love is a bitch

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    Il viaggio di ritorno verso casa era stato fin troppo breve. Il tempo che la separava da quel luogo in cui non voleva tornare, sembrava essersi accorciato. Le sei ore di viaggio erano in definitiva volate. Fuori al San Mungo, aveva salutato Mason col groppo in gola. Si affidava a lui e alla sua tenacia, ma sarebbe stato per lei impossibile nascondere il timore che le stringeva il cuore: quello di non rivederlo più. Si era aggrappata all'unica promessa che si erano vicendevolmente fatti, quella di essere attenti. Helena lo era stata. Dopo la visita ad Otis, e l'ennesima lite con i suoi genitori, aveva deciso – sotto consiglio di Mason - di ritornare ad Hogwarts, unico luogo realmente sicuro in cui poter nascondersi, evitando le visite di Lorence. Così aveva fatto, non prima di essersi ricongiunta alla volpe che il Chesterfield era riuscita a recuperare.
    La scuola di stregoneria si era effettivamente mostrata sicura. Le lezioni serrate e la routine monotona, non avevano però distolto i suoi pensieri dall'angoscia dell'esistenza che la aspettava fuori. Il Volhard d'altro canto, non mancò di mostrarle che ad attenderle oltre quelle mura ci sarebbe sempre stato lui. Ogni tre giorni, alle 15 in punto, un gufo volava nella sua stanza per rilasciare sul suo letto una missiva di carta pregiata. Un fiocco nero ad avvolgere le parole d'amore che Lorence le rivolgeva. Nessuno avrebbe potuto leggere nulla di strano in quelle parole. Helena però notava la crudeltà delle sue implicite minacce in ogni frase romantica. Più esaltante era l'amore di cui scriveva, più sentiva forte la presa immaginaria della mano dell'altro contro il suo collo. Gli attacchi di panico, avevano tormentato il suo sonno per notti intere.
    Aveva però atteso il weekend, intrepida nel rivedere l'unica persona da cui sarebbe voluta tornare a quel punto. Lo aveva raggiunto in una stanza ad Hogsmeade, una bettola di legno cigolante poco lontano dalla Testa di Porco. Aveva indossato il mantello dell'invisibilità che Hugo le aveva inviato come dono al suo compleanno per celare la sua figura. Le era stato chiaro fosse stato lui a spedirglielo anche se non aveva avuto il coraggio di ringraziarlo. Si era spogliata del manto invisibile solo all'interno della stanza. Quando aveva visto Mason ad attenderla, l'unica cosa che era riuscita a fare ancor prima di salutarlo, era stato saltargli in braccio. Quello che accadde dopo, sarebbe stato a priori abbastanza prevedibile.
    Quando la passione si consumò, ancora contro il suo corpo, restò a fissarlo. Pensò che per quanto scomoda, non sarebbe stato male vivere in quella posizione lì con lui. Quel pensiero stupido le strappò un sorriso. Ansante e stremata, carezzò la sua mascella prima di sporgersi per rilasciare un bacio contro le sue labbra. «Sei sicuro non ti abbia visto nessuno?» Gli chiese, piegando il capo mentre carezzava il suo collo. Contatto. Lo aveva sempre rifiutato negli ultimi tempi ed ora sentiva di non poterne fare a meno. Le sue mani sotto il vestito indossato, non la incupivano ma le infiammavano il petto. Ed anche se il suo mondo faceva schifo, contro di lui non si sentiva schiacciata ma padrona di sé e della sua vita. Con lui si sentiva invicibile. «Otis non ti denuncerà. E ovviamente non lo farò nemmeno io. I miei continueranno ad avere le loro idee del cazzo ma non possono farti nulla senza il mio consenso. Ho diciotto anni adesso.» Lo disse con fierezza, quasi sentisse di aver risolto un grosso problema della vita di entrambi. Non era che un piccolo dettaglio ma sapere Mason lontano da implicazioni legali, e per causa sua, la rasserenava. «Tu hai scoperto qualcosa?» Gli chiese, lo sguardo ancora perso contro le sue mani. Una mano ad accarezzare i suoi ricci. Gli chiedeva di Otis e del suo attacco. «Continuerai ad essere attento? Intendo sai, basta cazzate come alcol e polverine strane quando sei da solo.» Un accorgimento che andava al di là di un monito pignolo. La sua era chiaramente preoccupazione. Premura.
     
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    Lasciarsi ancora seguendo la scia di tragedie che li ha attirati alla scomoda normalità che li attendeva è stato tanto duro quanto le altre volte. Il volto ombrato di lividi sbiaditi di Helena è svanito oltre l'angolo di fianco all'ospedale dove il fratello è stato ricoverato e la sua priorità è diventata dare la caccia alla piccola volpe scomparsa da qualche parte nella foresta. Una fortuna parziale, dopo ore di ricerche, averla avvistata lontana dalla baita. Quella baita non più sua, ridotta ad una base da carneficina, come se di vita, tra quelle mura, non ce ne fosse mai stata. Come se tutto ciò che ci ha vissuto lì dentro non sia mai realmente accaduto. Risate svanite, figure cancellate. Neanche agli spettri del benessere provato è concesso permanere in quel luogo che deve essergli estraneo. Una situazione difficile da sopportare, che sistemerà in seguito, quando altre impellenti esigenze gli avranno lasciato un attimo di respiro. Cerca di mantenere, in quel periodo di apparente stasi, la calma che Helena per prima gli ha raccomandato. E' rimasto nell'ombra della propria quotidianità, lontano da lei come da qualunque dettaglio potesse riguardarla o riguardare la sua famiglia. O persino il Volhard. Stretto nei suoi affari, ha passato le giornate in Accademia, volgendo di tanto in tanto il pensiero alla ragazza in attesa del loro prossimo incontro. Per un attimo, tutto è sembrato essere andato bene. Anche troppo. Ed aggrappatosi alla speranza del nuovo incontro pattuito, ha resistito fino all'attimo di ricongiunzione tanto atteso.

