The right thing to say.

Alexander

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    La sua reazione si sarebbe potuta dire insolita, difficile da interpretare per uno sguardo esterno. Non che vi fossero poi molto sguardi esterni puntati su di lei, ma forse almeno Roy doveva essersi chiesto perché Cassandra non avesse mostrato orrore, paura e disperazione di fronte alla notizia che uno dei suoi pochi amici aveva tentato di togliersi la vita. Eppure non era accaduto. La notizia l'aveva semplicemente paralizzata in un primo momento, lasciandola attonita e senza fiato. Il passo successivo l'aveva vista chiudersi in un bozzolo di riflessione, ammantato di calma e di silenzio, niente che lasciasse trasparire le emozioni che la animavano. Non era dai lei celare le proprie emozioni, in particolar modo quelle negative.. difatti nemmeno in questa circostanza lo stava facendo volontariamente.
    Il gesto di Alexander le aveva dato modo di pensare, l'aveva spinta a non fare altro che questo: anche perché parlare con qualcuno, cercare un confronto, a cosa sarebbe servito? Il suicidio era qualcosa di personale, profondamente intimo. Nella scelta, che fosse ponderata o il bagliore di un attimo, che portava alla morte non vi era spazio per nessun altro. Per questo spesso le persone che si toglievano la vita erano tacciate di egoismo. Per quanto la riguardava, l'elaborazione del tentato suicidio di una persona cara era un processo altrettanto intimo.
    Il raccoglimento in sé stessa e nei suoi pensieri l'aveva portata a spingersi fino in ospedale, nella speranza di poterlo vedere. Non sapeva cosa gli avrebbe detto, a dire il vero non sapeva nemmeno se avrebbe saputo dirgli qualcosa. Aveva evitato lo sguardo di quella che presumeva essere la madre del Drayton, impegnata a parlare con un medimago, cercando di insinuarsi nella stanza del ragazzo senza passare per le solite formalità che le erano estranee e con le quali non voleva mescolarsi. Ma era stato qualcun altro a bloccarla, prima ancora che lo spiraglio della porta che aveva aperto fosse sufficiente a permetterle di intravedere qualcosa di più del confuso profilo di una figura distesa sul letto. Era stato Alexander a bloccarla: la sua voce l'aveva respinta con una tale rabbia e una così violenta disperazione che la Rocha non aveva potuto fare altro che ritirarsi, senza insistere.
    L'arco di tempo successivo a quel tentativo di visita fallimentare l'aveva vista immersa in un ulteriore rimuginare. Si era guardata dentro, poiché un gesto estremo come quello compiuto dal biondo aveva inevitabilmente effetti collaterali su chi gli stava attorno. Forse anche Jerome, il fratello maggiore di Alexander, Luis.. tutti loro stavano facendo la stessa cosa, ognuno a modo proprio. Cassandra non aveva bisogno di chiedersi perché lo scozzese si fosse spinto a tanto: aveva potuto scorgere uno scorcio del dolore del ragazzo durante le loro conversazioni e sebbene la sua non fosse stata altro che un'occhiata ad un intero universo interiore di cui non avrebbe mai potuto sapere abbastanza, tanto le bastava per comprendere. Il dolore spingeva a fare cose folli, qualunque cosa pur di farlo cessare.
    Non aveva nemmeno bisogno di chiedersi quali sarebbero state le proprie motivazione per giungere a una simile risoluzione, soprattutto in passato. Ma sapeva anche che non si sarebbe mai spinta in quella direzione: c'era l'Inferno per chi offendeva in quel modo il dono della vita, un Inferno a cui ancora, nonostante tutto, Cassandra non riusciva a smettere di credere. La pena della dannazione eterna, quella era la sua più grande paura: quella possibilità era il dolore più grande per Cassandra e.. appunto, il dolore a volte spingeva a fare cose folli: come continuare a sopravvivere, nonostante tutto. Da quando qualche nuova luce era entrata nella sua vita, non era solo la paura di ciò che la attendeva oltre la morte a tenerla con i piedi ancorati a terra e la mente lucida. La brasiliana si augurava che ciò potesse durare, ma non lo sapeva. Questo però era il suo mondo, la sua dimensione, quella di Jonas invece.. sembrava essere andata in pezzi sotto gli occhi di tutti coloro che, come lei, non erano stati in grado di prevedere l'evoluzione delle sue pulsioni autodistruttive.
    In clinica la fecero entrare. Le rivolsero qualche domanda a cui Cassandra rispose sbrigativamente, con poche parole che tuttavia bastarono a chi di dovere per valutare che la sua visita non si prospettava come dannosa per lo stato mentale del loro paziente. Non che ciò fosse valutabile con assoluta certezza e basandosi su poche domande rivolte alla persona in questione, ma era chiaro che l'intenzione di non peggiore lo stato di Alexander avrebbe reso chiunque decidesse di fargli visita particolarmente cauto.
    Alexander..
    Cassandra pronunciò quell'unica parola, mentre si chiedeva se anche lei fosse in grado di impegnarsi a dire le cose giuste. Nessun genitore amorevole le aveva mai insegnato a farlo, né lei crescendo aveva scelto di provare ad imparare. Le parole giuste non esistevano, non esistevano mai in situazioni come quella in cui si trovava in quel preciso momento. Si avvicinò al letto osservandolo e cercando nel suo consueto pallore, così come nello sguardo, un suggerimento su ciò che il Drayton provava nel trovarsi lì. Su ciò che provava nel trovarsi Cassandra Rocha davanti. Ma quella non era mai stata una sua risorsa.. l'empatia.
    Ora come ti senti? Avrebbe potuto chiedergli.
    Perché l'hai fatto? Avrebbe forse dovuto chiedergli. Inutilmente.
    Ho avuto paura di non vederti più. sarebbe stata disposta ad ammettere.
    Vorresti esserci riuscito?
    Era probabile che la sua domanda non rientrasse tra le domande giuste. Ma sentirsi ad un passo dalla morte dava lucidità, scampare ad essa metteva ogni aspetto della vita in prospettiva. E lei voleva solo sapere quale fosse adesso la prospettiva di Alexander.
     
