You are the sunshine of my life

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    20 Luglio – Londra
    Le giornate scivolavano pigre una dopo l’altra, simili ma rassicuranti nella loro ripetitività. Difficile distinguere un lunedì da un sabato ora che le lezioni erano finite, ma il bello delle vacanze è proprio questo: nessuna sveglia, nessun obbligo. Il ritmo di quei giorni sonnacchiosi era sancito da un unico, imprescindibile impegno. Un appuntamento quotidiano che Hugo non avrebbe mancato per nulla al mondo. Nemmeno se si fosse svegliato in compagnia della bionda più attraente di Londra e questa gli avesse proposto di replicare le gesta notturne nelle dodici ore successive. Aveva approfittato dell’offerta di Andreas e si era trasferito nel suo appartamento londinese al termine delle lezioni, consapevole che avrebbero condiviso gli spazi al massimo per qualche giorno. Apparentemente la dea bendata aveva deciso di strizzargli l’occhio perché il piccolo loft dell’amico si trovava a pochi minuti dal luogo del suo pellegrinaggio giornaliero. No, non stiamo parlando del locale che serve il miglior whisky della capitale e nemmeno della biblioteca magica di Diagon Alley, in cui comunque sovente si rifugiava. La direzione dei suoi passi ogni mattina alle undici è il grande magazzino abbandonato di Purge & Dowse, da cui si accede all’ospedale magico più famoso del Regno Unito. Lì, al terzo piano nella centoquattresima stanza una fanciulla dai lineamenti eterei attende ogni giorno il suo arrivo. Da quando il quadro clinico di Lucréce è notevolmente migliorato, i medimaghi hanno permesso le visite ai parenti. Inutile dire che Hugo abbia preso alla lettera tale concessione, presentandosi ogni mattina, puntuale come un orologio svizzero, ai piedi del suo letto. La piccola, dopo mesi di agonia in cui il suo cuore batteva forse per miracolo, aveva da pochi giorni ripreso i sensi, riconoscendo i volti e riuscendo perfino a spiccicare qualche parola. Ogni progresso, ogni seppur impercettibile miglioramento veniva accolto da Hugo con un ottimismo contagioso. Per tre lunghi mesi aveva atteso di ricevere una notizia positiva, scivolando sempre più in un baratro di inquietudine e indicibile agonia. Ogni giorno ripeteva il mantra “nessuna nuova buone nuove”, senza però crederci realmente. Ecco quindi giustificata la sua presenza lì, quella mattina di fine luglio. Ormai conosceva a menadito la prassi per accedere all’ospedale, tanto che attraversò meccanicamente la finestra ritrovandosi catapultato nell’atrio illuminato a giorno. Salutò con un cenno del capo le due streghe alla reception e si avviò al terzo piano. All’ingresso del reparto una targa recitava “Malattie Magiche” e un mago dall’aria affabile gli rivolse un ampio sorriso di benvenuto. “Devo visitare la stanza centoquattro, sono il fratello” comunicò all’infermiere. Aveva ripetuto così tante volte quella frase che sentiva sarebbe rimasta impressa nella sua memoria per sempre. “Vieni caro, da questa parte” gli intimò il mago regalandogli l’ennesimo sorriso affabile. “Conosco la strada, grazie” replicò Hugo affrettando il passo. Aveva solo un’ora di tempo e non aveva intenzione di perdere nemmeno un istante. Superò un paio di medimaghi che discutevano sommessamente e urtò una signora in evidente sovrappeso che tentava invano di incantare la serratura dei bagni. “Lucy!” sussurrò una volta varcato l’ingresso. Trovò la bimba adagiata su un paio di soffici cuscini, il viso pallido solcato da pesanti occhiaie brune ma gli occhi vispi, animati dal desiderio di riprendere a vivere un’esistenza normale. “Ti aspettavo” mormorò la piccola in un fil di voce, adagiando la guancia sul petto del ragazzo. Hugo la strinse delicatamente a sé e le carezzò il capo. Della bambina vivace ch’era un tempo era rimasto solo un corpo fragile e un paio di occhi spenti. “Non mancherei mai il nostro appuntamento, Lucy” le rispose dolcemente affondando le labbra tra i capelli scompigliati per stamparle un bacio leggero. “E’ arrivata una nuova infermiera ieri, è molto bella sai” era evidente che parlare le costasse parecchia fatica, ma sentire il suono seppur flebile della sua voce era come un balsamo per il ragazzo, che non riuscì ad intimarle di riposarsi. “E’ anche molto carina con me, ieri sera mi ha mostrato degli animali disegnati che si muovono e parlano. Stanno dentro una scatolina nera, ma non li puoi tirare fuori e se gli parli non ti rispondono, però puoi sentirli. E’ come sbirciare da una finestra” spiegò la piccola, sistemandosi più dritta sui cuscini. Hugo sorrise all’originale descrizione di Lucy di uno smartphone e dei cartoni animati babbani. “Ti prometto che appena esci di qui ne prendo uno tutto per te, così la sera prima di addormentarti sbirciamo insieme dalla finestrella, che dici?”
     
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    Danielle Richards | I anno | Corvonero