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    Tra le pareti della stanza affittata ad Hogsmeade, tutto si è alleggerito quasi al pari della notte passata a Land's End. Dopo l'iniziale sorpresa del vederla sbucare fuori da un mantello dell'invisibilità, ha lasciato posto alle sue richieste più smaniose. In fondo, è ciò che entrambi hanno inconsciamente atteso. L'ansia di rivedersi, riabbracciarsi, di riaversi e lasciarsi cullare l'uno dalle premure dell'altra. In una frenesia di sospiri e gemiti consumati sulla cassettiera della camera, il mondo torna ad essere colorato. Lo fa in modo naturale, più gradevole dell'adrenalina di pochi minuti di sesso. E' l'aprire gli occhi su opportunità che per un po' investono le loro prospettive future. Immergercisi senza avere paura di ciò che non riescono a controllare. Esausto da quell'appagamento reciproco, sospira contro il suo collo la soddisfazione provata, un sorriso premuto contro la sua pelle, così come contro le labbra da lei stessa ricercate. Difficilmente si sono concessi attimi simili, di un'intimità volta più all'affetto che alla carnalità. Ecco perché ancora persi negli strascichi residui della sinfonia appena compiutasi, non possono fare a meno di sfiorarsi ancora, con le dita, con gli occhi, mentre si aggiornano sul tempo trascorso l'uno lontano dall'altra. 'Al cento percento. Non sono mica uno sprovveduto.' Si fa teneramente beffa di lei, rubandole un nuovo bacio, un altro ed un altro ancora, mentre la mancina premuta contro la superficie legnosa lo sorregge e la destra carezza ogni conosciuto millimetro della sua coscia e del ginocchio malcelati dal vestito indossato. 'Grazie, mia eroina.' Sebbene di natura spiritosa, contiene anche parecchia lusinga quella frase. E' la certezza assoluta anche lei sia ancora disposta a coprirgli le spalle. Qualcosa di cui è sempre stato a conoscenza, che gli ultimi eventi hanno però permesso di far riemergere. Un po' come il riaffermarsi di una certezza quasi sulla via dell'affievolirsi, come tenere viva la fiamma traballante di premure spesso implicite e nascoste. 'Ho mandato un gufo ad Hubert, aspetto mi conceda un appuntamento. Altrimenti mi farò trovare sotto casa.' Il suo tono di voce è deciso, persino le sue idee lo sembrano. Si è allontanato per mesi da quella figura così pesantemente importante nella sua vita e ad infondergli il coraggio di affrontarla adesso è una forza maggiore, che non dipende per nulla da se stesso. Perché quella forza non è in fondo che concentrata nella figura di Helena e nelle reciproche attenzioni che si dedicano. Chiude gli occhi godendo del tocco delle sue mani, sulla mascella, sul collo, tra i capelli. Non può fare a meno di rimando di respirare il suo profumo, baciare le sue labbra, le guance, il collo, la clavicola appena sporgente oltre i lembi del vestito che le cade addosso disordinatamente. Finisce di gustare quel momento, calmo ma ancora vicino a lei. Più che mai. 'Non mi vedi lucido e sobrio adesso, bimba?' Una domanda che esaudisca la richiesta avanzata. Farà di tutto per continuare a tenersi pulito, a non cadere in baratri anche peggiori dei vizi cui ha già troppo spesso ceduto. Per tenersi forte, pronto ad aiutarla, e non deluderla ancora una volta. E poi, dopo altre carezze scorse tra le cosce ed i fianchi nudi, le rivolge di rimando le stesse preoccupazioni non più latenti. 'E tu? Sai già quando rivedrai quel cane pezzo di merda?' Uno sdegno meno accentuato del solito quello rivolto al Volhard, ma pur sempre acceso di astio incontrollato. Uno cedevole, di appena pochi secondi, prima che la sua mente torni ad altri dettagli che non ha avuto il tempo di considerare e commentare all'arrivo della ragazza. 'E a proposito, quel mantello? Come te lo sei procurato? E' roba rara.' Lo è, in genere. Non ne ha ancora avvistato la qualità, ma ne ha osservato l'efficacia finché lo ha tenuto addosso.


     
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    Annuì alle sue parole. Temeva l'incontro di Mason col padre, e quello che da lì ne sarebbe potuto venire fuori, cercò però di celare la sua reticenza. Si fidava di lui e voleva lo capisse. Era certa non sarebbe tornata indietro, affidandosi ad un legame che lo aveva quasi distrutto un tempo.
    Non trattenne un sorriso alle sue parole. Nessuno vedendola avrebbe potuto immaginare Helena potesse essere così distesa tra le braccia di qualcuno. Aveva passato le ultime settimane a covare rancore verso Lorence, i suoi genitori ed il mondo intero. Ora quasi tutto il suo malumore sembrava essere svanito. Tra le sue braccia si sentiva una persona nuova, libera dai problemi che l'avevano angustiata. C'erano solo loro e nient'altro. «Non so. Sembri un po' fatto.» Rispose, pizzicandogli il fianco ancora coperto dalla maglia. La voracitá con cui si erano ricercati non li aveva privati nemmeno dei vestiti. Quasi temendo di veder l'altro sparire, erano piombati l'uno nelle braccia dell'altro, ardendo insieme di quella passione che li teneva vivi. Ed ora allontanarsi sembrava impossibile.
