maquillages

Privata

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    Avrebbe apprezzato la sua evasione dal mondo reale e reclusione in quella prigione asettica se questo non avesse implicato il dover necessariamente avere a che fare con i camici bianchi. Non aveva un gran feeling nei loro riguardi, ancor più da quando la cura alla sua maledizione si era rivelata essere un mero esperimento su di lei. Era il motivo per cui, quando le spettava il suo consueto ricovero mensile tra quelle mura, si impegnava a rendere la vita un inferno a chiunque spettasse lo spiacevole compito di accudirla. Nessuno lo capiva, perchè nessuno si era mai preso la briga di capire cosa ci fosse sotto la maschera della ragazza acida ed irritante, ma il motivo per cui era solita comportarsi a quel modo, trovava giustificazione nella paura. Più ne aveva, più ingestibile diventava. Qualcuno aveva avuto il coraggio di proporle un percorso per imparare a gestire le sue emozioni, ma anche quello era finito con un fiasco. Così era lì. Decisa a non liberarsi dei suoi stivali sotto il camice bianco, mentre gli infermieri le tentavano tutte per convincerla a dare inizio alla terapia. Temporeggiava. Sbuffò incrociando le braccia al petto, guardando il letto di una bambina poco lontano. Non era un grande dramma condividere la stanza, ma essere posizionata tra i bambini perchè non era ancora legalmente maggiorenne, la stizziva parecchio. «Ho quasi 18 anni, cazzo. Il reparto mocciosi è necessario?» Schioccò la lingua contro il palato, scocciata. Non si aspettava una vera risposta, ed infatti quel che ottenne fu una serie di giustificazioni a cui non diede ascolto. Afferrò il budino dal vassoio del pranzo che non aveva toccato, aprendolo in malo modo e cominciando a giochicchiarci col cucchiaino. Provò a rilassarsi, ad assaggiare persino la sbobba che aveva tra le mani. Si disse che era comunque meglio esser lì che fuori da quelle mura in balìa del mostro che occupava i suoi incubi. E forse sarebbe stato così se le terapie non le avessero risucchiato via la forza di vivere. Fu per quel motivo, e perchè colta di sorpresa, che sobbalzò ed urlò quando uno dei guaritori provò ad afferrarle il braccio. «Non mi devi toccare, porco.» Col cuore a mille, balzò via dal lettino, afferrando la felpa che indossò sopra il camice. «Fanculo, culi mosci.» Mostrò loro il dito medio, uscendo dalla sua stanza per catapultarsi nel corridoio. Provarono a seguirla ma il guaritore che l'accudiva, ormai avvezzo alle dinamiche della Haugen, decise di bloccare l'intervento degli infermieri. Helena sarebbe tornata, era chiaro. Lo avrebbe fatto ai suoi tempi. Quella volta non si allontanò nemmeno di tanto. Restò nel corridoio, seduta su uno delle sedie lì poste, mentre continuava a torturare il suo budino. Un modo per stemperare l'ansia provata per una serie di punti scomodi della sua esistenza, come quello che le ingabbiava l'anulare sinistro, dalla pelle martoriata e violacea. Sbuffò ancora – sembrava non riuscire a fare altro – mentre poggiava la schiena contro la parete alle sue spalle. Fu in quel momento che lì, poco lontano, individuò una figura conosciuta. Fu tentata di scappare alla visione del serpeverde, nascondersi per evitare di mostrargli il camice sotto la felpa e sopra gli stivaloni neri, ma non riuscì a muoversi. Farlo sarebbe stato comunque inutile. Inoltre, dopo un attimo di sbigottimento, immaginò che il motivo che lo aveva condotto lì, non dovesse essere positivo - in quale caso avrebbe potuto esserlo? - per cui decise di evitare di infierire. Le sarebbe dispiaciuto farlo. Quel che fece fu quindi optare per una finta non calanche. Gli porse il budino spappolato col cucchiaino, aspettando lo cogliesse. «Vuoi? Fa schifo al cazzo.»
     
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    HUGO
    Un sabato come tanti altri. Londra era ammantata da una spessa coltre di nebbia perlacea e le vie del centro brulicavano di turisti intenti ad affacciarsi a questa o quella vetrina. Tutto nella norma, quindi. Un Hugo non diverso da quello di una settimana prima passeggiava sul ciglio della strada, le mani affondate nelle tasche e sul viso un’espressione annoiata. Se da un lato la pigra routine dei suoi weekend lo rassicurava, dall’altro avrebbe assai gradito una sferzata di cambiamento in quelle giornate grigie e tremendamente uguali. Il sabato mattina era dedicato a lei, alla piccola Lucréce, un appuntamento a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Quell’ora settimanale fungeva da ossigeno per il giovane Serpeverde, che aveva imparato suo malgrado quanto la sua felicità fosse legata a doppio filo a quel corpicino esile steso su un letto d’ospedale. Un minimo miglioramento del suo quadro clinico veniva accolto con eccessivo giubilo, decretando l’umore di Hugo per tutta la settimana successiva. Al contrario, un lieve calo dei parametri medici assumeva i tratti di una imminente catastrofe, come un uragano che soffia ostile all’orizzonte mentre sulla terraferma ci si prepara al suo arrivo. Divorato dall’incertezza e schiavo di un presente dubbioso, Hugo non era ancora riuscito ad accettare quei repentini cambi d’umore che lo scuotevano come un giunco al vento. Per lui, così risoluto e poco incline alle oscillazioni emotive, versare in quello stato era motivo di imbarazzo. Avrebbe indossato ogni giorno una maschera differente piuttosto che rivelare al mondo quanto camminare sul filo del rasoio stesse attentando alla sua salute mentale. Troppo orgoglioso per confidare le sue pene agli amici più fidati, Hugo si era fatto carico di quel fardello da solo, fino ad ora. L’unica ad essere a conoscenza dei suoi abituali giri del sabato mattina era Ellie, e non certo per volontà del Serpeverde. I due si erano incontrati tra le corsie del reparto in un’afosa mattina di luglio, in cui la ragazza aveva palesato la sua presenza nella camera in cui giaceva Lucréce. Messo con le spalle al muro, si era arreso dinanzi ai fatti, confidandole quale fosse la ragione della sua visita. Gli occhi gialli di Danielle, caldi e rassicuranti, lo avevano convinto a non rifilarle una bugia da quattro soldi e fu sorpreso nel realizzare che sgravarsi per un istante del peso del racconto gli fece bene. Come un automa varcò la soglia del San Mungo e scuro in volto percorse il labirinto di corridoi che portava alla stanzetta di Lucréce. Nella tasca del cappotto aveva infilato un peluche a forma di coccinella, che ora stringeva febbrilmente mentre con passi pesanti superava la lunga fila di porte affacciate su stanze asettiche. “Dottor Green” salutò con un cenno del capo il medimago che era solito occuparsi della sorella. Non si sarebbe trattenuto con lui, ma avrebbe proseguito spedito per non perdere nemmeno un secondo dell’ora di visitata consentita, se questi non avesse frenato la sua corsa allungando un braccio. Uno sguardo interrogativo raggiunse gli occhi castani dell’anziano medimago, che restituì ad Hugo uno sguardo velato da un’indicibile tristezza. “Le dispiace se parliamo più tardi? Vorrei prima salutare Lucréce. Se non mi vede alle undici in punto si allarma, lo sa, e non vorrei regalarle nemmeno un’istante di agonia”. Il dottor Green lasciò quindi cadere il braccio, lasciando che il ragazzo lo superasse. Scosse quindi la testa, deciso ad escludere dalla mente l’immagine di quel paio d’occhi tristi. Avrebbe volentieri adottato la strategia degli struzzi, infilando la testa sotto la sabbia piuttosto che conoscere quanto il dottore voleva esternargli con tanta urgenza. Sicuramente non buone notizie, a giudicare dall’espressione. Il cuore di Hugo accelerò, tamburellando nel petto come un martello pneumatico. Non era pronto ad abbandonare quella piacevole sensazione di tranquillità placida in cui si era cullato da giugno a questa parte. Non era pronto a farsi scombinare la vita un’altra volta, non in quel modo. Affrettò il passo, riusciva ora a vedere la porta semichiusa della stanza in fondo al lungo corridoio. Una figura seduta sulle sedie metalliche lo separava da Lucrèce. Hugo le rivolse un’occhiata furtiva, disinteressata nell’intenzione, salvo doversi poi soffermare su di essa qualche istante ancora. I capelli legati in un disordinato chignon e la pesante riga di matita nera sotto gli occhi non potevano che appartenere ad una sola persona: la Haugen. Che diamine ci faceva lì e perché mai stava torturando un budino al cioccolato? Gli occhi celesti caddero istintivamente sull’abbigliamento della ragazza, piuttosto inusuale perfino per una ribelle anticonformista come lei. La felpa pesante a coprirle il camice bianco gli suggerì che Helena non era lì in visita, ma potenzialmente la pazienta poteva essere lei. Impalato, incapace di muoversi o di articolare alcun suono, Hugo soppesò l’opzione di girare i tacchi e cambiare strada. Se davvero aveva capito Helena almeno un po’, era certo non avrebbe apprezzato essere vista in quello stato, costretta quindi a rivelare il motivo della sua degenza. Un umano rispetto reciproco legava i due, ed Hugo non era pronto a spezzare quel tacito accordo di mutuo silenzio palesando la sua presenza. Tentennò un istante di troppo, però, perché gli occhi cerulei della ragazza incontrarono i suoi, ancora sgranati per la sorpresa. Lei, in verità, non pareva essere stupita di trovarlo lì perché si rivolse a lui con insolita pacatezza, offrendogli il dolce spappolato che reggeva tra le dita. “Non me l’hai venduto benissimo, Haugen” tirò le labbra in un sorriso, simulando divertimento per il gesto della ragazza, ma comunicando nient’altro che profondo disagio. Si schiarì la voce, indeciso su come proseguire. Lucréce era a pochi metri da lui, poteva quasi udire il sibilo della sua voce, ormai ridotta a nulla più che un flebile fiato. Ma lui era bloccato lì, paralizzato dalla vista di una compagna che aveva creduto talmente forte da non aver mai bisogno di un luogo del genere. Si sforzò di mantenere il sorriso e optò per fingere di non aver visto il camice. “Sei in visita a un parente?” che domanda idiota, ma davvero non gli era venuto nulla di meglio.
     