    Ellie
    Entrai canticchiando nella hall dell’ospedale, questo era il mio primo vero giorno di lavoro al San Mungo ed ero su di giri dall’emozione. Il giorno prima lo avevo passato di formazione: le regole e le varie procedure che per me sarebbero state tassative da sapere oltre alla consegna di badge – “Danielle Richards, tirocinante” – e della divisa con camice da medimago la cui tasca bordata d’azzurro segnalava il mio stato di apprendista. Ero l’apprendista di Jonathan Bennet, niente poco di meno, tra l’altro, anche mio “zio” adottivo. Era proprio grazie a lui ed alla sua influenza se mi trovavo lì e non avrei sprecato nemmeno un singolo istante di quell’esperienza che mi gonfiava il cuore. Ormai era chiaro che il mio futuro sarebbe stato tra quelle pareti, non che avessi dubbi in merito, avevo già dimostrato una certa propensione alla materia quando ancora studiavo negli istituti babbani ma, entrare proprio al San Mungo, percepire la magia tra le sue pareti, osservare i guaritori all’opera che lavoravano in sinergia con i loro studi scientifici mixandoli con quelli della medicina magica era come… una ventata d’aria che mi faceva sentire completa. Stringo il mio blocchetto degli appunti riguardando le procedure che devo assimilare e mi preparo al turno della giornata. Ieri pur avendo finito presto mi sono intrattenuta ben oltre l’orario, tanto zio era di turno e non mi pesava aspettarlo per tornare poi a casa insieme. Così, con il mio tesserino in bella mostra che mi spalancava le porte mi ero data da fare per qualche compitino extra come, ad esempio, fare la conoscenza di qualche paziente ed aiutare il personale infermieristico nella somministrazione dei pasti. Tanto che dovevo fare a casa se non niente? I miei genitori se si facevano sentire era pressoché per lettere striminzite di pochissime righe, come se non avessero niente da dire alla loro unica figlia che però si era macchiata di quel terribile errore di giacere con un insegnante, sembrava che mi avessero diseredata per un misero errore alla quale avevo posto “rimedio” così come era stato desiderio di mia madre che però, persisteva nel mantenere il suo broncio severo come se quanto fatto fino a quel momento non fosse stato sufficiente e, cosa peggiore, mio padre le andava dietro in quella pantomima cercando di ricavare informazioni da Jon piuttosto che tentare un canale di dialogo con me. Ero frustrata, amareggiata da tutta quella situazione e come se non bastasse si era messo anche Mat con il suo dannato silenzio a rendere le cose maggiormente difficili. Zio aveva provato a chiedermi qualcosa in merito ma io deviavo il discorso incapace di dargli una risposta soddisfacente. Non si faceva sentire e io non ne avevo la più pallida idea del motivo… la cena ed il successivo appuntamento sulle rive del Tamigi erano andate bene eppure il bel soldato era scomparso lasciandomi anch’esso privo di risposte. Quindi eccomi lì a buttarmi a capofitto nel lavoro, a mandar lettere alle mie sorelle e a godermi il tempo con Jon mentre a lavoro mi immergevo completamente in quella che era la mia vocazione a tal punto che la sera prima avevo fatto la conoscenza con una bambina: Lucrèce. Lucrèce aveva solo sette anni ma aveva completamente rapito il mio cuore. A dispetto della sua malattia che la rendeva pallida e debole aveva un forte spirito e irradiava bontà e calore. Un vero peccato che una bambina così piccola fosse minacciata da una sorte tanto avversa. Avevo letto la sua cartella, appesa ai piedi del letto, e la prognosi era strettamente riservata. Al momento la bimba si trovava in una fase della malattia – al momento sconosciuta – quasi regressiva dove l’aggressività dei sintomi sembrava aver regalato un momento di tregua alla piccola ma i medici rimanevano molto scettici. Ne avevo scorti alcuni in corridoio, le lunghe facce tetre mentre si confrontavano sul caso e proprio incuriosita da quello mi ero recata nella stanza a curiosare. Avevo subito stretto con la piccola che attenta seguiva i giochi che le proponevo atti a stimolarle la mente donandole qualche sorriso in tutto quel grigiore. Ero rimasta con lei fino a sera, quando gli occhi si erano fatti pesanti e aveva abbandonato la stretta sul mio cellulare dove le avevo lasciato guardare un cartone animato. Zio Bennet mi aveva trovata lì così, mentre le accarezzavo i capelli. A casa poi ne avevamo parlato ma con mio sommo dispiacere aveva scosso la testa chinando il capo, nemmeno lui poteva nulla di fronte a quel mistero.
    «You are my sunshine, my only sunshine / You make me happy when skies are gray» fischiettai per il corridoio diretta proprio alla stanza della mia piccola paziente preferita. «Hey fiorellino come stai questa mattina?» entro carica nella stanza trovandomi a sorpresa la presenza di Hugo, mio compagno di corso. «Hugo… che… ?» Non termino la domanda che istantaneamente mi torna alla mente il cognome della piccola: Dubois. Presa com'ero dal quadro clinico nemmeno mi ero soffermata al collegamento con il cognome che ora mi era più che chiaro: la piccola doveva per forza essere sua sorella e lei, entusiasta me lo conferma. «Benissimo! Il mio fratellone è venuto a trovarmi!» le sorrido di cuore, la piccola è una forza della natura a rispondere così nonostante i pesanti cerchi violacei sotto agli occhi. «Ma dai? Ma lo sai che io e Hugo andiamo a scuola insieme?» Le faccio a mia volta con magari un po' di eccessivo entusiasmo, giusto per animarla, poi mi rivolgo proprio a lui anche se sono un po' in imbarazzo. A scuola non abbiamo avuto modo di parlare moltissimo mantenendo un certo distacco nonostante gli avessi curato la mano. «Non immaginavo che lei… Come stai?» Forse non è la domanda migliore visto il contesto ma non so bene che dire così mentre lui abbozza una risposta io intanto mi dedico alla piccola. «Hey Lucy adesso con questo» le mostro lo stetoscopio che porto al collo «sentiamo come va il cuoricino, va bene?» la piccola annuisce ed io mi calo su di lei auscultando il battito. «Mio zio lavora qui… Mi ha offerto uno stage…» dico quando mi risollevo per giustificargli un po' la mia presenza lì. La manina di Lucrèce mi tira per la manica «Posso vedere gli animali nella finestra?» Le sorrido e incapace di un rifiuto mi volto in cerca di Hugo chiedendogli tacitamente il permesso.


    Edited by .Ellie - 21/9/2021, 19:22
     
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    Gli occhi di Hugo erano ancora posati sul gracile corpicino di Lucréce quando qualcuno entrò silenziosamente nella stanza. Ne avvertì la presenza dal leggero spostamento d’aria alle sue spalle ma non si scomodò per verificare chi fosse. Lucrèce cominciava ad accusare la stanchezza e avrebbe vegliato su di lei fino a che Morfeo non l’avesse accolta tra le sue braccia. Nessuna distrazione al mondo lo avrebbe convinto a distogliere lo sguardo dalla piccola, avviluppata in un camice bianco decisamente troppo grande per lei. Avrebbe continuato ad ignorare l’individuo, forse un infermiere o un inserviente, se questi non avesse fatto esplicitamente il suo nome. La voce, poi, non era quella solita del medimago che si occupava di Lucy e che periodicamente informava Hugo sui suoi, seppur minimi, progressi. No, era una voce femminile, calda e..familiare? Fu proprio questo a convincere il Serpeverde ad abbandonare per un istante il corpo esausto di Lucy, adagiandolo delicatamente sul lettino, per ruotare il busto verso l’interlocutore. Un viso dai lineamenti squisitamente latini gli rivolse un mezzo sorriso in cui Hugo lesse una punta di imbarazzo. “Danielle?” le domandò incredulo sgranando gli occhi chiari. Non fece nemmeno in tempo a rendersi conto di cosa Ellie avesse appena dedotto circa la sua vita privata che quella cominciò a dialogare con Lucréce. Si accorse solo in quel momento che la ragazza non indossava abiti comuni, bensì un camice candido. Il primo pensiero che gli passò per la mente fu che anche la Corva fosse ricoverata tra quelle mura e trascorresse le sue giornate a zonzo nei corridoi per ammazzare la noia. “Davvero? Quindi lo sai anche tu che mio fratello è bravissimo, da grande diventerà un pozionista proprio come papà” ululò Lucréce, evidentemente su di giri. Hugo rimase nuovamente interdetto, da un lato felice di vedere la vita scorrere nella piccola bimba, dall’altro confuso ed investito da un’ondata di sentimenti contrastanti. Si sentiva sicuramente vulnerabile, esposto. Nessuno al castello sapeva che sua sorella vivesse in un ospedale magico, lottando ogni giorno per la vita. Fece per chiedere alla compagna come mai si trovasse da quelle parti quando l’occhio gli cadde sul tesserino appeso al taschino del camice: apprendista. Quindi non era una paziente ma una tirocinante e come tale presuppose che conoscesse a menadito il quadro clinico di Lucy. Cercò invano di scrollarsi di dosso l’orribile sensazione di vedere violata la propria privacy e tentò di rispondere alla domanda di Ellie. “Non lo sa nessuno” tagliò corto. Non era sua intenzione assumere un tono così brusco, ma toccare quel tasto era particolarmente doloroso e sicuramente imbarazzante. Riservato com’era, si sarebbe buttato dalla torre di astronomia piuttosto che rivelare a qualcuno cosa turbasse così profondamente il suo animo negli ultimi mesi. Certo, con quelle quattro parole il ragazzo aveva appena rivelato a Danielle quanto l’argomento fosse delicato per lui tanto da non averne fatto parola nemmeno con i suoi migliori amici. Cazzo! Solitamente così riflessivo, in quel frangente aveva dimenticato di collegare la bocca al cervello e aveva sputato quella frase senza riflettere. “Io…sto” cos’altro avrebbe potuto dirle? Era evidente che stesse male, le ombre violacee sotto gli occhi di Lucy erano le stesse che cerchiavano anche i suoi occhi. La ragazza fece per chinarsi sulla piccola esibendo uno stetoscopio, così Hugo ne approfittò per alzarsi e mettere distanza tra loro. Abbandonare la manina della bimba non fu semplice, ma preferì non far capire a Danielle quanto fosse forte il loro legame, così da non farle percepire la reale entità della sua sofferenza. “Quindi hai passato l’estate qui?” domandò senza interesse fissando il vuoto davanti a sé. “Pensavo fossi in vacanza con Mat” buttò lì un argomento qualsiasi. Il compagno di boxe era stato molto vago su come avrebbe trascorso i tre mesi d’estate, ma in uno degli ultimi incontri in palestra gli aveva confessato di avere una relazione proprio con ragazza di fronte a lui.
     