    Corrugò la fronte, incupita dalla sua domanda. Un quesito che la trascinò via dal mondo in cui si era rifugiata, lanciandola nella cruda realtà. Non era una possibilità quella che Mason poneva dinanzi ma una verità che presto o tardi si sarebbe realizzata. «No.» Rispose, lasciandosi andare ad un pesante sospiro, prima di tirar su lo sguardo contro il suo. Avrebbe voluto dirgli quando oppressa si sentiva ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Il timore di quella prigionia glielo si leggeva costantemente nello sguardo. Lorence dopotutto, aveva profondamente modificato la sua vita e la sua psiche. Per quanto la Haugen si ostinasse a negarlo, la sua figura aveva peso nella propria esistenza. La paura che le causava, l'aveva reso potente nei suoi riguardi. «Continua a scrivermi ma non ha accennato a nulla.» Non riuscì a riportare nessuna delle parole che il Volhard le aveva inviato. Riportare quelle parole d'amore, le avrebbe causato la nausea. Ancor più immaginare cosa celassero. Avrebbe soltanto preferito non pensarci. Non mentre era ancora contro Mason.
    Gli fu segretamente grata per quel cambio di discorso. Lasciò dondolare la gamba, rivolgendo lo sguardo contro il mantello sul pavimento. Un dono inaspettato che aveva gradito. «É un regalo per il mio compleanno.» Gli confidò, lasciando scivolare il proprio sguardo in quello dell'altro. Due dita distratte ferme sul mento dell'altro. «Non c'era mittente ma presumo sia di Dubois. È un serpeverde a cui do ripetizioni.» Gli spiegò poco dopo, facendo spallucce. Avrebbe potuto dirgli che era in definitiva l'unica persona con cui fosse riuscita a legare in quasi un anno ma evitò. Non era il suo giudizio che temeva ma ammettere la sua incapacità di socializzazione era sempre difficile da accettare. «Un mantello simile lo abbiamo utilizzato quando abbiamo provato ad infiltrarci nel reparto proibito della biblioteca. Forse è lo stesso.» Aggiunse poco dopo, ricordando di quell'avventura che lo aveva poi visti protagonisti di una punizione che si sarebbe volentieri risparmiata. «Puó tornarmi utile, no?» Piegò le labbra in un mezzo sorriso. Un regalo che riteneva essere davvero indispensabile a quel punto, soprattutto vista l'impossibilità ad uscire alla luce del giorno.
     
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    'Fatto di te.' Ride a quella parziale presa in giro, la lingua a scivolare sulle labbra dischiuse dell'altra prima di catturarle in un nuovo bacio macchiato delle ultime punte di residua frenesia e di desideri d'affetto e giocosità. Qualcosa che smorza appena la tensione nel volgere i pensieri a Lorence e alle malefatte che lo riguardano, evitando di risvegliare i suoi istinti più primitivamente feroci per lasciare poche note di sdegno nei riguardi delle lettere. Dannate minacce velate guidate da un'ampia conoscenza del materiale giuridico, come una trappola della mente che gli darebbe ancora una volta il via libera sulla faccenda. Roba da Volhard, niente di più. A riportarlo però sull'attenti sono altre considerazioni. Sussurri a cuor leggero che in quel momento di perpetua immobilità Helena gli suggerisce, ipotizzando la provenienza di quell'utile stratagemma accostandola ad un nome che stride tra i suoi pensieri: Dubois. 'Dubois? Hugo Dubois?' Gli sfugge in un primo momento la consapevolezza lei non sia al corrente del loro reciproco conoscersi. Non dalla partita di Quidditch, né tantomeno dalla serata al cimitero di Highgate. Già colto da fastidi che crucciano il suo volto in un'espressione sporca di nervosismo e di risate accigliate ed altrettanto stizzite, quasi non presta ascolto alle spiegazioni che gli rivolge. Si lascia avvolgere per un attimo - erroneamente - dai ricordi acerbi di quell'incontro, delle parole che ne hanno fatto da padrone e dei gesti dannatamente impressi nella sua mente come un marchio a ferro e fuoco. Bruciano allo stesso modo. 'Ti sei ficcata sotto un mantello con lui?' Una. La prima nota di estrema gelosia che scivola via dalle sue labbra, forse ancora poco chiara, ben mascherata da uno scetticismo che in definitiva rivolge a sin troppi elementi perché il suo coinvolgimento risulti evidente. Almeno per adesso. 'E ti fa anche regali adesso? Non gli è bastato fare l'isterico la notte di Halloween?' Due. 'Lei non ti merita.' Rimbomba ancora fastidiosamente quella frase, un tono di voce che normalmente l'avrebbe divertito, avvolto dall'odio del Chesterfield perché capace di colpire esattamente uno dei punti più deboli mai posseduti. Sbuffa il proprio fastidio, scuotendo il capo e schioccando la lingua contro i denti mentre libera la ragazza del suo corpo, tirandosi indietro e ricomponendosi, le parole ad esprimere concetti su cui non può fare a meno di riflettere con incontrollata furia. 'Non mi piace come ti guarda.' Tre. Il palesarsi della propria debolezza, un nervo scoperto che non ha modo di trattenersi come in passato ha malamente fatto con il Crawley. Non è solo l'unione resasi più forte nel corso degli ultimi mesi, quanto la consapevolezza lei non sembri rendersi conto di qualcosa di così evidente. Ed è lì che gli torna alla mente il barlume di lucidità necessario a giustificare la vaghezza dell'altra. Lì le lascia un indizio forse abbandonato al caso, mentre irritato lancia via nel cestino della stanza una palla di fazzoletti e ciarpame e riallaccia la fibbia della cintura. 'Ah, già. Tu non ti ricordi un cazzo di quella notte.'