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    Avrebbe dovuto mostrarsi sorpresa, o anche solo disturbata dalla figura di un estraneo in quello che purtroppo era il suo mondo. Contro ogni pronostico, non palesò nessuna delle due emozioni. Si mostrò invece apparentemente distesa, quasi come se incontrarsi tra i corridoi di un ospedale, nel reparto infantile di fatture ineliminabili e maledizioni fosse poi una cosa normale. Non lo era.
    Fece spallucce alle sue parole, piegando appena il capo mentre arricciava il naso. «Immagino tu abbia ragione. Evento unico.» Commentò, sporgendosi oltre i posti vuoti, per rilasciare il budino spappolato lì accanto. Gettarlo in un cestino sarebbe stata la scelta appropriata ma decisamente troppo corretta per spingersi ad eseguirla.
    Si concesse qualche attimo di silenzio, assecondando il disagio che chiaramente aleggiava tra loro e non certo per merito suo. La rigidità del Dubois era in quel caso giustificata. Era ben conscia della difficoltà di dire la cosa giusta in un contesto come quello.
    Ficcò le mani nelle tasche della felpa, guardando l'altro con un sopracciglio inarcato. Con le gambe accavallate, allargò le braccia per indicare la sua divisa, rivolgendogli un mezzo sorrisetto ironico.
    «Hai problemi con l'ovvio eh, Dubois?» Lo punzecchiò, rifacendosi a vecchie esperienze in cui, di nuovo, il serpeverde aveva evitato di notare particolari ben visibili sulla ragazza. Cominciava a chiedersi se non avesse dovuto sentirsi offesa dal non essere guardata dall'altro. O forse sollevata.
    Lasciò ciondolare la gamba accavallata sbuffando mentre si guardava attorno. «Mi faccio torturare da questi STRONZI INCAPACI Rispose d'improvviso, piegandosi in avanti per urlare verso la stanza in cui era stata ricoverata quelle accuse. Era un ruolo, quella della paziente ribelle, a cui non avrebbe saputo rinunciare e non solo per le brutte esperienze avute fino a quel momento. Era la necessità di mostrarsi forte ed intoccabile in un contesto freddo e temibile come quello. Soltanto chi non la conosceva, non riusciva ad intravedere la paura dietro quegli occhi chiari e i comportamenti da finta arpia. «E' divertente spaventarli. Lo è ancora di più quando sono così impegnati a fingere di sapere cosa stiano facendo quando in realtà non sanno un cazzo.» Aggiunse poco dopo, lasciando poi scivolare lo sguardo sull'altro. Indugiò qualche attimo, mordendo il labbro inferiore. Lo scrutò, cercando particolari simili ai suoi su di lui che non trovò. I motivi per cui si fosse spinto tra quelle mura a quel punto, non erano molti. «E tu? Ti annoiavi ad Hogwarts?»
     