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    Danielle Richards | I anno | Corvonero


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    «Oh siiii, io e tuo fratello facciamo sempre a gara a chi è più bravo e lo è davvero tanto!» Esclamo con entusiasmo scompigliandole i capelli ramati, le sorrido poggiandole lo stetoscopio sul petto auscultando con attenzione i battiti lenti e zoppicanti. Non mi piace quella debolezza, quell’incespicare faticoso del muscolo che si contrae e attende qualche attimo prima di strizzare nuovamente il sangue in circolo. Piego le labbra in una linea retta mordendomele all’interno e abbozzando un sorriso verso la bambina appunto nelle note quel check sui parametri vitali: la pressione è bassa, i battiti rallentati e aggiungo nelle note il battito faticoso del cuore. Non mi piace, non mi piace per niente. «Che dici ci riposiamo un po’?» Le mormoro tirando il copriletto, Lucrèce agita il sederino contro il materasso e mi allunga la mano chiedendo nuovamente la finestra con gli animali, allora le rimbocco le coperte e solo dopo averla sistemata nel letto le poggio il cellulare sul vassoio dei pasti appoggiato contro la bottiglietta d’acqua. La musichetta del programma per bambini aleggia nell’aria e di tanto in tanto le risatine di Lucréce attirano la mia attenzione portandomi a volgerle un’occhiata di controllo. «Non lo sa nessuno» mi dice bruscamente Hugo e tutto nella sua postura mi indica quanto sia a disagio in quella situazione. «Va bene Hugo, manterrò il segreto se è questo che vuoi. Qui Lucréce è una mia paziente e sono tenuta al segreto professionale» specifico con dolcezza. Sono sicura che il Serpeverde sappia alla perfezione queste nozioni ma reputo che ripetergliele possa solo che tranquillizzarlo in questo momento. Non intendo divulgare questa informazione poiché per prima cosa è una questione assolutamente sua, personale, ed in quanto mio paziente sono coperti dal segreto e seconda cosa sono fatti suoi, non miei, non ho nessun diritto di raccontare in giro i fatti suoi come su quello stupido giornalino che gira per la scuola. Ma lo rassicuro se è questo che vuole sentirsi dire nonostante sappia benissimo il mio modo di lavorare; solo pochi mesi prima gli ho curato la mano senza battere ciglio e senza che nessuno – oltre a noi e Christian – sapesse di quanto successo. Lo affianco alla finestra e lo osservo mantenere lo sguardo oltre il vetro che da verso l’ampio parcheggio del centro commerciale abbandonato, non sta guardando qualcosa di preciso, tiene semplicemente lo sguardo puntato come se stesse cercando di ricomporsi da quella violazione. «Io… sto» annuisco con solennità, d’altronde la mia domanda è assolutamente inutile considerando che sua sorella verte in una condizione clinica sconosciuta e che ha l’aria di essere irrisolvibile oltre che mortale. «Capisco» sussurro in un soffio incapace di dir altro. Mi piacerebbe potergli dire che “andrà tutto bene” oppure quanto siamo vicini ad una soluzione o anche solo semplicemente sapere cosa affligge la piccola ma nulla nelle mie conoscenze e peggio ancora in quelle di mio zio mi permettono una tale uscita. Rimango in silenzio abbassando lo sguardo. Dal lettino non provengono più suoni e mi volto a guardare. «Si è addormentata» mormoro a bassa voce apposta per non svegliarla. Un sorriso genuino mi increspa le labbra. «È una bambina fantastica» ed è ingiusto che sia costretta così. Mi volto nuovamente a fissarlo e per un secondo incrocio i suoi occhi azzurri. «Quindi hai passato l’estate qui? Pensavo fossi in vacanza con Mat» involontariamente dalle labbra mi sfugge un colpo di tosse sardonico. Sì Mat, il mio… cosa? Ragazzo? Quello che non sento da un mese abbondante? Posso e devo ancora definirlo così? Mi tocco la fronte socchiudendo gli occhi. «Sto… da mio zio. Lui lavora qui e…» m’interrompo gliel’ho già detto. Sospiro. Che gli dovrei raccontare di Mat? E lui cosa sa? «Noi… uhm…» è percepibile quanto sia in difficoltà anche perché non ho davvero la più pallida idea di cosa raccontargli: il nostro ultimo appuntamento era andato alla perfezione, alla grande come i precedenti. La scintilla si era accesa divampando nel classico incendio che ci investiva quando eravamo assieme e solo grazie – o per colpa – del coprifuoco che vigeva ad Hogwarts non ci ero andata a letto. Col senno di poi forse era meglio così, probabilmente a quest’ora ci sarei stata peggio se lui fosse sparito dopo essermi concessa… avrebbe dimostrato che quello fosse il suo obiettivo sin dall’inizio nonostante le belle parole di Dillon. A proposito, grazie Dillon, fortuna che me lo meritavo eh?!
    «Ci siamo presi una pausa» scrollo le spalle tentando un sorriso. Va bene così, pazienza, me ne farò una ragione. Probabilmente sarò fortunata altrove visto quanto mi va male in amore! «Comunque sì starò da mio zio fino ai primi di agosto poi andrò una settimana da Karen in Irlanda e poi in Alaska con Sky e V… tu… rimani qui o riesci a farti qualche giorno?» È difficile domandare, potrei essere indelicata vista la situazione ma magari il Serpeverde è riuscito a ritagliarsi qualche giorno fuori città con i suoi amici, Christian ed Oliver, so da Skylee che sono compagni di stanza e durante i pasti in Sala Grande sono quasi sempre seduti assieme… un po’ come noi ma in versione maschile. È bello abbia degli amici a distrarlo, non deve essere facile quando un tuo caro lotta tra la vita e la morte e mi chiedo se i due sappiano di sua sorella. «H-hai letto dell’esame di fine mese? Ti è arrivato il gufo?» Esordisco di punto in bianco quando il silenzio si fa troppo pesante.
     