     
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    Corrugò la fronte nel sentirgli nominare il nome del compagno. Non ricordava di avergliene parlato prima, né che si conoscessero. Sentirgli pronunciare il nome di Hugo, la stranì. «Lo conosci?» Chiese all'altro, a quel punto curiosa di conoscere il modo in cui avesse avuto modo venire in contatto con il serpeverde. In risposta però ottenne una nuova domanda, che la confuse anche più della precedente. A turbarla era l'implicita accusa che quella domanda nascondeva, al punto da sentirsi come bruciata. E rimuginò sul serio su quello che era accaduto, ma pur impegnandosi non riusciva a scorgere nulla di male nel suo gesto.
    «Sì ma eravamo vestiti.» Rispose con una mezza risata incerta, provando a sdrammatizzare. Dubitava a quel punto sarebbe servito e questo continuava a provocarle domande su domande. Si chiedeva cosa avesse detto di sbagliato o se avesse fatto qualcosa di erroneo da spingere l'altro ad allontanarsi, gesto che la immobilizzò. Se ne sentì pizzicata. Ferita. «Eh?» Piegò il capo, ancora più confusa, saltando giù da dov'era. Si ricompose, mentre cercava di dare un senso a quel clima improvvisamente teso, alla rigidità del suo corpo e alle parole insensate che occupavano il loro spazio. Incrociò le braccia al petto, assumendo la posizione di difesa che solitamente acquisiva quando sentiva il mondo esserle nemico.
    Avrebbe riso. A quel punto, dopo le sue parole, non fu difficile intuire quale fosse il reale problema che aveva animato la sua reazione. Gelosia. E se da un lato se ne sentiva onorata, dall'altra in qualche modo offesa. Era la distanza posta tra loro. L'abbandono, seppur metaforico, a cui l'aveva costretta. «E tu cosa ne sai di come mi guarda?» Scosse il capo, accompagnando quella frase con una risata amara. Come avrebbe potuto saperlo? Era sicura non si conoscessero affatto. Mason però sembrò non voler aiutarla a farle capire di cosa diamine stesse parlando e quale fosse il reale problema. Passò le mani sul volto, sbuffando. «Perchè? Cosa è successo?» Non riusciva a seguirlo, tanto da chiedersi se non avesse involontariamente preso una pozione confondente prima di raggiungerlo perchè, per quanto si impegnasse, non riusciva davvero a capire quasi nulla di quello che diceva. Le sembrava stesse parlando un'altra lingua.
    Si concesse qualche attimo. Irrequieta poi, non potette fare a meno di agire. Afferrò il mantello riverso sul pavimento, avvicinandolo a lui per far sì lo toccasse. «Senti è solo un regalo e lui è solo... Hugo. E' solo Hugo.» Allargò le braccia, sincera. Lei per prima era stata vittima della gelosia. Sapeva quanto infima potesse essere. Forse, si diceva, aiutandolo avrebbe evitato il peggio. «Credo si sia sentito in dovere di farlo o qualcosa di simile, dopo esserci visti al San Mungo.» Gli spiegò poco dopo, non nascondendo nemmeno quell'incontro tra le mura del nosocomio, lì dove Mason non aveva possibilità di metter piede. «E' solo un bel gesto.»
     
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    Le scherzose insinuazioni di Helena non hanno il potere di divertirlo. In quel contesto, nulla potrebbe farlo. Trattenersi è difficile, non gli riesce poi granché bene. A quelle reazioni al limite dello sproposito la ragazza resta però sbigottita, confusa da dettagli che non può comprendere e che il Chesterfield continua a rilasciare come briciole su un sentiero. Difficili da ricomporre affinché abbiano un senso. E' il suo modo di proteggersi, sebbene i risultati non siano che una catastrofe riconducibile alle pessime esplosioni di cui entrambi sono stati vittime in passato. Un danno forse non irreversibile, incapace di essere prevenuto e trattenuto. Solo perché quel genere di approccio non appare ideale in quel momento. Oppure sono le circostanze in sé a rendergli impossibile accettare qualsiasi gesto da lei compiuto. 'Non lo tocco quel coso.' Scosta le mani dal tentato invito dell'altra, storcendo il muso e sollevando gli occhi al cielo pur di non soffermarsi sui drappeggi di quel mantello. Di quel regalo utile come lei stessa ci tiene a sottolineare, dopo aver rivelato altre informazioni che infervorano irrimediabilmente l'animo del ragazzo. Ad occhi sgranati, sguardo accigliato e stupito, comunica la disapprovazione di cui è preda. 'Al San Mungo? Adesso lo vedi pure fuori da scuola?' Gli è impossibile ragionare, razionalizzare quel mix di conferme atte piuttosto a calmarlo che ad agitarlo ulteriormente. Anch'essi risultano tentativi vani, gesti incapaci di andare a segno. Non perché dipenda da lei in alcun modo; è l'accumulo di timori del Chesterfield che, condito dagli aspri fastidi di una prepotente gelosia, lo spinge a frasi sregolate e pensieri apparentemente privi di logica. 'Un bel gesto. Cazzo. Fantastico, almeno ti sei trovata un cavaliere con cui andare in giro. Ai tuoi piacerà da matti, è così a modo.' Un'irritante ed infantile vocetta accompagna le sue ultime parole, precedenti uno sbuffo di stizza con cui lasciar sbollire i sentimenti peggiori che lo incatenano ad un malessere crescente. Non funziona. Neanche mettere mano al pacchetto di sigarette sarà sufficiente a spegnere quell'inferno. 'Branco di stronzi.' Sussurra tra sé e sé, racchiudendo in quell'insieme tutti. Il Dubois, gli Haugen, il Volhard. Tutti coloro che ledono alla sua immagine più di quanto la sua storia non abbia già fatto. Fin troppo facile cedere alla devastazione causata dalle idee che circolano nella sua mente. Chiunque sarebbe migliore per la figlia, a detta dei coniugi Haugen. Chiunque all'infuori di quel pazzo criminale del Chesterfield. Idea affine a quella del Dubois, avvolto anch'egli da una nube di assuefazione che irrigidisce la sua mascella quanto i suoi pugni. Con la sigaretta accesa tra le dita, soffia fuori quelle che per lui si realizzano come certezze assolute. 'Ma come fai a non renderti conto? Ti mangia letteralmente con gli occhi, porca puttana.' Ride, adesso. Un'amarezza smodata quella che accompagna i singhiozzi dei suoi sghignazzi, mentre siede sul materasso del letto lì presente, intoccato, immacolato. 'Ti facevo più sveglia.' Suggerisce infine, non rendendosi conto di quanto equivoche e fraintendibili siano quelle parole.