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    Affondò le mani nelle tasche e spostò il peso da un piede all’altro osservando Helena sbarazzarsi del vasetto di budino, un gesto infantile che ben si sposava con l’ala dell’ospedale in cui si trovavano. Forse per la felpa di diverse taglie più grande in cui la ragazza quasi spariva, o forse per il barlume di follia che ne agitava lo sguardo, Helena gli ricordò una bambina dispettosa, di quelle che fanno gli scherzi ai compagni di scuola per mascherare il senso di inadeguatezza provato. Hugo fece correre lo sguardo dal budino, ora abbandonato sulla sedia, alla felpa in cui aveva infilato le mani, scivolando poi lungo il busto per incontrare i lembi di un camice bianco che sbucavano oltre l’elastico. Non era con l’ovvio che Hugo aveva problemi, bensì con la gestione di quella confidenza forzata, dettata dalle circostanze e non dalla reale volontà di aprirsi l’un con l’altra. S’immedesimò nella ragazza caparbia ora seduta di fronte a lui: se avesse vestito i suoi panni, letteralmente, avrebbe fatto di tutto per depistare l’interlocutore, inventando una qualsiasi scusa per l’abbigliamento inconsueto. Aveva creduto Helena simile a lui sotto quell’aspetto, restia quindi a consegnare un’informazione tanto privata all’altro senza fargliela pagare almeno un po’. Divertimento fu invece quello che il Serpeverde individuò nelle rughe d’espressione della ragazza, che ora lo guardava di sottecchi indicando platealmente il camice. La mano di Hugo corse repentina dietro la nuca, dove affondò tra i capelli chiari per qualche istante prima di tornare obbediente nella tasca dei pantaloni. La difficoltà nel replicare al sarcasmo di lei in quella situazione tanto paradossale lo investì, facendo morire sulle labbra il sorriso stentato rivoltole pochi istanti prima. Al contrario, Helena sembrava essere a suo agio, a tratti quasi seccata dal trattamento ricevuto. “Non volevo essere indiscreto” confessò, cercando di mantenere fermo il tono della voce, leggermente più acuta del solito. Osservò l’indisciplinata Helena inveire contro i guaritori, per poi tornare a rivolgersi a lui, aggiungendo qualche dettaglio ad un tono di voce più basso. “Non sanno mai un cazzo, hai ragione” confermò senza distogliere lo sguardo dalle fughe scure tra le piastrelle del pavimento. Avrebbe voluto essere bravo come lei a sdrammatizzare, mascherando con un sorriso folle il velo di tristezza che gli era inevitabilmente calato sul viso, indurendone i contorni. Era sempre stato bravo a fingere, ma qualcosa quel cupo mattino di novembre gli stava impedendo di vestire la solita impenetrabile corazza. L’espressione preoccupata del dottor Green bussava insistentemente tra i suoi pensieri, prepotente nell’accavallarsi ad ogni altra immagine. Nemmeno Helena e la sua ignota condizione di paziente erano riusciti ad accantonarla. Decise quindi di smettere di resistere, lasciando che la preoccupazione si insinuasse nel suo petto, diffondendosi come petrolio in un mare cristallino. Alzò quindi il mento e vincendo la tentazione di superare Helena e varcare la porta alle sue spalle, si lasciò cadere su una sedia accanto a lei, accasciandosi come un palloncino sgonfio contro lo schienale metallico. La verità era che il richiamo di Lucréce era forte, ma non forte come la paura di fare ingresso in una stanza priva del suo sorriso sereno. Il ben noto, bruciante timore che le sue condizioni fossero peggiorate dopo mesi di stabilità gli paralizzò gli arti, frenando la sua corsa verso lo spoglio letto d’ospedale in cui la piccola giaceva. La domanda di Helena lo punse sul vivo. Avrebbe voluto replicare a tono, condendo le sue parole con l’usuale ironia, ma quelle gli rimasero impigliate in gola. Si schiarì un paio di volte la voce, arrochendola leggermente. “Mia sorella è nella stanza accanto. Te ne ho parlato una volta, non so se ricordi. Ha una malattia rara.” Non riuscì ad aggiungere altro, così diresse lo sguardo verso un punto indefinito in fondo al corridoio, ben deciso a non incontrare quello di Helena.
     
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    Allargò le braccia, indicandosi, piegando poi il capo come a dire che per quanto apprezzato, il suo gesto era inutile. Era impossibile essere discreti in un posto come quello. «Sono costretta ad andare in giro con una sottana in questo posto. Qui la discrezione non esiste.» Gli disse, schioccando la lingua contro il palato, con la speranza di sollevare il morale di quella conversazione chiaramente dai toni cupi. Tra quelle mura, evitava simili note. Non era immune da tristezza o paura, cercava solo di lasciarle fuori da lì. Poteva essere deleterio e di sicuro controproducente per il suo ricovero, e per la sua psiche. Il Dubois quello non doveva averlo ancora capito. Glielo avrebbe spiegato se ne avesse avuto l'opportunità, ma la rivelazione di cui la fece partecipe, fece piombare il silenzio tra loro. Pesante. Cupo, come il suo volto che teneva attentamente distante dallo sguardo della Haugen.
    Non le ci volle molto a capire cosa intendesse il Dubois con quelle parole appena accennate. Nessuno aveva il coraggio di parlare chiaro lì, sebbene l'ovvio fosse palese a tutti. Quella che gravava sulla testa di molti pazienti di quel reparto, era una condanna a morte. «Rara. Così sembra quasi tu sia speciale, ed invece...» Mugolò tra sé. Aveva imparato ad odiare certi atteggiamenti, alcune parole. Odiava tutto quello che, in modo ipocrita, si fingeva d'essere utile alla loro condizione. Dopo tutte le bugie a fin di bene che i suoi genitori le avevano raccontavano, aveva imparato a disprezzare quel modo leggero d'affrontare argomenti simili. Per quanto dolorosa, avrebbe apprezzato la verità. Nient'altro che quella.
    Non aveva idea di quale fosse la cura per Hugo, ma sapeva di non poter concedersi quel silenzio, né gli avrebbe rivolto inutili parole di conforto che niente avrebbero potuto contro una simile condizione. Gli avrebbe fatto dono della sua, infantile, caparbietà. Fu per quello che si tirò in piedi, dandogli un colpetto sulla spalla per invitarlo a fare lo stesso. «Dai, tirati su.» Lo guardò seria. C'era decisione sul suo volto, non pietà. Si guardò attorno come ad assicurarsi non ci fossero guaritori, prima di indicare una porta in lontananza. «Vedi quella stanza lì in fondo? E' piena zeppa di peluche che noi ruberemo così che tu possa riempire la stanza di tua sorella di peluche. Renderai la sua stanza meno noiosa. A tutti piacciono i peluche.» Era quella la sua soluzione. Mettersi in movimento ed evitare di pensare. Cercare una soluzione reale a piccoli problemi, piuttosto che provare a risolvere enormi grattacapi. A lei quella tattica dava almeno la parvenza di una risoluzione. Non la faceva sentire come se fosse già spacciata, perchè più della malattia, era essere considerati già morti che faceva pena. «Giuro che non ci metteremo nulla e nessuno ci scoprirà.» Provò a rassicurarlo, sperando di convincerlo. Per quanto stupido, quel piano lo avrebbe distratto. Ed era il modo di Helena di tentare di risollevargli il morale. Era in definitiva il suo modo di dirgli che era dispiaciuta. E lo era sul serio. Non aveva però quasi mai il coraggio di parlare dei suoi sentimenti.
     