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    Voltò le spalle alle due quando Ellie estrasse lo strumento per monitorare i battiti della piccola. Aveva imparato fin troppo bene ad interpretare i micro movimenti dei muscoli facciali, impercettibili ai più, e se la Corvonero avesse avvertito un’anomalia glielo avrebbe letto immediatamente sul volto. In questi casi preferiva infilare la testa sotto la sabbia e mettere a tacere la petulante vocina nella testa che gli ricordava ad ogni visita quanto fosse effimera la sua gioia. Sarebbe bastato un solo valore sballato, un solo parametro non perfettamente in linea con la media per far crollare il castello di speranza che Hugo aveva costruito in quelle settimane, mattoncino dopo mattoncino. In un paio di passi raggiunse la finestra e si prese qualche istante per ispezionare il parcheggio semivuoto ai loro piedi. Non si era mai chiesto cosa si vedesse da laggiù, né che tipo di magia fosse stata castata sull’edificio affinchè non risultasse visibile agli occhi dei Babbani. Non che fosse realmente interessato a conoscere questo tipo di dettagli, ma in quei frangenti qualsiasi scusa era buona per tenere la mente impegnata. Udì la piuma di Danielle grattare febbrilmente sulla pergamena: era il segnale che il monitoraggio era terminato e poteva tornare ad interessarsi alla piccola degente. La ragazza non fece parole di ciò che aveva captato ed Hugo si ostinò ad evitare il suo sguardo per non cogliervi pietà o tristezza. Lasciò che le accomodasse i cuscini dietro la schiena e sintonizzasse il cellulare sul suo programma preferito. Una musichetta dai toni allegri invase la stanza, in netto contrasto con la desolazione di quell’ambiente asettico. “Grazie” mormorò secco avvicinandosi al lettino per sedersi accanto a Lucréce. Da un lato avrebbe voluto cacciare via Ellie, pregarla di lasciarlo solo con la bambina a godersi gli ultimi preziosi minuti di visita, dall’altro, invece, la sua presenza era in qualche modo rassicurante. Non seppe spiegarsi il motivo, ma i suoi gesti decisi e le sue parole misurate le conferivano un’aura professionale, tanto da non distinguerla dai veri infermieri. L’episodio della mano nel dormitorio fece prepotentemente ingresso nel suo cervello, rimembrandogli quanto in quell’occasione Ellie fosse stata discreta e poco incline a fargli domande circa l’accaduto. Non che i suoi ricordi fossero del tutto affidabili dato il mix letale di alcol, erba e pozione fallata, ma potè dirsi piuttosto certo che la mora non aveva fatto parola con nessuno del suo pietoso stato di salute. A ben pensarci era una delle poche, se non l’unica, al castello a sapere così tanto sul suo conto. Avevano parlato non più che in un paio di occasioni, ma per qualche strano scherzo del destino la Corvonero si era ritrovata coinvolta nella vita di Hugo più di quanto il ragazzo avrebbe mai potuto lontanamente immaginare. Sbattè convulsamente le palpebre per arrestare quel fiume di pensieri e posò il palmo della mano sul capo di Lucrèce, modellando le dita sulla rotondità della nuca. Gli occhi della piccola erano già chiusi da un pezzo: il suo corpo debole non le permetteva di farla interagire a lungo con i visitatori. Osservò in silenzio il suo viso smagrito, posando lo sguardo ora sulle guance incavate, ora sugli zigomi fin troppo pronunciati. Sebbene odiasse Morfeo per averlo privato della sua vocina limpida, in cuor suo era felice che Lucréce trovasse pace nel sonno, immaginando che potesse attraverso i sogni vivere l’infanzia che le era stata negata. “E’ molto forte” commentò distrattamente abbassando lo sguardo al pavimento. Spostò poi l’attenzione sulle vacanze estive, intenzionato a non toccare di nuovo l’argomento Lucréce. Alla semplice domanda sul soldato Ellie rispose dapprima in maniera piuttosto vaga, la voce tremolante che tradiva un certo nervosismo, poi con una frase risolutiva, probabilmente dopo aver recuperato un po’ di autocontrollo. A quanto pareva il bel siriano aveva messo un punto alla loro relazione, o forse era stata Ellie stessa a troncare. Non che gli interessasse sapere i dettagli, tutt’altro, ma si aggrappò comunque a quello spunto di conversazione pur di deviare il focus del discorso dalla ragione della sua visita al San Mungo. “Oh beh, non ti sei persa niente, temo che la guerra gli abbia lasciato parecchi traumi, com’è comprensibile. E..beh, forse il ruolo di crocerossina ti si addice” lanciò un’occhiata fugace al camice “ma sono certa che a lungo andare ti saresti stancata. Non è facile avere una relazione con qualcuno che vede scoppiare bombe e morire persone davanti ai suoi occhi”. Si stupì di quello sproloquio su Matei, ma avvertì forte l’istinto di rassicurare la Corvonero, vuoi per riconoscenza nei suoi confronti per le cure amorevoli a Lucrèce, vuoi per la complicità che involontariamente si era creata tra i due dopo che era venuta a conoscenza del suo segreto. “Ah Karen, la ex di Stefan” commentò rimanendo vago. Non avrebbe certo compromesso ulteriormente la sua immagine di maschio alfa raccontando dell’abbraccio istintivo alla piccola grifondoro. “Io a dire il vero sono ospite da Mat” le comunicò, non senza una punta d’imbarazzo. “Mi ha lasciato il suo piccolo loft qui a Londra mentre è in missione non so dove. Fra qualche giorno mi raggiungeranno anche Oliver e Chris, credo gireremo perlopiù per locali, sai le solite cose” minimizzò infilandosi una mano tra i capelli. Il respiro di Lucréce al suo fianco si era fatto pesante e di tanto in tanto produceva un piccolo sbuffo sonoro che spezzava i momenti di silenzio. “Esame? Quale?” tornò rapidamente alla realtà distogliendo lo sguardo dal viso beato della piccola. Non aveva ricevuto nessun gufo, quindi dedusse che Ellie si riferiva a qualche corso opzionale a cui aveva deciso di non partecipare. Di tanto in tanto i professori proponevano materie come Antiche rune o Babbanologia, rinominata dai più fuffologia a causa dell’inutilità dei suoi contenuti. Scrollò le spalle, in quel momento nulla gli importava meno della scuola. Sarebbe potuto essere bocciato, e per uno studioso come lui normalmente avrebbe rappresentato un’onta, che non gliene sarebbe fregato minimamente. L’unica cosa rilevante non era una cosa, e distava circa dieci centimetri dal suo braccio sinistro. “Direi che non si sveglierà tanto presto” commentò cambiando repentinamente discorso “quindi per oggi la mia visita può finire qui”. Si alzò in piedi facendo attenzione a non far ondeggiare il materasso, prese la bacchetta dal comodino e quando fece per congedarsi da Ellie si ritrovò a tentennare. Chris e Oliver non sarebbero arrivati prima di un paio di giorni, Mat era chissà dove e l’unica cosa ad attenderlo era un appartamento vuoto in cui avrebbe avvertito ancor più il peso della solitudine. Senza quasi rifletterci voltò bruscamente il capo e intercettò gli occhi scuri della Corvonero. “Ho delle birre in frigorifero” non aveva la forma ufficiale di una proposta ma era piuttosto chiaro che si trattasse di un invito. La conversazione con Ellie lo aveva distratto a tal punto da essersi ritrovato a desiderare di non interromperla. “La casa la conosci già” la schernì esibendo un sorrisetto beffardo. Non aveva nemmeno riflettuto sul fatto che la mora stesse ancora lavorando e che potenzialmente poteva dover rimanere al San Mungo ancora per parecchie ore.
     