     
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    Il gesto irruento dell'altro, la turbó. Non riusciva a capire il motivo per cui, di punto in bianco, fossero piombati in quella parentesi angosciosa. Il loro tempo era contato, e l'idea che Mason fosse disposto a consumarlo con idiozie come quelle tirate fuori la feriva. Quanto importante erano per lui i loro momenti, se dinanzi a quella che Helena riteneva nient'altro che una supposizione, si lasciava andare a scenate come quella?
    La sua domanda, ed implicita accusa, le infiammò il petto. Avrebbe potuto lasciare correre se non avesse intravisto nella sua voce un'ammonizione. Sbagliato, come tutto quel che faceva. Il mondo non aveva smesso un attimo di rimbeccarla per le sue scelte. Ed ora lo faceva anche Mason.
    «Dio. Che ti prende? Vuoi darmi ordini e limiti anche tu ora?» Sbottò inacidita, prendendo le distanze da Mason per evitare di esplodere in eccessi che avrebbe voluto evitarsi. A quel punto però cominciò a sembrarle molto complicato. Lo imitò, rubando una sigaretta, accendendo il filtro mentre gli dava le spalle. Il corpo rigido, le braccia ancora conserte.
    Provò a respirare. Inutile. Ancor più quando il Chesterfield ritenne necessario aggiungere la ciliegina sulla torta di poca pazienza che Helena aveva sempre pronta. Poco sveglia.
    L'idea della gelosia l'aveva per un attimo inorgoglita. Sapere che qualcuno, che Mason, tenesse così tanto a lei da avere timore, l'aveva fatta sentire speciale. Era durato poco meno che un minuto. Dinanzi a quella accusa, avrebbe voluto urlare.
    «Già eh?» Replicò con una calma apparente, mentre rilasciava fuori fumo grigiastro. Raggiunse il letto su cui si sedette dal lato opposto a quello di Mason. Un metro intero a separarli. In quel momento sembrarono chilometri.
    Si concesse qualche attimo, stringendo i pugni. Lo sguardo perso contro la parete. Avrebbe voluto essere una persona migliore, ragionevole. Non riuscì però a fare a meno di ripescare vecchi rancori, a chiedersi come poteva accusarla conoscendola. Sbuffò.
    «Senti, puoi fidarti di me se ti dico che sono solo cazzate. Nessuno potrebbe guardarmi a quel modo.» Non era solo un'implicita incapacità, a quel punto, di vedersi in un'ottica diversa per gli altri. Non era la mancanza d'autostima ad indurla a quelle considerazioni, né la cecità di cui Mason la incolpava. Era la sicurezza di non aver visto nulla di sbagliato. Chi meglio di lei avrebbe potuto constatare segnali ambigui? E soprattutto, perché arrabbiarsi tanto per supposizioni? Quanto labile era la fiducia che Mason riponeva in lei?
    «E sai, se anche fosse, non dovresti preoccupartene.» Aggiunse voltando il capo nel guardarlo. Un'espressione rigida ed adirata che lasciava intuire quanto poco delicata sarebbe stata la sua prossima mossa a quel punto. «Non sono io quella che Va in giro a scopare con i suoi amici.» Una ferita ancora aperta che sembrava aver ripreso a sanguinare. Forse non aveva mai smesso di farlo.