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    HUGO
    Fece dondolare le gambe in un gesto infantile, che mal si sposava con la barba che ormai ne punteggiava il volto, ora contratto in un’espressione rammaricata. Aveva cercato di comunicare a Helena la situazione della sorella utilizzando un tono neutro, fermo, privo di qualsivoglia inflessione dettata dalla profonda inquietudine che lo attanagliava. Voleva mantenersi distaccato per non veicolare il messaggio d’esser un debole, incapace di reagire con risolutezza alle situazioni spiacevoli. Ed invece era proprio così che si sentiva. Debole e impotente, una combinazione letale per un orgoglioso come lui, abituato a non perdere mai il controllo e ad affrontare le situazioni con fredda determinazione. Accolse il commento di Helena con un sorriso rassegnato, rivolto al pavimento da cui non riusciva a distogliere lo sguardo mentre le gambe ancora penzolavano inquiete. “Vero. Invece rara significa solo che sei uno sfigato e che per il tuo problema ancora non esiste cura. È solo un modo elegante per dirti che non sanno come cazzo muoversi”. Fece spallucce in accompagnamento alla verità appena proferita. La maggior parte dei medici evitava accuratamente di assumersi la responsabilità di un crollo emotivo dell’interlocutore, preferendo quindi una via menzognera, aggirando la realtà dei fatti e propinando una versione infiocchettata della situazione. Hugo avrebbe di gran lunga preferito sentirsi dire che per Lucréce non ci sarebbe stato nulla da fare fin dal principio. Invece no, ogni nuova cura, ogni nuovo trattamento era accompagnato da sorrisi di incoraggiamento e parole speranzose. E così Hugo per mesi si era illuso, convinto che le migliorate condizioni di Lucréce dipendessero dall’aver azzeccato l’intruglio da farle bere. Invece ogni miglioramento era sempre frutto del caso. ‘Signor Dubois, non sappiamo spiegarci il motivo ma oggi sua sorella ha ripreso conoscenza dopo mesi di coma. Può venire a trovarla’. L’emozione provata nell’udire finalmente quelle frasi aveva reso Hugo miope dinnanzi alla verità che quelle parole celavano. Ora, a distanza di mesi, aveva compreso di aver posto l’attenzione su quelle sbagliate, vittima di una sorta di memoria selettiva. ‘Non sappiamo spiegarci il motivo’ significava che così come era inspiegabilmente migliorata poteva, altrettanto inspiegabilmente, subire un nuovo tracollo. Che era, poi, ciò che ora Hugo temeva di sentire dal dottor Green. Fu quindi lieto che la Haugen non assecondasse il silenzio calato, ma tentasse anzi di scongelare l’immobilità di quella situazione con un’amichevole pacca sulla spalla. Sorpreso da quel gesto, Hugo interruppe il contatto visivo con le piastrelle del pavimento. Helena non era solita toccarlo. Non sapeva spiegarsi il motivo, e poteva essere solo una sua impressione, ma aveva captato che la ragazza non apprezzasse il contatto fisico, anche se della durata di un millisecondo. Apprezzò quindi quel buffetto leggero, seguito da parole di incoraggiamento. Diamine se ne aveva bisogno! Fosse stato per lui, avrebbe preferito essere inghiottito dalla sedia gelida, sparendo per sempre da quel corridoio che odorava di disinfettante. Seguì con lo sguardo l’indice di Helena, puntato verso un paio di porte più in là. La proposta che gli fece gli strappò un sorriso. “Peluche come questo?” un’affermazione mascherata da domanda mentre la mano libera dalla bacchetta affondava di nuovo nella tasca a recuperare la piccola coccinella. “L’avevo presa per lei” borbottò, lievemente a disagio. Mostrare la tenerezza che provava nei confronti della sorella era motivo d’imbarazzo. Avrebbe piuttosto preferito dare di sé l’immagine di un duro senza cuore, inscalfibile da qualsivoglia sentimento. “Ma sono sicuro che prenderne un paio in più non faccia altro che renderla più contenta” fece, alzandosi finalmente dal sedile, le gambe ancora lievemente intorpidite. “Dai, non c’è nessuno, è il momento buono” la intimò facendo scorrere la mano lungo la sua schiena per sospingerla nella direzione da lei indicata. Un déja-vu fece capolino tra i suoi pensieri: quello sgattaiolare furtivo gli ricordò uno dei loro primi incontri, in cui Hugo aveva nascosto entrambi sotto il mantello dell’invisibilità per garantir loro un accesso sicuro al reparto proibito. L’unica differenza era che lì in ospedale nessuno li avrebbe messi in punizione, ma si sarebbero tuttalpiù beccati una lavata di capo. Poco male. “Alohomora” sussurrò facendo scattare la serratura e aprendo la porta affinchè Helena entrasse per prima. Dannazione aveva ragione, quella stanza era piena zeppa di animaletti di ogni forma e colore, sparpagliati sul pavimento a comporre un bizzarro tappeto. D’impulso, Hugo si lasciò andare su quella coltre morbida, atterrando di schiena su un coccodrillo a grandezza naturale. “Fantastico” sussurrò, riscoprendo quel sé bambino che aveva abbandonato troppo precocemente. Si rialzò poi, e istintivamente fece scivolare un braccio dietro la schiena ed uno dietro le ginocchia di Helena, sorreggendola per qualche istante prima di buttarsi con lei su quell’insolito materasso. Un gesto sciocco, che forse gli sarebbe costato un pugno sul naso, ma che in quel momento gli provocò una risata spontanea che spazzò via in un lampo il malumore finora provato. Fu come bere un sorso di quella vodka di cui aveva abusato nelle settimane successive alla scoperta della malattia di Lucréce. Infilò la mano in un mucchio di peluches e ne estrasse uno a forma di serpente. “Toh guarda, c’è pure il tuo ritratto” scherzò, sorpreso di quel ritrovato buonumore. Che l’aria di quella stanza fosse intrisa di felix felicis? Lasciò passare alcuni istanti prima di tornare serio di nuovo. “Tu invece come…stai?” avrebbe voluto essere più esplicito, chiederle quanto fosse grave il morbo che la costringeva tra quelle mura, ma ancora una volta le parole faticarono a uscire. Sperò che Helena capisse e non la considerasse una semplice domanda di circostanza. Sarebbe suonata alquanto strana, in effetti.
     