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    Danielle Richards | I anno | Corvonero


    Ellie
    Arrossii, non potei fare altrimenti a quelle parole. Non avevo ben capito se quelle pronunciate da Hugo fossero un complimento o una sorta di frecciatina velata ma fu il mio corpo a reagire per me. Il sangue fluì alle guance, depositandosi in due grandi pomelli rossi. Abbassai lo sguardo, sapevo del passato di Andreas e mi aveva raccontato che in qualsiasi momento lo avrebbero potuto richiamare a Damasco a combattere ma, insomma, ero o non ero la sua ragazza? Lui sosteneva tipo di sì, che il rapporto era in quella direzione nonostante non avessimo trattato di quell’argomento. Preferivamo vivercela con leggerezza condividendo il tempo l’una con l’altro, tempo che pareva essersi interrotto... così, di punto in bianco e senza la benché minima spiegazione da parte sua. «Ma sono certo che a lungo andare ti saresti stancata» continuò Hugo profetizzando sulle mie decisioni. Aggrottai le sopracciglia scostando lo sguardo da lui alla sorellina che dormiva serenamente, ignara dei nostri discorsi, nel suo letto d’ospedale e sentii una punta d’irritazione corrodermi al centro del petto. Chi glielo diceva a lui che mi sarei stancata? E perché? Io e Mat stavamo bene insieme, nonostante le cicatrici visibili e non sul suo corpo. Li avevo visti i tagli rimarginati all’altezza del petto, non era servito chiedere per capire come se li fosse procurati ed io non avevo voluto riaprire una ferita forse fresca del suo passato. Avrei capito, ecco. Ma quel silenzio, quell’impasse nella nostra situazione... ecco quello non mi piaceva. Non mi piaceva affatto non sapere che fine avesse fatto. «Sì lei, esatto. Mi ha parlato così tanto della sua Irlanda che finalmente darò una forma a quei paesaggi» abbozzai un sorriso parlando della mia piccola grifoncina dai capelli rossi. Mi mancava tantissimo e mancavano ancora più di due settimane al mio volo per la sua terra, l’avrei abbracciata strettissima una volta atterrata e non l'avrei lasciata andare per nulla al mondo! «Ah. N-non immaginavo foste così amici» mormorai sbattendo le ciglia un paio di volte interdetta. Cercai di scavare nella mia mente nel tentativo di evocare un qualche ricordo del soldato che mi parlava di lui ma no, proprio non aveva mai menzionato Hugo e tantomeno che avesse ospiti per l’estate. In realtà mi aspettavo una qualche proposta da parte sua... che so, un fine settimana fuori porta solo io e lui o, nel caso avesse avuto ferie, magari proprio una settimana solo noi da qualche parte ma evidentemente il soldato non la pensava allo stesso modo. «Addirittura» mi mordicchiai il labbro, forse quel commento non avrei dovuto lasciarmelo sfuggire ad alta voce ma la mia lingua mimò le parole ancora prima che il mio cervello potesse bloccare quella cazzata. «Oh non distruggetegli la casa, l’ha presa da poco» allargai un sorriso conoscendo fin troppo bene quelli che erano i suoi concasati nonché migliori amici, poteva definirli così? Oliver era letteralmente un caso umano a cui giravo onestamente alla larga. Mi era bastato averci a che fare mezza volta per rabbrividire di disgusto per i suoi modi viscidi mentre Chris, beh, Chris lo conoscevo fin troppo bene e sapevo benissimo quali erano i suoi standard di divertimento. Il mio sorriso si fece più tirato. Non ero in buoni rapporti con quest’ultimo, il suo gufo che mi avvisava di aver detto tutto a Sky mi aveva presa in contropiede – cazzo poteva anche consultarmi, no? Era stato lui a volere il silenzio! – ed al mio rientro in Alaska avrei avuto anche quella gatta da pelare insieme a tutto il resto.
    Hugo non sembrò sapere niente dell’esame di fine mese così, a disagio, cambiai posizione sulla sedia arrestandomi nel momento in cui Lucrèce si mosse nel sonno. «Quello di fine mese» cominciai cercando di sondare se semplicemente non se lo ricordasse o proprio non lo sapesse. «È arrivato un gufo ancora verso il dieci che annuncia che a fine mese ci sarà un esame speciale che ti permetterà di condensare più anni in uno... passandolo dovresti riuscire a frequentare il terzo da settembre. Figata, no? Almeno non devi fare tutti e sette gli anni previsti. Io lo tenterò... ho già stilato un programma per ripassare tutto quest'anno e studiare quello del secondo per l’esame» non che non lo avessi comunque fatto durante l’anno passato impicciandomi nei compiti delle mie sorelle e aiutandole di tanto in tanto con le relazioni che dovevano consegnare. Hugo sembrava sempre più perplesso, la sua espressione parlava chiaro: non ne sapeva nulla. «Se vuoi posso darti una mano a studiare...?» Gli proposi con voce piccola sperando che non mi rispondesse in malo modo, con Christian era sempre così! Quando volevo dargli una mano con lo studio lui mi assaltava inventandosi ottomila scuse per evitare la cosa o cercando di appiopparmela perché la facessi al posto suo e a volte la facevo pure. Che faccia tosta! Ma Hugo in questo senso mi era più affine, decisamente più dedito allo studio dei suoi compagni di stanza... quasi un Corvonero mancato. Lucrèce sospirò qualcosa nel sonno ed entrambi ci girammo a guardarla. «Sì, i-io dovrei iniziare il mio giro visite...» guardai l’orologio alzandomi alla svelta. Mi sarei dovuta trovare due piani più su in... beh un minuto! «Ho delle birre in frigorifero. La casa la conosci già» era un invito quello? Abbozzai qualcosa, ma dalle mie labbra uscì un suono perplesso. Aggrottai le sopracciglia sbattendo un paio di volte le palpebre. «Porto la cena» dissero quindi le mie labbra prima che me ne rendessi conto.

    ELLIE
    Ma che sto facendo? Dovevo mandargli un messaggio, un gufo e dirgli che avevo impegni! Sbuffo cambiando di posizione il sacchettino del cibo d’asporto. Ho preso un po’ di fish and chips dal pub dall’angolo e non smetto di passarmi da una mano all’altra il sacchetto con la stagnola ben chiusa. Ma come mi è venuto in mente dico io? Ma perché ho accettato poi? Non credo sia una buona idea e sicuro Skylee mi direbbe che sto facendo una giga stronzata se fosse qui, mi aiuterebbe probabilmente anche a trovare una scusa per tirare pacco... se fosse qui. Ma non è qui e ho fatto la cazzata. Mi dirigo a casa del mio ragazzo – ma posso definirlo così?! –, in cui ci sono stata tra le cose una volta sola. Mi fermo sulla soglia, il pugno alzato e mi chiedo per l’ennesima volta perché sono qui. Consciamente so che non è una buona idea andare a casa del mio boh-non-so-nemmeno-se-lo-sia-ragazzo quando lui non c’è ad incontrare un altro ragazzo ma... io e Hugo siamo solo amici, ma forse nemmeno quello... Sicuro conoscenti! Che dovrebbe mai succedere? Poi oh, Mat non mi parla ed è sparito e a Dillon ora come ora non posso chiedere nulla in merito così ecco, mi trovo qui per indagare. Magari sul frigo ha appeso qualcosa che può tornarmi utile no? O magari gli lascio quella lettera che ho scritto per lui qualche giorno fa, in un momento di sconforto e che mi porto dietro ripiegata nel portafogli... magari gliela nascondo da qualche parte. Sì, farò così. Suono il campanello e attendo che l’attuale padrone di casa venga ad aprirmi. «Fish and chips, ho pensato che con le tue birre ci stessero a pennello» esordisco sollevando il sacchetto annodato. Attendo che mi faccia entrare e con un po’ di imbarazzo mi guardo attorno. Non ho ben visto il loft quell’unica volta che ci sono stata, io e Mat eravamo molto presi da altro e ricordo a stento il corridoio dove mi trovo ora. Mi schiarisco la voce, i mobili sono sgombri di ammennicoli e alle pareti non è appeso nemmeno un quadro. Okay, il mio piano di scoprire qualcosa sulla sua scomparsa è decisamente andato a quel paese. Poggio la borsa al gancio dell’appendiabiti e seguo Hugo verso l’angolo cucina che è praticamente un tutt’uno con il salotto. Solo delle scale dividono gli ambienti da giorno con la stanza da letto con bagno annesso. Mi chiedo dove dorma il Serpeverde dato che l’appartamento non ha praticamente stanze. Che gli abbia dato la camera da letto fintanto che non c’è? La camera col... nostro letto? Sento le guance accaldarsi nuovamente.
     