     
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    Gliele dovrebbe delle spiegazioni. Non riesce però a fare chiarezza su nulla, trascinato da onde di un crescente malessere che faticano a palesarsi persino nella sua coscienza. Perché è da lì che parte il suo dramma, dalla consapevolezza di avere ancora degli errori incastrati tra le trame delle sue responsabilità. I silenzi sono quelli che pesano di più. Ma non sembra averne imparato l'inganno, visto quante omissioni continui a sospendere tra le parole che si scambiano. 'Ah no? L'hai deciso tu che nessuno potrebbe farlo?' L'ingenuità dell'altra lo stupisce. Non si spiega come i suoi occhi possano essere tanto ciechi a dettagli che di norma comprenderebbe istantaneamente. Forse è il suo modo di proteggersi di rimando, convincersi che nessun altro ragazzo possa riporre in lei alcun interesse. Che nessuno possa avvicinarla tanto da farle male. Non lo aiuta però a dare un'accezione positiva alla sua tecnica di reazione. Preferirebbe piuttosto fosse conscia di ciò che le accade intorno, ponendo da sé le distanze necessarie. E se il Dubois fa ancora parte della sua vita, al punto da addentrarsi in quella frazione di vulnerabilità che Helena cela sempre agli occhi altrui, allora forse tale necessità lei non l'avverte per nulla. E di questo, ne ha paura. 'Certo, se ti ficchi sotto un mantello dell'invisibilità con loro, qualche segnale sbagliato lo dai, mh?' Cazzate che normalmente non le rivolgerebbe. Ne riderebbe, se solo a lei fosse abbastanza evidente ciò che i suoi occhi sono convinti di aver compreso. Oppure sarebbe più facile, se il suo animo non fosse schiacciato da colpe taciute che non hanno modo di andar via. All'ultimo richiamo di quelle, il nervosismo papabile sul suo volto non ha più ragione di essere mascherato. 'Ma che brava, sai sempre dove andare a parare tu!' Sbotta irritato, scuotendo il capo mentre nuvole esagerate di fumo riempiono la distanza che li separa dall'uno all'altro capo del letto. 'Fai pure, continua a sottolineare tutte le cose di merda che faccio. D'altronde non fate altro, tutti quanti.' La rende ancora partecipe di realtà mozzate dall'incognito. Nulla che lei possa ricollegare ad altro dandovi un senso. Non c'è un filone logico da seguire, solo frammenti di eventi che bruciano troppo adesso perché il Chesterfield li riporti senza rimanerne scottato. Senza esporre le cicatrici di quell'insopportabile bruciore. 'L'avrai imparato da quegli ingrati dei tuoi genitori. Tanto lo stronzo in tutta questa storia sono sempre io, giusto?' Si spinge oltre, dove lucidamente saprebbe di non dover andare. Supera il confine della decenza, rendendole maleducatamente palese il rancore covato nei riguardi di quella gente. Dopo aver richiesto il suo aiuto per i propri scopi, non hanno battuto ciglio a gettargli di nuovo merda addosso. La loro cooperazione con il Volhard li rende solo più disgustosi ai suoi occhi. 'Tanto che cazzo ti frega di quello che sto affrontando io? Finché non ti frigno sotto gli occhi in cerca di attenzioni, posso cavarmela anche da solo.' Sbotta infine, furioso, esagerato, spinto da ragioni che Helena non conosce. Solo un modo per porre sul proprio cammino l'ostacolo di un nuovo sbaglio con cui fare i conti. 'Come sempre.' Sussurra stanco alla fine di quello sfogo apparentemente ingiustificato, i polpastrelli premuti contro le palpebre, tentando di cacciare via la voce degli Haugen, del Dubois ma soprattutto di Charlie dai propri pensieri.


     
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    Le sembrava assurdo continuare a discutere per un argomento tanto futile. Comprendeva la gelosia, molteplici volte ne era stata lei stessa vittima, ma quella mossa da Mason le sembrava un'accusa senza fondamenta. Non solo non riusciva a concordare con le parole dell'altro, e non perché si ritenesse essere ingenua, ma non riusciva nemmeno a capire quale fosse il nesso tra i due. Quando si erano incontrati? Ricordava di un'unica esperienza a lezione, ma dubitava fosse bastata quella ad alimentare quello che sembrava essere vero e proprio rancore.
    Schioccò la lingua contro il palato, scettica alle sue accuse. «In quale cazzo di epoca vivi? Posso respirare di fianco ad un uomo qualsiasi o anche così darei segnali sbagliati?» Era incredula dinanzi a quelle parole. Ferita dal sentirsi rivolgere impliciti moniti all'isolamento perché in caso contrario altri avrebbero potuto pensare di lei di essere eccessivamente disponibile. E forse esagerava, ma non potette fare a meno di sentirsi punta dinanzi a quella considerazione, mentre di nuovo si incolpava per tutto quel che le era accaduto in vita. Secondo quella considerazione, probabilmente anche l'avvicinamento molesto di Lorence era da annoverare come una sua colpa.
    Provò a reprimere quei pensieri, sbuffando mentre si chiudeva in se stessa. Poggiò la schiena contro il cuscino, incrociando le braccia al petto. La sigaretta a consumarsi velocemente tra le labbra. E avrebbe lasciato che il silenzio curasse le sue ferite se l'altro non avesse preso a ribattere, gettando benzina su un fuoco già alto.
    Non riuscì a mantenere la calma, né a pensare. Afferrò il cuscino e con stizza glielo lanciò contro.
    «Vaffanculo.» Anche lei aveva molte remore nei riguardi della sua famiglia, ma i suoi continui attacchi cominciavano a studiarla. Lo facevano soprattutto in quel momento. Ancor più si sentì infastidita dinanzi alle sue ultime parole.
    Sentì il volto infiammarsi mentre il senso di colpa per il male che era piombato sul Chesterfield infiammava il suo petto. Fu impossibile placarsi. La rabbia ed il dolore la spinsero a reazioni istintive. Ancora sul letto, sulle ginocchia, si avvicinò all'altro, riversando in colpi a palmi aperti contro la sua schiena, la sua ingestibile furia.
    «VAFFANCULO.» Urlò lasciando che la sua voce grattasse contro la trachea. Si tirò in piedi, incespicando tra le lenzuola. Si sentiva una stupida a quel punto. Si sentiva tradita. Il desiderio di scappare la spingeva a tremare, la consapevolezza di non poterlo fare in quel momento le inumidiva gli occhi.