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    Annuì alle parole dell'altro, trovandosi tristemente d'accordo con ogni virgola di quel discorso. Avere una malattia rara, non ti rendeva speciale, ma solo sfigato. Lei lo era stata e a quanto pare anche la piccola Dubois. Il mondo di chi si ritrovava a patire situazioni simili, in modo diretto o indiretto, cambiava irrimediabilmente. Il tempo assumeva un valore diverso così come ogni gesto. Helena non era ancora arrivata al punto da riuscire a liberarsi da ogni pregiudizio o illusione, era anzi ancora profondamente immersa in un mondo canonicamente normale. Altri però, bloccati in uno stadio avanzato di una condizione irreversibile, giungevano ad una sorta di pace. Helena temeva quel momento. Quella stasi disillusa in cui si accettava tutto, convinti fosse comunque il meglio che il destino potesse donare fino a quando tutto sarebbe finito. Per questo lottava, urlava. Per questo si mostrava più forte di quel che realmente sentiva d'essere perchè se solo si fosse fermata a pensare, era conscia sarebbe rimasta schiacciata dal peso delle sue paure. Era il motivo per cui non riusciva a pronunciare parole semplici di compianto. Il suo modo di mostrare supporto al serpeverde, era spingendolo a far qualcosa. Scappare dalla tristezza.
    Fu sollevata di vedere l'altro acconsentire, dopo il turbamento iniziale. Sentiva di poter essergli utile più in quel modo che con scontate parole di supporto. Si guardò attorno, seguendolo oltre la porta indicata. Il caleidoscopio di colori che li investì, le donò un sorriso infantile. Sull'uscio dei diciotto anni, non aveva di certo perso l'amore per i peluche. Ritrovarsi in quel mondo incantato, sembrò rendere meno pesanti i suoi problemi. Cercava qualcosa tra il mucchio morbido che avevano dinanzi, quando si sentì afferrare dall'altro. Si irrigidì chiudendo gli occhi, lasciandosi andare ad uno squittio mentre cadevano all'indietro. Un gesto inaspettato , che la spinse a reagire con una gomitata data nel fianco all'altro. A disagio nell'essergli praticamente sdraiata addosso, scivolò via dalle sue gambe, per mettersi accanto a lui. Un gesto che attuò con lentezza, accomodandosi lì ad una spanna da lui. A volte nemmeno si rendeva conto di provare a mettere distanza quando era a contatto con qualcuno dell'altro sesso. Ormai le veniva purtroppo in modo naturale. «Oh, come rido.» Arricciò poi il naso mostrandogli la lingua quando le mostrò quel serpente. Sistemò il camice in modo che potesse coprire le sue cosce, prima di dedicarsi a cercare qualcosa nel mucchio soffice. Un modo per dissimulare l'angoscia che la sua domanda le suscitò. «Sono rara anche io. Unica, quasi.» Distese le labbra in un sorriso finto, senza però alzare il capo per incontrare il suo sguardo. Lanciò via un pupazzo da lei dichiarato osceno, prima di tornare a rispondere. Immaginava avrebbe potuto evitare di farlo, ma si sentì motivata a farlo. Quasi sentisse il bisogno di dimostrargli che per quanto orribile quella condizione, c'era una possibilità di farcela. E forse in realtà, cercava di convincere se stessa. «Trabocco di magia, ma non riesco ad espellerla. Il più delle volte. Sai almeno gli obsuscurs fanno il culo al prossimo. Io mi corrodo dentro.» Gli spiegò a grandi linee quale fosse la condizione che la tratteneva tra quelle mura. Era conscia di non essere l'unica ad essere affetta da sbalzi di magia involontaria. Non avere la forza di espellerla però, la rendeva una pentola a pressione. Emozioni forti e situazioni intense, le provocavano sbalzi che non riusciva a gestire e che accumulava in sé. Il timore era che, prima o poi, implodesse cessando d'esistere. Più magia accumulava, più quel timore si rendeva tangibile. «I nuovi intrugli a gusto piscio dovrebbero funzionare. Ed insomma, sono ancora tutta intera quindi magari è così.» Annuì, guardandolo. Il suo volto, per quanto privo di tristezza o lacrime, era chiaramente rigido. «Se dici che ti dispiace, ti do un pugno sulle palle.» Ci tenne ad aggiungere poco dopo, afferrando poi delle farfalle colorate dal mucchio morbido. Le incantò poco dopo, lasciando che svolazzassero tra loro. Le guardò con un sorriso, prima di guardare l'altro. «Che ne pensi? Potrebbero piacerle?»
     
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    Inclinò la testa di lato e si schiarì la voce per riempire gli istanti che separavano la sua domanda dalla risposta della ragazza. Avvertiva il pericolo dietro l’angolo, ancora nascosto da quegli istanti privi di parole. Helena era una bomba ad orologeria, una lingua tagliente che non avrebbe risparmiato nessuno se la domanda rivoltale fosse stata reputata inappropriata. Rapportarsi con lei era sempre un azzardo e per quanto la sua ringhiante aggressività fosse prevedibile, Hugo aveva deciso consapevolmente di superare il confine invisibile del suo universo privato. Era entrato in punta di piedi e bussando piano alla sua porta, questo è vero, ma stava pur sempre chiedendo di entrare, e l’inquilina di quel corpo tormentato da un male invisibile non era certo avrebbe apprezzato la visita. Si ritrasse inarcando le spalle ed affondando entrambe le mani tra i pupazzi, lo sguardo che vagava per la stanza. Era Helena che stava prendendo tempo o era il francese a non essere più in grado di misurare gli istanti con oggettività, timoroso di ricevere in risposta un dito medio, o peggio, un pugno in piena faccia? Curioso, ciò che più di Helena apprezzava era anche ciò che più detestava, se usato contro di lui. La schiettezza, l’assenza di giri di parole e il totale disinteresse verso l’altro sesso erano caratteristiche di lei che avevano convinto il Serpeverde ad andare ben oltre le lezioni di incantesimi e pozioni, stuzzicandone la curiosità al punto da voler scoprire cosa celasse la sua dura corazza. Sapeva che il suo fascino non aveva alcun ascendente su di lei, ed in qualche modo tale consapevolezza aveva spinto Hugo a darle la chance che il resto delle ragazze del castello non avevano meritato. Frivole, superficiali ed inutilmente ciarliere, così le reputava. Mentre lo sguardo del ragazzo correva lungo le pareti, la voce di Helena lo ridestò. Si strinse nelle spalle nell’ascoltare l’incipit della sua storia che sanciva una similitudine inaspettata con la piccola Lucréce. Erano entrambe due rarità nel mondo magico, tanto speciali che per una delle due probabilmente non era il nostro mondo quello più adatto in cui vivere. Un’ombra scura gli calò sul volto che tentò di dissimulare imitando il sorriso di lei, ugualmente innaturale. In principio la condizione di Helena non gli parve così grave, tanto da consentirgli di tirare un sospiro di sollievo. Non era in fin di vita, e questo bastava a sollevare di poco l’umore di Hugo. Non avrebbe sopportato una confessione strappalacrime. O meglio, non sapeva come l’avrebbe gestita e di certo mostrarsi troppo dispiaciuto non era tra le opzioni. “Oh. Ne ho sentite altre di storie come la tua, sai. O meglio, non mi è stato detto apertamente, ma insomma, mi è bastato poco per capirlo”. Si riferiva a Kynthia e alla sua impossibilità di domare la propria magia in preda ad un attacco di rabbia furibondo. Sperò che quelle parole fossero di conforto per Helena, forse non così rara come i medici credevano. Alla fine la Lloyd viveva una vita del tutto normale, e non gli era giunta notizia di frequenti visite della stessa al San Mungo. Fu l’ultima frase, però, a ribaltare l’intero significato di quella confidenza discreta. Io mi corrodo dentro. L’immagine di un vulcano incapace di espellere la lava gli infiammò la mente per un istante. “In che senso ti..corrodi dentro?” Pose la domanda come se fosse un interesse scientifico quello da soddisfare, il tono di voce privo d’ogni inflessione emotiva. Helena era di poche parole, ma sufficientemente concisa e fin troppo abile nell’evocare immagini crude. “Acida come sei, ti corroderesti comunque!” Provò a sdrammatizzare. Era questo che entrambi volevano, no? Ricercare nell’altro la leggerezza che mancava. La osservò agguantare ed incantare un paio di farfalle di peluche affinchè si librassero sopra le loro teste. Le seguì con lo sguardo prima di realizzare la ragione dietro quel gesto. Una fitta al petto gli ricordò per l’ennesima volta il motivo che lo aveva spinto al San Mungo quel sabato mattina: Lucréce lo stava ancora attendendo nella stanza accanto, e con lei il dottor Green e la sua sentenza minacciosa. “Si, le piaceranno sicuramente.” Sentenziò rimettendosi in piedi e allungando una mano a Helena perché l’afferrasse, sebbene non fosse certo che avrebbe accettato. “Vieni anche tu, sicuramente vorrà sapere che incantesimo hai usato per farle volare.” Mascherò dietro la curiosità della bambina le sue reali intenzioni. Non voleva entrare da solo in quella stanza ed affrontare le parole dure che era certo avrebbe udito. Non era pronto a fare quel passo senza un appoggio, ed Helena in quel momento gli sembrava perfetta per svolgere quel compito. Gli avrebbe trasmesso la forza che non era sicuro di possedere.
     