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    Studente Serpeverde
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    Gufo? Esame? Fine mese? Possibile che avesse dedicato tutte le sue attenzioni alla piccola Lucréce tanto da aver dimenticato tutte le altre questioni, importanti ma non di pari livello, come questo fantomatico esame. Hugo era sempre stato uno studente modello, appassionato più della media ma non per questo secchione. In quel momento, però, nulla poteva interessargli di meno di condensare due anni in uno con uno stupido esame. Certo, passare direttamente al terzo avrebbe ampliato le tipologie di incantesimi consentiti, ma se per farlo avrebbe dovuto rinunciare alle visite quotidiane a Lucrèce poteva tranquillamente farne a meno. In fin dei conti quel gufo non era nemmeno mai arrivato a destinazione: lo avrebbe considerato un segno del destino. “Credo non mi sia stata data la possibilità per via della sospensione” ricordò improvvisamente, facendo correre la mente a quel quindici febbraio in cui un cioccolatino avvelenato l’aveva trasformato nell'alter ego del Dr Jekyll. La bravata insieme a Oliver gli era costata una settimana fuori dalle mura del castello, che il Serpeverde aveva pensato bene di trascorrere avvolto nelle lenzuola del letto di Jackie. Non male come alternativa alla scuola, in effetti. “Ti ringrazio comunque per il pensiero” il tono di voce neutro per non tradire la punta di stizza che ne avrebbe altrimenti colorito i toni. Una mano, a lui, per studiare? Punto nell’orgoglio decise di abbandonare rapidamente il discorso, dirigendo la conversazione altrove. Non era il luogo né il momento per ribadire alla Corvonero quanto fosse capace, avrebbe peccato di spocchia e in un certo senso riservare alla ragazza frasi seccate non era nei suoi piani. Danielle si era occupata di sua sorella con una dolcezza che, in tutta onestà, non aveva mai conosciuto prima. Saperla nelle sue mani materne era in qualche modo rassicurante, seppur la mora non era nulla più che una semplice tirocinante. Non l’avrebbe certo guarita, né gli avrebbe potuto promettere i miracoli, ma già solo immaginare la piccola accoccolata contro il suo petto la sera era assai rinfrancante. L’idea di Lucréce sola nella penombra di quella camera spoglia lo rattristava e instillava nel suo cuore un senso di colpa difficile da digerire. Gli fece così una proposta, quasi senza pensare: due birre nell’appartamento di Matei. Non pensò nemmeno per un istante che Danielle, forse, non avrebbe avuto piacere a tornare tra quelle mura. E difatti la vide tentennare, visibilmente colta in contropiede. Gli disse che doveva finire il giro visite e ad Hugo parve una giustificazione più che valida. Se voleva svincolarsi da quell’invito avrebbe avuto la scusa perfetta. Non si sarebbe risentito, ma avrebbe semplicemente accettato di trascorrere la serata senza particolare entusiasmo, sbocconcellando un hamburger e facendo zapping sulla tv del Matei. Abbassò così il capo a sfiorare i morbidi capelli di Lucrèce, dandole un rapido bacio di saluto che la piccola addormentata non avrebbe avvertito. Era pronto a congedarsi quando inaspettatamente Danielle accettò, proponendosi di portare la cena. “Benissimo, vieni quando vuoi, sai dove trovarmi” un accenno di sorriso gli increspò le labbra prima di voltare l’angolo e sparire lungo il corridoio. Trascorse le successive ore a rassettare, sebbene non ce ne fosse bisogno. Il proverbiale rigetto di Hugo per qualsivoglia forma di disordine faceva sì che ogni superficie di quell’appartamento splendesse e nessun granello di polvere riuscisse a permanere sul pavimento per più di qualche istante. Riordinare era un’attività terapeutica, a tratti catartica. Si dice che sistemare ossessivamente il luogo in cui si vive sia un modo per impedire alle emozioni di emergere e di manifestarsi sotto forme sulle quali non abbiamo il controllo. L’ordine degli spazi diventa quindi un ordine morale, suggerendo un’idea di rettitudine, la stessa che il Serpeverde ricerca ma da cui spesso scappa, rifugiandosi negli eccessi. Un din don conosciuto lo avvertì che la ragazza distava da lui soltanto un paio di rampe di scale. Si sistemò i capelli e ravvivò la maglietta, pentendosi di non averla sostituita con una più stirata. La mancanza di confidenza tra i due rendeva quell’invito piuttosto insolito, tanto che Hugo si domandò solo in quel momento come Danielle potesse averlo interpretato. Sperò in cuor suo che non ci avesse visto l’ombra di malizia, ma se anche fosse aveva comunque accettato. “Hai pensato bene” la accolse prendendo il sacchetto dalle sue mani. Le riservò un sorriso gioviale, invitandola con un gesto della mano ad entrare. Un sottile imbarazzo si insinuò tra i due quando la ragazza varcò la soglia e prese a guardarsi intorno. Probabilmente conosceva a menadito quei metri quadri e chissà in quante e quali occasioni aveva avuto modo di saggiare la morbidezza del divano o la comodità del letto matrimoniale. Un sorriso divertito si stampò sulle labbra di Hugo mentre la osservava ambientarsi a fatica. “Allora, sono stati buoni i tuoi pazienti o hai dovuto somministrare qualche pozione calmante di troppo?” domandò più per spezzare il silenzio che per reale interesse. Avviare una conversazione leggera avrebbe alleviato il visibile disagio della Corvonero, o almeno così sperava. Stappò le birre e gliene porse una facendole cenno con la mano di accomodarsi su uno sgabello alto. Scartò poi l’involucro ed estrasse la porzione di pesce e patatine ancora fumante. “Non preoccuparti, non rischi di vederlo comparire dalla porta, è in missione in non so che paese” aveva notato come lo sguardo di Danielle vagasse furtivo per la stanza, quasi si aspettasse di veder sbucare la sua vecchia fiamma. “Ho preso la sua casa e la sua stanza da letto, se volesse tornare prima del tempo non saprebbe nemmeno dove dormire” sottointeso: non avrebbero rivistovil siriano per un bel po’ di giorni ancora. Okay forse Ellie non lo avrebbe rivisto proprio più, ma dettagli. “Volevo ringraziarti per quello che fai per Lucy” ammise infine alludendo alle due birre. Voleva sì rassicurarla sulla finalità del suo invito, ma anche farle capire quanto il suo supporto emotivo alla piccola fosse importante per lei, ma anche per lo stesso Hugo. “Vale sempre il patto che quello che ti dico non deve varcare la porta. Come ti dicevo, ad Hogwarts non lo sa nessuno” qualcosa negli occhi gialli e attenti di Danielle lo aveva convinto a fidarsi di lei. “Come..com’è la situazione? Il quadro clinico..?” esordì dopo qualche esitazione e non poche difficoltà, come se le parole gli rimanessero impigliate alla lingua. Temeva che i medici non si sbilanciassero per evitare di dargli false speranze, ma magari la Corvonero non era tenuta a rispettare questo rigido regolamento e poteva essere semplicemente sincera con lui. Dio solo sa quanto aveva bisogno di buone notizie!
     
