guilty

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    Evito lo specchio quando il turno arriva al termine. Temo sempre il mio volto sfatto possa in qualche modo spaventarmi. Arrivo all'armadietto, afferro i miei vestiti e corro ad indossarli. Cambio corpo, cambio faccio. Mi preparo a tornare nel mio mondo, quello reale, quello che frequentemente metto in pausa perché incapace di gestirlo. È l'intervento di Ivar a frenarmi. Mi volto a guardarlo, attento. Ivar è uno degli organizzatori di eventi, o incontri, più influenti del nostro giro. Il suo potere sta nelle feste che riesce ad organizzare, nella merce che riesce a fornire. Alcol, donne, uomini e soprattutto droga. Quando mi porge una bustina con all'interno cose che non ho richiesto, lo fisso interdetto. Poco dopo mi chiarisce il reale proprietario della droga fornita: Yoko. “Certo. Gliele do io.” Pago per lei. So quanto paura faccia avere un debito con lui. Non glielo auguro.
    Mi sbrigo a rivestirmi e corro verso il locale affiliato. Il suo turno dovrebbe essere finito, per cui immagino di poterla trovare nei camerini. È lì che mi dirigo ed è lì che la trovo. Ansante, la saluto con un cenno della mano prendendomi un attimo per respirare.
    “Ti disturbo?” Le chiedo poco dopo, avanzando verso di lei per poggiarmi contro il banco sul quale sono riposti i suoi trucchi. Le rubo un sorso di qualunque cosa stia bevendo prima di guardarla. Lei è sempre bellissima. Eppure sul suo volto mi pare di leggervi note orrifiche. Notti terribili.
    “Ho appena finito. Posso aspettarti, così torniamo insieme.” Le dico con un sorriso, uno che dura poco. Gratto un sopracciglio, afflitto dal senso di dovere e dall'angoscia crescente di aver spinto Yoko non solo verso atti indegni verso sé stessa, ma anche verso eccessi che dovrebbe evitarsi. Per qualche ragione, in questo mondo, le sue cose sono estremamente correlate.
    Sospiro pesantemente, ficcando la mano nella tasca per afferrare la bustina incriminata.
    “Me l'ha data Ivar.” Gliela mostro, prima di ristringerla in una mano per evitare possa afferrarla. “É per te?”