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    Il silenzio creatosi, pungolò la sua ansia per qualche istante. Si esponeva di rado e quando le capitava di farlo capiva il motivo per cui evitava. Il timore d'essere giudicata, le toglieva il fiato. Ancor più tremenda era la possibilità della pietà. Non c'era redenzione in quella, solo l'accettazione di una fine. Quando le rivolgevano sguardi pietosi, si sentiva già morta. Per fortuna niente di tutto quello accadde. Hugo le concesse rispetto. Accolse la sua muta preghiera di sorvolare sulla verità che Helena gli aveva concesso, a ripagarlo della fiducia che l'altro per prima le aveva donato. La sua battuta non la ferì, sollevò anzi il suo animo. Era chiaro fosse un tentativo di sdrammatizzare e non potette fare a meno di essergli silenziosamente grata.
    «Ah! Come sei simpatico. Guarda come rido.» Finse una risata, portandosi le mani al ventre, tornando seria poco dopo. Dovette farlo quando percepì di nuovo un'ombra sul volto del serpeverde. Era strano osservare una situazione simile alla propria da un punto di vista differente. Aveva vissuto quel dramma da protagonista, affliggendosi per tutto quello che il destino le precludeva. Non si era mai chiesta quanto dura potesse essere per le persone che aveva accanto. Ora ne aveva un assaggio.
    Avrebbe voluto abbracciarlo, mostrargli sostegno, ma non riuscì a muoversi di un solo millimetro. Non riuscì nemmeno ad afferrare la sua mano, preferendo tirarsi su da sola. Non era solo il timore del contatto fisico ad inibirla, quanto la possibilità che Hugo le aveva appena offerto.
    «Grazie.» Biascicò comunque verso di lui, lisciando le pieghe della camicia indossata. L'invito che l'altro gli pose, l'ammutolì. Lo guardò in silenzio, soppesando i suoi pensieri.
    «Sei sicuro?» Gli chiese quasi a domandargli se fosse certo di volere proprio lei a fianco in un momento in definitiva così intimo. Per quanto si fosse sempre impegnata a mostrare il contrario, non si era mai sentita all'altezza di nulla. Di sicuro non all'altezza di un ruolo come quello. Eppure l'idea di poter rendersi utile, non le dispiacque. Forse, pensò, se avesse capito come sollevare l'umore di Hugo, avrebbe capito come tirar su anche le persone che la circondavano. O forse, in ogni caso, le avrebbe fatto bene. «Okay. Le insegnerò come fare il culo ai guaritori magari. E come darti il tormento.» Annuì quindi, mostrandogli il proprio assenso. Si diresse verso l'uscita, seguita dai peluche svolazzanti. Quando Hugo le fu di fianco, lo sfiorò appena invitandolo ad entrare. «Vai avanti. Su. Io vengo con te.» Lo avrebbe seguito e volle specificarlo. Il veleno di cui si era sempre vantata, sembrava essere sparito. Sapeva essere atroce quando si impegnata, ma quando le situazioni lo richiedevano, poteva essere anche una brava amica.
     
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    Esibì un sorriso forzato per rendere meno palesi le sue reali intenzioni, o meglio, le sue reali necessità. Lasciò che il suo sguardo venisse trasportato per la stanza dalle farfalle, gli occhi che ne seguivano pigramente la traiettoria mentre le mani si infilavano nelle tasche dei jeans. Ne sfilò poi una, tendendola ad Helena perché potesse afferrarla. Oscillò qualche istante nel vuoto, allungandosi verso di lei mentre gli occhi chiari si soffermavano sul suo profilo pallido. Aveva sempre pensato che la pelle diafana fosse un tratto distintivo della ragazza, resa più evidente dalle pennellate scure con cui era solita adornare lo sguardo. Solo in quell’istante, però, mentre gli occhi risalivano lentamente lungo il suo viso, fu colto dal dubbio che il pallore fosse da sempre sintomo della malattia invisibile di cui Helena soffriva, qualcosa che la dilaniava dall’interno e ne sciupava pian piano l’aspetto. Come immaginava, non strinse le sue dita ma preferì sollevarsi da sola, rifuggendo dal contatto, seppur breve, con il corpo dell’altro. Anche con i gesti involontari Helena chiariva la sua capacità di cavarsela in qualunque situazione senza l’aiuto di nessuno, e la metaforica mano in suo soccorso altro non servì se non a rimarcare tale concetto, allontanandola. “Certo che sono sicuro” sussurrò dando un obiettivo diverso a quella mano, che corse quindi tra i capelli a scompigliarne i ciuffi chiari. Non riusciva a pensare a qualcuno migliore di lei, in quella circostanza. Indiscreta, ma solida come una roccia, cui Hugo si sarebbe appoggiato qualora le gambe non fossero state in grado di sorreggerlo. Come un alpinista esausto che dopo l’ennesima salita ripida necessita di trovare un po’ di ristoro distendendosi su un sasso piatto, così Hugo avrebbe sfruttato la spalla metaforicamente offerta dall’altra. Lesse in quegli occhi cerulei bordati di nero un accenno d’incredulità a quella proposta, dissipata l’istante successivo per lasciar spazio ad uno sguardo comprensivo in cui Hugo si perse mentre il cervello ripassava i movimenti che il corpo avrebbe dovuto compiere per raggiungere la stanza di Lucréce. “Andiamo” intimò più a sé stesso che a Helena, rivolgendole un sorriso nervoso che non riuscì a contagiare gli occhi vitrei. “A darmi il tormento, si” ripetè con voce monotòna senza cogliere il reale significato di quelle parole. Avanzò quindi a passo incerto, seguito da Helena e dal nuvolo di farfalline svolazzanti. Un inusuale corteo ad accompagnare quella che pareva essere la strada verso la ghigliottina. A testa bassa ed incitato dal braccio teso di Helena che gli sfiorò la schiena, dischiuse la porta della stanza. Ciò ch’essa conteneva si disvelò a poco a poco. Lucréce era adagiata sul solito lettino spoglio, i capelli sparpagliati intorno al viso come raggi di un sole ormai pallido. Un’ultima occhiata fugace ad Helena prima di procedere. “Lucréce” bisbigliò, quando le fu a un palmo di distanza, il capo chinato sulla sua fronte a sfiorarne la pelle sottile. “Lucréce, sono io” ripetè tentando di controllare la voce, tremolante alla vista di quel corpicino infragilito dalla malattia. Attese qualche istante in cui riuscì ad avvertire distintamente il cuore inondare di sangue il cervello, pulsante nelle vene con una forza prepotente. Avvertì il battito sui polpastrelli, che leggeri si posarono sulle guance della bambina a comporre un disegno invisibile. Dopo quelli che gli parvero secoli, dal viso pallido di Lucréce giunse un segnale. La piccola schiuse le palpebre e mugolò una risposta disarticolata alla voce calda del fratello, ruotando debolmente il capo nella sua direzione. Hugo si inginocchiò quindi ai piedi del letto, così che i loro visi fossero allo stesso livello e i loro occhi capaci di incontrarsi. “Amore mio” gli sfuggì, mentre la mano sinistra continuava imperterrita a carezzarle la guancia. Represse con un morso alle labbra il velo di lacrime che premeva per oscurargli la vista. Non doveva lasciarsi andare, non ora. Fece quindi un sospiro e controllando l’inflessione della voce si voltò. Helena era rimasta sull’uscio, circondata da uno stormo di farfalline colorate. Un’immagine che lo intenerì più del dovuto, e che gli strappò un sorriso spento. “Lucrèce, ti presento una mia amica. Lei è Helena, sono sicuro che tu l’abbia già vista qui.” Fece segno alla ragazza di avvicinarsi. “Questo è per te” estrasse la coccinella di peluche dalla tasca del cappotto e la adagiò di fianco al suo busto immobile. “Sai, anche lei viene spesso qui a curarsi” lasciò cadere la frase nel vuoto. Una morsa allo stomaco gli impedì di continuare quel discorso, così si limitò a volgere il capo verso Helena, quasi supplicandola con lo sguardo di confortare Lucréce in qualche modo.
     