    «Sei uno stronzo ingrato quanto me.» Vedersi. Era stata convinta almeno lui riuscisse a farlo. Si era illusa Mason capisse quanto si impegnasse, nonostante tutto. Era solo un'ingrata ai suoi occhi.
    «Vattene via.»

     
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    'Non capisci mai un cazzo, Helena.' E' lui in primis a non aiutarla a capire. Continua a lanciare quella serie di malintesi senza curarsi delle conseguenze. Frasi ambigue che scavano solchi profondi nella fiducia appena riguadagnata. Un peccato cui si pentirà a mente lucida, così come accade ogni volta. Adesso però sembrano entrambi giunti ad un punto di non ritorno, arrancando in quell'irrimediabile susseguirsi di preoccupazioni che suonano come accuse, insicurezze dall'ingiusto sapore di rimprovero. La reazione di Helena è quasi scontata, fissata in una prevedibilità di cui Mason non si stupisce realmente. A seguito del cuscino, una scarica di schiaffi giunge alle sue spalle, incendiando quelle parti di sé sino ad ora rimaste incredibilmente incolumi dalla collera provata. Lancia via la sigaretta mentre si ripara malamente da ciascuno di quei colpi, l'espressione scocciata sul viso mancante di ferocia alcuna, sebbene il tono di voce si alzi tra loro adirato e scontroso. 'Cazzo, smetti di fare l'isterica!' Urla contro di lei, ritraendosi a fatica dalla sua esasperazione prima di vederla oltrepassare le coperte appena sfatte per rimettersi in piedi davanti a lui. Parole cariche di disperato sdegno grattano la sua gola, ricalcando i passi di un isterismo che da tempo non derivava dalle azioni del Chesterfield o da qualsiasi cosa fosse a lui collegata. Non gli fa bene ripiombare in quel genere di sconforto, sommando ad elementi che ha faticosamente messo da parte nuove punte che ne esaltino i contorni. Come ricalcare tutto da capo un disegno che non si è mai cancellato del tutto. Uno brutto, sconveniente, scomodo da guardare. 'Un ingrato, io?!' Ribatte alle sue accuse, incapace di trattenersi. Si alza anche lui in piedi a quel punto, partecipando a quella lotta da lui involontariamente innescata. Non voleva ritornare a quelle pessime abitudini; aver però sopportato per diverse settimane l'impossibilità di agire ed opporsi a ciò che gli ha fatto male, l'ha spinto ad un punto di esubero. Uno in cui quella ferita, per quanto superficiale ed ancora sconosciuta all'altra, racchiude disagi ben più gravi celati tra le nicchie del suo petto. 'Se la metti così, allora te lo dico chiaro e tondo: non mi piace che tu stia vicino a quel moccioso.' Troppo tardi, forse, per esprimere il suo punto di vista, lasciandolo scivolare in quella che potrebbe annoverarsi come una velata richiesta. Quella di porre dei freni a quel ragazzo, di stabilire dei paletti che gli suggeriscano di farsi da parte. Un desiderio egoista di una paura lasciata a fermentare per un tempo immane. E' il rischio dell'innamorarsi, soffrire quotidianamente il terrore di perdere la persona amata. 'E' uno stronzo infantile, si fa bello ai tuoi occhi solo perché ti si vorrebbe scopare.' Ipotesi insufficienti a sostenere le sue teorie, probabilmente in gran parte false. Quei pochi incontri costituiti da occhiate pungenti ed una stupida partita di Quidditch non sono abbastanza per sviluppare quel genere di immagine. Persino le sue parole al cimitero non avrebbero avuto alcun peso, se non fossero state precedute dalle premure che Helena gli ha rivolto. E' questo il dettaglio che più infervora il suo animo, l'aver captato una natura affettiva che dubita di essere pronto a condividere con qualcun altro. Un po' come un bambino capriccioso che non vuole spartire il peluche preferito. 'Io so quello che dico. Dovresti fidarti per una fottuta volta.' Pretende però una comprensione che le sporadiche giustificazioni rivoltele non possono formulare. Così, fermo dinanzi alla porta, attende il risultato di quella che, per quanto totalmente inconsueta, non è che una supplica disperata.


     
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    Dovette reprimere l'irrefrenabile voglia di colpirlo ancora o di urlare più forte. Coprì il volto con le mani, pressando i palmi sulla bocca per trattenere l'ennesimo insulto a voce alta, che avrebbe fatto sì di attirare l'attenzione degli altri ospiti di quelle camere. Non potevano permetterselo. Calmarsi però le sembrò impossibile, tanto da costringersi a prendere le distanze per non sbottare ancora contro di lui. Quando di nuovo lo sentì blaterare verità assurde, battè il palmo contro la parete. Uno sbuffo furioso a palesare tutta l'ira provata.
    «Tu stai farneticando.» Non poteva non essere così. Non riusciva a comprendere da dove fosse nata quella sua folle idea, né in effetti riteneva giuste quelle parole. O quella lite. Non aveva mai perso occasione di difendere Selìne quando Helena l'attaccava per i loro screzi ed era stata accusata in passato per il suo comportamento irruento. Ora Mason agiva allo stesso modo. «Nemmeno lo conosci.» Una verità che fino ad allora continuava ad essere incontrovertibile. Eppure Mason ne parlava come se avessero avuto modo di conoscersi. Quindi no, non riusciva a fidarsi delle sue parole. «Ed è l'unica persona all'interno della scuola con cui riesco a parlare per più di dieci minuti senza volermi strappare via la pelle per il disagio.» Gli confidò poco dopo, riuscendo ad alzare lo sguardo per intercettare il suo. Mason non era estraneo ai suoi problemi relazionali, soprattutto dopo Lorence e tutto quel che le aveva fatto. Esser riuscita a legare, in qualche modo, con un ragazza e con qualcuno in genere, rendeva quello un evento straordinario. Privarsene non l'avrebbe aiutata.