     
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    Lo sbattersi della porta segna la fine del mio turno. Mi prendo pochi istanti per rimettermi in sesto, rivestirmi del provvisorio costume mantenuto sino ad ora e riconnettermi con la realtà. Un proposito che eviterei volentieri, represso appena sotto l'ingoio di grovigli di nausea ed umiliazione incastrati nella mia gola sino a togliermi il fiato. Non riesco neanche a guardarmi allo specchio della stanza cupa ed impregnata di eccessi stomachevoli in cui ho lavorato sino ad ora. Conto celermente il denaro del cliente uscito da pochi istanti, trascinandomi sino all'ufficio all'ultimo piano per il resoconto. Con la mia parte in tasca ed il costante disgusto per la realtà che mi circonda, scivolo lentamente sino al mio camerino, attendendo l'arrivo della mia necessaria distrazione.
    Dischi di cotone e salviette umide si macchiano del pastrocchio che il sudore ha dipinto sul mio volto. I resti di una serata che si intrappolano in quei fazzoletti bianchi, lasciando i contorni pallidi e smunti del mio viso stanco, riflesso al largo specchio del camerino con ancora un'acconciatura dalle sfumature rosso fuoco a farmi da cornice. Una figura amica, poco dopo, vi si affianca. In un attimo la linea piatta delle mie labbra si curva in un sorriso fievole ma soddisfatto. Tenero.
    «Non disturbi mai tu, zucchetta.» La risposta che soffio a Jerome, scostando con le braccia deboli i trucchi sistemati sul piano cui siede e riprendendo a strofinare con una salvietta pulita le guance e le labbra ancora macchiate di pochi segni sbiaditi. «Oh, sì! Mi salveresti la vita! C'è un tipo con cui sono stata un paio di settimane fa che viene ogni sera e mi dà il tormento quando stacco.» Nulla di cui preoccuparmi, suppongo. Succede spesso che alcuni clienti prendano sbandate per noi ragazze, di solito i più soli. Sarà capitato anche a Jer. Basta aspettare che perdano interesse.
    Sollevo lo sguardo verso di lui poi quando lo vedo estrarre dalla tasca una bustina dal contenuto familiare. Mi soffermo per un attimo a pensare che io stia ancora aspettando la stessa consegna. Le parole di Jerome chiariscono però si tratti proprio della mia roba. Ed in un attimo, come sapere di averla davanti agli occhi mi iniettasse già l'adrenalina di cui assumerla mi fa dono, mi sembra di riacquistare vitalità.
    «Ti ha fatto il mio nome, no?» Rispondo in un'affermazione entusiasta, curvando appena la testa interrogativa nel vederlo stringere il pugno attorno ad essa piuttosto che porgermela. Un gesto su cui non mi interrogo granché, avanzando anzi un nuovo sorriso, sincero e forse pieno d'ingenuità, mentre mi tiro in piedi.
    «Che c'è? Ne vuoi un po'?» Un po' un'offerta la mia, abbastanza decisa a condividerla con lui sebbene non sia certa il rosso abbia mai fatto uso di questa roba. Immagino si sia accorto sia più forte delle pilloline con cui abbiamo superato le notti sino ad ora. Dovrebbe per tal motivo allarmarmi l'espressione vagamente crucciata che intercetto sul suo volto, ma suppongo di essere troppo stanca ed esasperata per rendermi conto ci sia un motivo più profondo alla sua remissività nel porgermi la bustina che mi spetta. «Dai, per favore, ho avuto una pessima nottata.» Quasi lo imploro, sorridendogli ancora mentre le mani si piantano sulle sue braccia per scuoterlo, in una richiesta di aiuto.
    Una forse che chiede la soluzione opposta a ciò di cui avrei davvero bisogno.

     
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    Corrugo la fronte quando mi racconta dell'uomo che la tormento. So benissimo di cosa parla. Quella frustrazione, o paura, l'ho provata più volte sulla mia pelle. Io però avevo Jonas su cui fare affidamento. Quando il terrore cresceva a dismisura, cercavo in lui il sollievo di un appoggio, almeno fino a quando le cose tra noi andavano bene. Ora che i nostri equilibri stanno ricominciando ad assestarsi, torna ad essere facile chiedere vicendevolmente l'aiuto dell'altro. Sapere Yoko sola in tutto questo però, torna ad alimentare il mio senso di colpa. L'ho scaraventata io in questa situazione. Dov'ero? Perchè non sapevo nulla del suo tormento fino a questo momento? “E perchè non mi hai avvertito prima? Lo avrei spaventato con la mia espressione da cattivone.” Provo a sdrammatizzare, a rendere la mia colpa meno grave, ma non sembra funzionare. Si appesantisce il mio stato d'animo. Il timore di aver commesso l'ennesimo irreparabile errore.
    “Sì.” Annuisco alla sua domanda. Il problema è esattamente questo, che mi abbia fatto il suo nome. Su queste pillole, è inciso il suo tormento ed il mio che ne sono fautore. Ed il peggio è che cerco di farle la predica, senza riuscirci, ma se solo mi lasciassi andare, sono certo che svuoterei il contenuto di questa bustina. Lo farei anche adesso per liberarmi di quello che lentamente mi sta schiacciando al suolo.
    “Sì. Cioè no. Non la voglio. Credo. E comunque nemmeno tu dovresti volerla.” Le dico, riponendo via la bustina e posandola nella tasca interna della mia giacca. Ipocrita, è così che mi sento. Lo sono.
    Passo le mani sul volto, prima di posizionarle sulle sue spalle. La mia espressione disegna note contratte, preoccupate ed angosciate. “E' roba che fa male. Ti fotte il cervello.” Le spiego con ben più consapevolezza di quanto non possano avermi insegnato i libri o le nozioni scientifiche. So cosa significa lasciarsi andare ad eccessi come questi, ad estasi chimiche solo apparentemente liberatorie. So l'effetto che fanno quando il vortice di colori e di sensi mischiati finisce e ne vuoi di più, sempre di più. “Non dovresti farne uso. Soprattutto non quando sei qui.” Avvicino il volto al suo, dopo averlo preso tra le mani. Non le sto facendo la paternale, so di non potere. Le mostro soltanto la mia preoccupazione più profonda. La paura che qualcosa possa accaderle. E sarebbe solo colpa mia. “Devi state attenta, Yoko. Devi restare lucida per evitare gli stronzi.”