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    Le capitava spesso di sentirsi fuori luogo. A disagio nel mondo in cui era, reagiva con irruenza, fissando sul proprio volto un disappunto perenne ed un'espressione che avrebbe tenuto a distanza qualsiasi insinuazione sul suo conto. Non era sua intenzione mostrarsi sicura di sé, voleva solo apparire come la stronza di turno a cui nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere nulla. Funzionava la maggior parte delle volte. E con il tempo, quella maschera si era appiccicata al suo viso, nascondendo le sue emozioni. Quando però si ritrovò in quella stanza, sentì crepe formarsi sulla sua immagine. Le spalle prima rigide, si piegarono verso il basso, mentre lo sguardo lucido si chinava a cercare sollievo. Si sentiva in un'intrusa, indegna d'assistere a quell'intimo momento, e per un attimo provò la forte tentazione di scappare. Forse lo avrebbe fatto sul serio se il Dubois non avesse ricercato la sua attenzione ed il suo appoggio. Dinanzi al suo volto sofferente, non riuscì a negargli un aiuto.
    Quella situazione, non le era nuova. L'aveva già vissuta, per mesi. Ritrovarsi dall'altro lato della barricata però, sembrò rendere ogni attimo più asfissiante. Avrebbe potuto urlare al mondo quanto schifo facesse essere malati. Ora però pativa il peso di chi la malattia la scontava da spettatore. L'impotenza che sembrava schiacciare Hugo in quella posizione piegata, sofferente, le toglieva il fiato. Si chiese se così dovessero sentirsi le persone che aveva intorno. Se era quella la sofferenza che un giorno, sperava mai, avrebbe letto nei loro occhi lucidi.
    «Ehi.» Si costrinse a parlare con voce impastata e tremula. Si schiarì la voce azzardando un passo incerto verso la ragazzina. Le rivolse un sorriso stirato. Di nuovo il desiderio di scappare si fece forte. Si sentiva profondamente inadatta a ruoli come quelli ma provò comunque a farsi forza. Si prese qualche attimo, avvicinando le farfalle incantate al suo letto. Avrebbe fatto in modo di distrarla, o almeno, avrebbe dato ad Hugo il tempo di riprendersi. «Ti piacciono? Hugo le ha incantate per te.» Annuì, sorridendo dolcemente. Non le importava di mentire, lo faceva di continuo. Quella però le sembrò una bugia doverosa. Lasciò che uno dei peluche, svolazzasse intorno al suo naso, prima di farla poggiare tra i suoi capelli. «Le farfalle più belle vanno sui fiori più belli.» Piegò il capo, lasciandosi scappare un mezzo sbuffo. Non era semplice allontanare la tristezza che quella scena le provocava. I suoi occhi lucidi e la voce incrinata tradivano le sue emozioni. Riuscì però comunque a trattenere le lacrime dietro gli occhiali a forma di cuore che calò sul viso.
    Tirò su col naso, lanciando uno sguardo al ragazzo, sospirando. Non poteva certo biasimarlo per la sua reazione, né per il desiderio di supporto. Lei avrebbe continuato a rivestire il ruolo di cui l'altro l'aveva rivestita. Silenziosamente, castò un divversio contro la figura distesa. L'avrebbe aiutata a rasserenarsi per qualche ora. Si chinò poi in avanti, come se volesse raccontarle un segreto. «C'è un posto in Olanda pieno di fiori bellissimi. Io ci sono stata, sai? E' pieno di colori e odori. Ci sono farfalle ovunque. Intendo farfalle vere, non queste di peluche.» Annuì, guardandola, prima di indicare Hugo alle sue spalle con un cenno del capo. «Non dovrei dirtelo ma Hugo mi ha detto che ti porterà lì in primavera. Solo tu e lui.» Un'altra bugia. Un modo però di risollevarlo dall'oblio in cui era piombato. Reagire. Era questo che avrebbe fatto bene ad entrambi. Si tolse gli occhiali, voltandosi per porli delicatamente sul volto dell'altro. Lo guardò poi, supplicandolo di dire qualcosa. «Vero?»