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    Danielle Richards | III anno | Corvonero


    Ellie
    1. Non posso fare a meno di continuare a guardarmi attorno, mi sembra quasi di non essere mai uscita dall’ospedale: tutto è perfettamente pulito e tenuto in ordine al proprio posto e sono sicura che se anche aprissi una qualsiasi anta dei pensili al suo interno non vi troverei le cose accatastate ed in pericolo di crollarmi addosso, ed è sciocco che me ne stupisca in quanto ho avuto modo di assaggiare l’ordine quasi maniacale del Serpeverde quell’unica volta che, entrando nella sua stanza (e di Christian e di Oliver) per aiutarlo con la ferita alla mano, ho dovuto rovistare nel suo baule preparandomi a chissà quale missione complicata di ricerca nella confusione scoprendo poi che tutto era perfettamente disposto e diviso con metodo. Mi schiarisco la voce seguendolo nell’angolo cucina dove prendo posto sul secondo sgabello libero rivolto al bancone. Il mio sguardo corre lungo le pareti dove è appesa una piccola bacheca praticamente ingombra tranne che per un bigliettino con la grafia di Mat, ho un tuffo al cuore a leggere la sua grafia ma... nulla di che, unicamente degli appunti volanti per Hugo su eventuali numeri utili per la casa. Sospiro impercettibilmente. «Mh?! Oh no, nessuna pozione... oggi è stato incredibilmente tranquillo in reparto. Di solito do una mano in “malattie magiche”» e quando lo vedo aggrottare leggermente lo sguardo gli do una rapida spiegazione dell’ospedale, «secondo e terzo piano, al piano terra c’è una sorta di pronto soccorso mentre il primo è dedicato alle ferite causate da creature e beh... il quarto lo conosci» quello era il piano dove era ricoverata Lucrèce: il reparto lesioni da Incantesimo e Janus Thickey dove vi erano ricoverate le lungodegenze più complesse come appunto era il caso della bambina. «Sto facendo una sorta di tirocinio su base volontaria quindi svolgo un’attività perlopiù base avendo solo una laurea in medicina babbana ed è tutto abbastanza diverso con la magia così mi limito a prendermi cura delle ferite cambiando le medicazioni oppure rilevando i parametri base. C’è un incanto anche per quello tra l’altro! Mi esercito in vista dell’Accademia avendone la possibilità» faccio una smorfia annuendo più a me stessa che rivolta davvero al ragazzo. Anche se non necessario mi piace comunque mantenermi allenata auscultando ancora il battito cardiaco mentre rilevavo la pressione o come nel caso della bambina i vari rumori polmonari, trovo che dia completezza al mio lavoro e sono convinta che la mano umana possa sempre rappresentare in alcuni casi un punto di svolta che attraverso mezzi automatici.
    «Ah in missione?» la mia è un’esclamazione che va man mano spegnendosi mentre un sensazione di calore bruciante mi mozza il respiro al centro del petto. Da come me ne parla capisco che non sia una di quelle missioni per conto del ministero, quelle riguardanti le creature da registrare ma qualcosa di più serio, più a lungo termine: è tornato in guerra. Senza dirmi nulla. Senza volermene nemmeno parlare o accennare... senza nemmeno salutarmi, senza dirmi addio se gli accadesse qualcosa. Mi poggio al di sotto del tavolo una mano all’altezza dello stomaco ora sottosopra per questa notizia così inaspettata e deludente. Si è cancellato dalla mia vita nonostante le belle parole pregne di significato quando in biblioteca ad Hogwarts aveva asserito che fossi importante o quando aveva dichiarato che era alla ricerca di stabilità. Io dovevo essere la sua stabilità e lui la mia. Prendo meccanicamente una patatina dal piatto e me la porto alla bocca senza nemmeno assaporarla davvero mentre nelle orecchie sento solo il rumore assordante del sangue che mi pulsa in circolo.
    «Volevo ringraziarti per quello che fai per Lucy» ritorno immediatamente alla realtà ricomponendo la mia espressione e mi affretto a riprendere il controllo della mia espressione. «F-figurati, lo faccio volentieri... lei è... una bambina straordinaria. È la prima che ho conosciuto ed abbiamo subito legato, non sapevo fosse tua sorella credimi» e non so nemmeno perché gli specifico questo ma forse è solo un tentativo piuttosto debole di giustificare il mio stupore al mattino quando l’ho trovato lì. Tendenzialmente non leggo mai i cognomi dei pazienti, mi fermo al nome ed uso quello per rivolgermi a loro, tranne rari casi dove il paziente stesso mi fa capire che preferisce una maggiore formalità. L’uso del nome crea un maggior legame col paziente che percepisce di essere visto e trattato come un essere umano e non come un quadro clinico, un rebus, di cui venirne a capo per poi essere sbattuto fuori dalla clinica una volta rimesso in sesto, è una cosa a cui tengo molto è che non voglio perdere esattamente come mi hanno insegnato zio Jon e mio padre. «Certo, rimarrà tra noi» annuisco con serietà mentre mi raddrizzo con la schiena. Respiro controllata cercando dentro di me di mettere da parte la delusione cocente che ho appena ricevuto e per farlo mi allungo sul bancone prendendo la birra che Hugo ha gentilmente stappato per entrambi. Ne prendo un sorso assaporando il sapore amaro dei luppoli che frizza sulle papille gustative, non è il mio drink preferito ma non fa niente, non mi interessa sbronzarmi, non qui e non ora. Prendo un nuovo respiro mentre il Serpeverde con difficoltà sembra cominciare una domanda ed io sposto finalmente lo sguardo sul suo volto contrito. Oh no, no Hugo non chiedermelo, ed invece lo fa. Poggio il pezzo di cibo che stringevo nella sinistra e mi pulisco lentamente le dita sul tovagliolo prima di ripormele in grembo. Non è un discorso semplice, né che sarei tenuta ad affrontare in quanto Hugo dovrebbe rivolgersi ai dottori ma capisco anche che gli stessi non vogliano parlare con lui vista la giovane età, vista la condizione strettamente riservata della sorella, riversando piuttosto le informazioni sull’adulto della faccenda e mi domando perché i genitori del ragazzo abbiano scelto di tenerlo all’oscuro di tutto. Ma chi sono io per giudicare? Io che nemmeno parlo con i miei da gennaio di quest’anno, ben sei mesi sono passati e nonostante io abbia adempiuto al volere di mia madre questi ancora non mi rivolgono la parola se non a monosillabi. Magari Hugo vive una situazione simile. «Ascolta Hugo, non dovrei parlarne... non perché non te lo voglia dire ma perché non sono qualificata abbastanza. Potrei riferirti in maniera errata, sicuramente i tuoi genitori conosceranno il quadro più nel dettaglio...» comincio snocciolandogli quella che in realtà è una mezza verità. Non capisco ogni cosa di quanto abbia letto nella cartella, più che altro i termini della medicina magica mi sono ancora in gran parte sconosciuti avendo iniziato questo tirocinio non meno di quarantotto ore fa. Sto ancora imparando e la strada è ancora molto lunga prima che mi senta totalmente a mio agio in quei corridoi. Mi tormento le mani in grembo rigirandomele e tirandomi una pellicina che spero non mi faccia sgorgare un litro di sangue. «È una situazione molto complessa da quello che ho avuto modo di capire, non hanno ancora definito il nome della patologia che l’affligge o se è qualcosa di autoimmune che è semplicemente saltato fuori a seguito di un trauma di qualche tipo» scelgo di fare un mix tra il gergo medico e quello normale per dare modo al ragazzo di seguirmi nel discorso «al momento stanno facendo quello che si fa in maniera solitamente in questi casi, ovvero trattare i sintomi. Quando fatica a respirare le diamo l’ossigeno, quando è il dolore a prendere il sopravvento le si da della morfina in maniera estremamente dosata vista l’età. Stanno... stanno... temporeggiando. In attesa di capire» gli risparmio che ho già parlato con mio zio nel tentativo di farla seguire da lui, è già sul caso per quello che riguarda l’aspetto neurologico e... è un enigma. «M-mi dispiace non poterti dire di più» abbasso il viso mordendomi il labbro contrita.
     
