Non aggiungo un fiato a riguardo, lasciando che l'altro si schieri dalla parte che più gli si addice, quella di tutti e di nessuno. Zero fazioni, una comprensione divulgata all'uno e all'altro aspetto. Gli offro però nuovamente il mio punto di vista, solo dopo essermi accertato il suo triste soliloquio ad alta voce sia giunto ad un termine, anche solo momentaneo. ‹ Sarebbe egoista se le tue ragioni fossero altre. › E' un dettaglio in cui credo fermamente. Ci sono opinioni dettate dall'amicizia, dall'amore, da sentimenti che vadano oltre la concretezza. Alcune evidenze si formano però sotto la sapiente mano dell'oggettività. E no, Jerome non ha mai vestito i panni di un egoista. Non volutamente. Non con l'intento di salvare se stesso a discapito degli altri. Mai. ‹ Ma capisco il punto... e farei lo stesso al tuo posto. › Lo appoggio in quelle esalazioni sofferte. Trascinarlo via sarebbe inutile, abbiamo appurato più di una volta che non sia funzionale alle nostre esigenze. Gli tendo la mano, ingabbio tra le mie dita le sue fragilità, solo per proteggerle da un mondo che non è mai altrettanto comprensivo con noi. ‹ Però non voglio saperti in pericolo. › Non posso tuttavia rimanere in silenzio su ogni punto da lui rivelato. Quel "Ci ha già provato" rimbomba con insistenza tra le mie preoccupazioni, incapace di appostarsi nel centro di quei dettagli che mi risuonano solitamente irrilevanti. Sembrava abbastanza convinto, nella sua esposizione. Ed è chiaro anche a lui ormai che non permetterei mai a niente e nessuno di fargli del male. Di portarmelo via. ‹ Chiedete aiuto. › Solo un monito genuino, un'intimazione suggerita con intenti fraterni, la stessa dose d'affetto insita nelle mie parole e nella mano che si muove lenta sino alla sua spalla, stringendola in quel contatto che di vago non ha nulla, ma che si limita alla sopportazione cui sono in grado di appartenere. ‹ E se serve, ricordati che per amico hai uno schizzato pronto a fare una strage. › Una battuta, un sorriso ironico ma incoraggiante ad accompagnarla. La promessa di esserci, sebbene il più delle volte mi sia difficile dimostrarlo.

     
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