     
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    Sorrido divertita davanti alla sua battuta. Per quanto sincera sia la sua apprensione, nessuno potrebbe mai avere paura del suo faccino da bimbo innocente. E' forse anzi quello che più ricercano i suoi clienti, la purezza che nonostante il suo incarico sprizza da ogni poro del suo corpo. Considerazione che mi porta ad una conclusione che non posso trattenere.
    «O magari si innamorerebbe di te e poi ti darebbe il tormento, non potrei mai permetterlo.» Riesco a pronunciare quell'ipotesi senza esplodere in una rigida stoccata di gelosia che tanto mi caratterizza. Forse Jerome è l'unico a risultarmi tanto sincero e candido da non irritarmi al pensiero qualcuno possa preferirlo a me. O magari è l'unico che dimostra di volermi abbastanza bene da non indurmi ad alcuna assurda competizione, un po' come Freya. Due angioletti senza cui non potrei rimanere a galla in questo mondo di stronzi.
    Meno scherzosi diventano però gli intenti successivi, mentre le parole di negazione del rosso raggiungono le mie orecchie e le sue dita si stringono attorno alla bustina che non ha intenzione di porgermi. Inusuale da parte sua, considerata quanta di quella roba ci siamo sempre scambiati senza battere ciglio. Cos'è che è cambiato, adesso?
    «Va bene, va bene, sì. Lo sappiamo tutti che fa male, sappiamo che fotte il cervello, tutte le paternali che gli altri ci fanno, blablabla... E poi "chi se ne frega", "si fottessero", "siamo padroni delle nostre azioni". Quiiiindi... Me la restituisci adesso?» Mi aggrappo al suo corpo come una scimmietta farebbe su un tronco. Non so perché abbia voglia di giocare e temporeggiare stasera, di solito siamo più celeri negli scambi chimici che ci riserviamo a vicenda. Sarà forse che questa volta, non è la voglia di giocare o scherzare che guida le sue intenzioni. La sua espressione si fa a mano a mano più convincente, il tono di voce più serio. Seppur denotato dalla gentilezza che marca i suoi contorni come ogni parola che scivola via dalla sua bocca, si tuffa in una serietà ai miei occhi quasi... tragica.
    «Jerome, ma fai sul serio?» Il volto incorniciato dalle sue mani assume connotati altrettanto seri, quanto increduli. Stento a capire come voglia agire. Stento a percepire le note di acuta premura e preoccupazione che intende rivolgermi. Vorrei sentirmene lusingata, ma a parlare prima della mia riverenza è una sorta di... rabbia. La necessità di mandare giù un po' di pace, prima che i demoni della realtà vengano a prendermi per disintegrarmi.
    «Guarda che so badare a me stessa e poi qui siamo al sicuro.» Lo siamo davvero? Ho imparato a credere che sia solo una balla, che in fondo siamo nelle mani di nessuno e che chiunque di noi sarebbe facilmente rimpiazzabile in caso di necessità. Ci preservano solo per evitare problemi con la legge ed una cattiva fama, ma credere di essere davvero in un luogo sicuro mi aiuta ad andare avanti. Non lascerò che Jer mi tolga anche questo. Perché proprio lui dovrebbe farlo? «Avanti, dammi la bustina. Non scherzo.»

     
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