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    Studente Serpeverde
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    Difficile non cogliere la sfumatura di delusione che inflettè la domanda retorica di Ellie. Era palese che la Corvonero ne ignorasse l’attuale ubicazione, dando modo a Hugo di completare il quadro mentale circa la relazione di quei due. Non che gli importasse particolarmente, ma fare congetture ed elaborazioni era il suo pane quotidiano. Avrebbe forse desiderato più d’ogni altra cosa poter spegnare il cervello talvolta, poter frenare il suo inarrestabile macchinare che faceva di lui un Corvonero travestito da verde-argento. Invece doveva fare i conti quotidianamente con un’attività cerebrale non ordinaria che rendeva ogni minimo spunto una intricata ragnatela di supposizioni. “Si, mi aveva chiesto di non farne parola con nessuno, ma l’avevo dimenticato” mentì, allo scopo di dissipare quanto possibile la tristezza che velò per un istante il viso della ragazza. Voleva tutelarla, questo era tutto ciò che sapeva. Il motivo, però, non era chiaro nemmeno a lui. Ellie non era una sua amica, si sarebbe giusto potuta definire una conoscente. L’aveva aiutato con la mano, questo è vero, ma dopo quell’episodio le loro strade si erano incrociate meno di un paio di volte lungo i corridoi e dalle loro bocche non era uscito più di un saluto fugace. Vederla con Lucy doveva aver acceso in lui una luce di speranza, ben sapendo che la Corvonero non avesse le competenze per poter concretamente aiutare la piccola. La sua sola presenza al capezzale della bambina era per Hugo un pensiero confortante. Sapere che i vispi occhi della sorella avrebbero trovato occhi altrettanto vispi a restituirle lo sguardo lo rendeva felice, ma di una felicità malinconica. La stessa sensazione che provava ogni fine settembre osservando le foglie ingiallirsi e cadere in volteggi sul terreno. L’autunno, con la sua nebbia perenne e le giornate sempre più brevi, era in grado di riscaldargli il cuore e renderlo al contempo nostalgico, come se ogni foglia che abbandona il ramo sia la metafora di un inevitabile addio. Ringraziarla per il tempo dedicato a Lucy gli pareva il minimo, ma forse Ellie non era abituata a dimostrazioni verbali di riconoscenza poiché incespicò nel rispondere, assumendo un’espressione indecifrabile, a metà tra l’imbarazzato e l’appagato. “Lo so che non lo sapevi, Dubois non è un cognome così insolito come si potrebbe pensare” mormorò. Il sincero stupore letto sul viso di Danielle era inequivocabile. Le pose poi la fatidica domanda, chiedendole delucidazioni sulla situazione clinica della piccola. Si pentì dopo pochi istanti, mordendosi il labbro inferiore con crescente nervosismo. La ragazza aveva menzionato i genitori di Hugo, suggerendo di chiedere a loro i dettagli precisi. Era evidente che fosse nel reparto da poco, altrimenti avrebbe saputo che in quanto maggiorenne Hugo era legalmente responsabile della sorellina. Avrebbe potuto mantenere questo segreto ancora un altro po’, almeno fino a che la ragazza non lo avrebbe scoperto da sola studiandone la cartella. A quel punto tanto valeva rivelarglielo apertamente, complice il clima confidenziale che si era inevitabilmente creato. “Io e Lucréce siamo orfani, i medici si interfacciano direttamente con me che sono il suo tutore” ammise puntando lo sguardo verso un punto indefinito sulla parete alle spalle di Ellie. Sperò con tutto il cuore di non leggere compassione nei suoi occhi. Non avrebbe retto e l’avrebbe allontanata con una scusa e probabilmente con poco garbo. Così reagiva alle sue debolezze, ringhiando contro il prossimo senza timore, sputando sull’altro il suo rancore nei confronti di una vita che era stata particolarmente ingiusta con lui. Non voleva essere considerato fragile per questo, specie perché era fermamente convinto che questa presa di responsabilità in età precoce lo avesse rinforzato come una corazza di amianto. Ellie dal canto suo proseguì, informando Hugo con le poche informazioni che conosceva. Gli bastarono per assumere un’espressione funerea che spazzò via il buonumore dell’ultima settimana. Se i medici stavano temporeggiando significava che la cura era più lontana che mai, anzi, ad oggi sconosciuta. Scoraggiato si sforzò di mantenere una certa naturalezza nel replicare. “Dicono sempre così, per non creare false illusioni. Meglio preparare i pazienti e i parenti al peggio piuttosto che infondere loro una speranza che può svanire rapidamente" lo disse più a sé stesso che alla ragazza, convincendosi che le sue parole non fossero per forza pregne di pessimismo. Era stata cautelativa ed eccessivamente scrupolosa, ecco tutto. Era alle prime armi e non voleva sbilanciarsi, caso mai Hugo avesse riferito qualcosa sulla sua professionalità ai medimaghi del reparto. “Hai già fatto abbastanza” sussurrò in un fil di voce portandosi la bottiglia di birra alle labbra. Dopo un paio di sorsate generose si costrinse a cambiare argomento, terminando la cena con un dibattito acceso circa i professori più odiati di Hogwarts. Trascorrere del tempo con Ellie si era rivelato più facile del previsto e nonostante le premesse, il resto della serata era scivolato via rapidamente tra risate e allegri scambi di battute. “Torna pure quando vuoi” le strizzò l’occhio sull’uscio, chiudendo poi la porta alle sue spalle.
     
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8 replies since 7/9/2021, 23:13   163 views
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