    Morse il labbro inferiore, storcendo il muso mentre chinava lo sguardo. A quel punto, per quanto pericoloso o dannoso fosse, ritenne opportuno tirar fuori la verità. Un modo, non di alimentare il suo immotivato astio, quanto di chiarirgli che non c'era niente da nascondere e niente da temere. «L'ho invitato al ballo.» Avevano discusso di quell'evento e dell'impossibilità ad andarci assieme. Per quanto tristemente, lo avevano accettato. L'alternativa di Helena per non affrontare quell'evento da sola, era arrivata in completa autonomia. Soltanto ora avvertiva l'altro della decisione presa.
    Provò quindi preventivamente a placare una nuova ondata di insensata gelosia. «Mason, senti. Davvero. Io te lo assicuro che sono cazzate. Qualunque cosa tu abbia pensato, non è la verità.»
     
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    Il modo in cui Helena lo difende chiarisce la sua impotenza in quella storia. D'altro canto perché spiegarle le proprie ragioni se non appare disposta a contrattare? Perché rovinare quell'immagine che si è messa in testa perché incapace di accettare la realtà che continua a sbattergli sulla fronte? Il Dubois è un amico. Parafrasando, l'unico con cui riesca a parlare senza aver voglia di scappare. Una morsa fitta gli stringe lo stomaco, con difficoltà reprime la nausea provata. Da una parte, l'idea qualcuno di migliore possa portargliela via torna con prepotenza a bussare alla porta delle sue traballanti insicurezze. Dall'altra ci sono così tante ferite scoperte toccate da quel maledetto ragazzo da non riuscire a provare empatia per Helena. A conoscenza della difficoltà sempre avuta nei rapporti, dovrebbe essere felice per aver trovato un porto sicuro in un mondo che le fa schifo e le mette paura. Vorrebbe esserlo. Per quanto si sforzi però, non riesce a farlo. 'Che bravo che è.' Commenta ancora in uno sbuffo di velata ironia, sotto il cruccio che l'espressione tesa ben dimostra. Sarebbe impossibile a questo punto negarle il proprio risentimento, rivolto forse alla faccenda nella sua totalità che a lei in prima persona. Si rende conto, poco a poco, di non provare rammarico nei confronti dell'altra. Non c'è nulla di sbagliato nelle sue scelte ed esperienze, ma lo realizza solo adesso, mentre lasciandosi affievolire dalla rassegnazione del silenzio venutosi a creare si prepara ad accogliere la consapevolezza con cui convivere da quel giorno fino alla notte del 24 dicembre: sarà lui ad accompagnarla al ballo. 'L'hai invitato tu?' Le sopracciglia inarcate nello stupore vanno a mandare l'ennesimo segnale sbagliato di cui non ha voglia di concedere spiegazioni. Non è il fatto sia stata lei in quanto donna a turbarlo, quanto lo stare a guardare come qualcun altro possa andare avanti al suo fianco... e come tutto questo dipenda dalla sua volontà. 'Bene. Almeno lui potrà regalarti una serata normale.' Ne hanno discusso a lungo, di come la costrizione alle ombre gli abbia impedito di vivere una relazione convenzionale. Devono nascondersi dal Volhard, dal mondo intero. Non gli è concesso amarsi alla luce del giorno. Ed a pesare tra i pensieri del Chesterfield è l'idea qualcun altro abbia preso il suo posto. Di nuovo. Qualcuno che possa farlo, perché neanche lontanamente simile ad un criminale. Sospira la propria frustrazione, i tratti del viso che dalla contrazione d'irascibilità trattenuta sino ad ora si lasciano andare alle curve di un accentuato sconforto. Riesce a stento a guardarla, mentre dà ascolto alle sue ultime rassicurazioni. Ci crede solo in parte, quella ancora radicata all'idea Helena lo apprezzi davvero. Il resto continua a gettarlo in un baratro di triste rassegnazione. Di sofferenza implacabile. Arreso a qualcosa che non può cambiare, tenta di lanciarle un ultimo segnale. L'ultima richiesta da rivolgerle prima di attendere che afferri la sua mano o la lasci andare nel vuoto, ancora. 'Vallo a chiedere a lui cosa pensa di me. Vedi se ha le palle di dirti la verità.' Cosa le racconterebbe? Che genere di finzioni monterebbe su pur di metterlo in cattiva luce? Forse è davvero pessimo, troppo concentrato su se stesso per rendersi conto Hugo sia una persona gradevole da tenere al proprio fianco. Magari più di lui... no. Di nuovo, è uno sconfortante egocentrismo a rimescolare i suoi pensieri. Tirato su il cappuccio sulla testa, le si avvicina con calma. Troppa. Abbastanza da renderla partecipe del dispiacere provato. Per la situazione. Per il suo comportamento. Per ogni cosa. 'Ci vediamo dopo, ti cerco allo specchio.' Un bacio impresso sulla sua fronte, celere al punto giusto per impedirgli di trattenersi e fare sfoggio di una sofferenza che non ha voglia di mostrarle. Non adesso. Le dà quindi le spalle, promettendole un ritorno tempestivo. '...ti prendo del gelato.' La trattativa di pace sussurrata sull'uscio della porta. Si prende solo qualche minuto di tempo, prima di stabilire un nuovo punto d'incontro in cui vedersi. Nell'ombra.


     
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