     
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    Fece un cenno ad Helena, ancora ferma sull’uscio. Non fu difficile interpretarne i pensieri. L’espressione incerta dipinta sul suo volto bastò ad Hugo per comprendere la titubanza nell’avanzare nella sua direzione, timorosa forse di prendere parte ad un intimo quadretto familiare turbandone gli equilibri. Equilibri che, inutile dirlo, erano stati già sovvertiti mesi addietro da un male subdolo che si era silenziosamente insinuato nel corpo inerme di Lucréce, troppo fragile per poter opporre una degna resistenza. Quando fu certo che nessuna lacrima sarebbe scesa, cercò gli occhi chiari di lei levando poi una mano per invitarla ad avvicinarsi. Comprendeva l’incertezza dei suoi passi, al suo posto si sarebbe sentito un intruso, per nulla adatto a ricoprire il ruolo che egli stesso le aveva designato. Cercò quindi di trasmetterle con un’occhiata la sua estrema gratitudine per quel gesto per nulla scontato e che in qualche modo suggellava il loro rapporto, dandogli finalmente la connotazione di un’amicizia. Mimò un grazie con le labbra mentre Helena ed uno stormo di sfarfallanti peluche colorati si dirigevano verso il lettino di Lucréce, il viso di lei deformato da un’espressione funerea che tradiva la difficoltà di essere vicina ad Hugo in quel momento. Non potè quindi che esserle sinceramente grato, conscio dell’enorme sforzo che stava chiedendo alla ragazza cui non era nemmeno legato da un rapporto di profonda intimità. Tutto sommato avrebbe potuto negargli il suo aiuto, voltare le spalle alla sua richiesta e tornare a sedersi mesta sulle scomode sedie del corridoio, prendendosela senza motivo con ogni guaritore di passaggio. Invece era lì, in piedi accanto a lui. La famosa roccia a cui il busto di Hugo si appoggiò per riprendere fiato dopo un’ostica salita. Le cedette il posto al capezzale della bambina, non prima di sfiorare la guancia della piccola con un’altra leggera carezza. Una voce meno ferma di quella che Hugo si sarebbe aspettato raggiunse la bimba, i cui occhi chiari sondarono incerti il viso della ragazza alla ricerca di un indizio circa la sua provenienza. Chissà se si erano veramente già incontrate tra quelle mura pregne di sofferenza. “Oh io..” l’affermazione di Helena lo colse alla sprovvista, cedendogli il merito di quell’incanto forse troppo avanzato per la sua bacchetta. Di nuovo, una silenziosa premura nei suoi confronti. Così sottile da non scomodare l’orgoglio del Serpeverde, scaldandone invece il cuore gelido, stretto in una morsa dolorosa da cui al momento non riusciva a divincolarsi. “Si, molto” rantolò Lucréce, le labbra violacee increspate da un sorriso forzato. Calati gli occhiali a cuore sul viso, Helena proseguì, sollevando Hugo dall’incombenza di dover gestire l’incontro tra le due degenti. Offrì alla piccola un racconto felice, condito da una dolcezza nel tono che stonava con la solita espressione ostile che Hugo era abituato a intravedere sul suo volto. Helena era innegabilmente diversa: indossava una maschera dai lineamenti gentili che pareva aderire perfettamente al suo viso, contagiando con la sua delicatezza anche i modi, ora pacati. La voce flautata trasmetteva una tranquillità che, Hugo ne era convinto, non possedeva, ma riusciva comunque a simulare brillantemente per far forza alla piccola Lucréce. “Helena ha ragione, appena sarà primavera ti ci porto, così vediamo la fioritura dei tulipani” abbozzò, colto alla sprovvista dalla bugia bianca gentilmente servitagli dall’altra. La bambina schiuse le labbra, come ad esprimere un muto consenso verso quella proposta tanto allettante quanto inverosimile. Era chiaro cosa il dottor Green avrebbe voluto comunicargli. Doveva essere chiaro anche a Helena perché si sfilò gli occhiali rosa e li posò sulle tempie di Hugo, svelando lo sguardo rammaricato che aveva finora nascosto dietro le lenti specchiate. Un gesto banale, ma il cui significato non sfuggì ad Hugo, conscio di quanto le costasse separarsi da quell’accessorio distintivo. In qualche modo erano il suo scudo contro un mondo ostile da cui voleva prendere le distanze, per non farsi ferire ancora. Lo comprese in quell’esatto istante, in cui i loro occhi azzurri si incrociarono per una frazione di secondo. Era pronto. Avrebbe atteso l’epilogo proprio così, con un paio di occhiali a cuore calati sul viso e uno stormo di farfalline ad incorniciarli. Fece scivolare la mano lungo il busto di Lucréce cercando la sua, gelida. La strinse con delicatezza, come a volerle trasmettere quel calore che a poco a poco stava abbandonando il suo corpo. Sapeva che sarebbe stato inutile lottare contro un destino ineluttabile. L’aveva fatto per mesi, entusiasmandosi per ogni progresso, incanalando le energie per tenere viva quella speranza che lo aveva tenuto sveglio intere notti. Quell’Hugo, ormai, apparteneva ad un passato da cui ora si sentiva più che mai distante. Il ricordo delle giornate ai piedi del letto di Lucréce a pregare perché si risvegliasse appariva ora sfocato, come se lo stesse guardando attraverso un vetro appannato. La resa era l’unica opzione rimasta. Strinse più forte la manina e avvicinò il capo a quello di lei, posando le labbra sulla fronte pallida. Il contatto con la pelle calda di Hugo le fece schiudere le palpebre, un gesto che compì con indicibile fatica. Per un interminabile istante i loro occhi si incontrarono: un mare calmo che si specchiava nello stesso mare, ma in tempesta. Avrebbe voluto dirle di non avere paura, che non sarebbe stata sola lungo il cammino, ma rimase invece in silenzio, perso nell’azzurro di quell’abisso da cui difficilmente sarebbe risalito indenne. Poi il buio. Le palpebre di Lucréce calarono per donarle quel sonno ristoratore che il suo corpo agognava da mesi. Una lacrima le bagnò una guancia, scivolata da sotto una lente rosata. Ora era solo, solo davvero. Dimenticò perfino della presenza silenziosa di Helena al suo fianco. Continuò a fissare il corpo esanime della bambina, senza che altre lacrime seguissero la prima, ancora posata sulla sua guancia candida. Non vi erano davvero più ragioni per militare su quella terra, in un secondo la vita aveva completamente perso di significato.
     
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    Chiudere gli occhi. Quando la paura l'assaliva o il dolore diventava troppo cospicuo da sopportare, lo faceva. Si illudeva di poter nascondersi dietro le palpebre serrate come un bambino che cerca riparo sotto le proprie coperte. Le sue palpebre erano coperte troppo sottili per difenderla dal male in cui era immersa e per quanto si sforzasse di fingersi forte, le schegge di dramma che la circondavano, finivano con il ferirla sferzandole il corpo e l'anima. Tutto quel che era riuscita a fare quando aveva intuito che la situazione stesse velocemente peggiorando, fu chiudere gli occhi. Diede le spalle a quella scena, mentre a capo basso, chiudeva i pugni ed attendeva che la morte lasciasse quella stanza. Ogni secondo sembrò durare in eterno. Il muto dolore del Dubois si protrasse all'infinito, sfilacciandosi in mille fili di sofferenze. Quel che accadde dopo non avrebbe saputo spiegarle. Il tempo sembrò essersi dilatato e al contempo perdere i propri connotati. Troppo tempo dopo, o forse troppo poco, i guaritori li avevano liquidati con parole vane e futuri promemoria. Helena era altrove. Il suo sguardo vacuo mentre la sua mano, in modo del tutto involontario, continuava a stringere la mano di Hugo. L'unico modo che il suo inconscio aveva trovato per dare all'altro supporto.
    Non seppe dire quanto tempo fosse passato quando si ritrovarono nella sua stanza. Lei seduta sul suo lettino, le gambe ciondoloni, lui lì accanto. Le sarebbe piaciuto essere una di quelle ragazze capaci di dir la parola giusta al momento giusto, ma nonostante le apparenze si sentiva sempre fuori posto. Anche in quel momento.
    Restò quindi in silenzio a mordersi l'interno di una guancia, fino a quando non riuscì a trovare il coraggio di esporsi. Donare all'altro un pezzo di sé così come Hugo aveva fatto con lei. «Sono un casino nei rapporti.» Una verità assoluta in definitiva intuibile. Erano poche le conoscenze positive tra le mura di Hogwarts e persino il rapporto con Hugo non era nato nel migliore dei modi. «Riesco sempre a rovinare tutto ed in modo molto naturale.» Fece spallucce, aggiungendo quelle parole. Non era la sua compassione che cercava. Voleva solo lasciarsi scoprire. Dare ad Hugo la certezza di avere dinanzi una persona vera e non una maschera. Non era la vipera di Durmstrang a parlare, ma solo Helena. Una bambina dagli scarponi grossi che fingeva d'essere adulta. «Forse non sono la persona migliore tu potessi avere al tuo fianco adesso ma... sono qui. E anche domani. Ogni qualvolta tu lo voglia.» Lo guardò sperando lui facesse lo stesso. Non nascose le lacrime di empatica commozione che le bagnavano il volto. Né riuscì a frenare la sua mano e contro ogni pronostico vista la sua reticenza al contatto fisico, tornò a stringere la sua. «E quando a breve avrò diciotto anni, ti porterò a bere così tanto da svuotare il conto degli Haugen. E della mia parola ti puoi fidare. » Provò a stemperare il dramma con una promessa, nella speranza di dargli l'idea che per quanto cupa, lì fuori l'aspettava la vita. E lei l'avrebbe sostenuto in quel nuovo cammino.

     
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