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    Sono stati giorni intensi. Sebbene la precaria sensibilità concentrata negli arti addormentati e nella mente offuscata da mix farmacologici e pensieri sconnessi, ogni cosa mi ha spossato, risucchiando fino all'ultima goccia delle mie energie e volontà, ogni giorno, tutto il giorno. Serve a garantire non mi passino altre cazzate figlie dell'avventatezza in testa e, come di consueto, a ripulire la coscienza di chi adesso ha piena responsabilità della mia custodia e cautela. Ordinaria amministrazione, riposta in fogli e firme impressevi sopra nero su bianco che sull'attenzione che mi rivolgono in quanto paziente della clinica. Tornare tra queste mura, a seguito dell'agitazione in ospedale, mi ha provocato strane sensazioni. Parte della mia volontà mi ha guidato sin qui, ma per il resto mi ci sono moralmente sentito costretto e devo ancora decidere se mi stia bene o se ancora una volta abbia deciso di lasciarmi influenzare da sensi di colpa e pensieri altrui. Nulla su cui riesca a concentrarmi più di una manciata di secondi, mentre le pillole assimilate dal mio corpo debole e stanco sortiscono i loro effetti soporiferi su ogni mia congettura mentale. Non sono un bel vedere, ma è certamente meno disturbante ricevere visite in questo stato di calma piatta che nell'umiliante reclusione ad un letto con cinghie che marchiano lividamente i miei polsi e le mie caviglie. Tuttavia la sorpresa che deriva nell'osservare ogni placido volto che oltrepassa la porta della mia stanza - dove passo la gran parte delle mie giornate, i pasti e la fila per le medicine come unica eccezione - resta una costante, qualcosa che mi accende di incredulità e che mi scalda, oltre l'imbarazzo iniziale, quando le sembianze assunte sono diverse da quelle di mia madre, mio fratello o Jerome. Una cascata di ricci rossi e lunghi fa il suo ingresso tra le pareti bianche di questa mia piccola, confortevole prigione. I suoi passi riempiono l'ambiente ed il suono familiare della sua voce, che mi richiama come nessuno dei miei amici fa ormai, distende di una sottile lusinga la mia espressione solitamente persa in crucci ed apatia. ‹ Lady Rocha. › Rispondo alla ragazza, incapace di mettere su i soliti sguardi sardonici, impertinenti e distaccati con cui affronto ogni situazione che mi si pari davanti. E' difficile mantenermi rigido come di consueto, specie davanti a due occhi che riflettono fin troppo bene uno stato d'animo che, per quanto plausibile, mi fa indubbiamente male. Sopportare la tristezza altrui e la probabile colpa che non possono fare a meno di affibbiare a loro stessi, è il dettaglio più straziante di questo fottuto rompicapo di vita e di morte. Di risposte alle loro domande non ne ho. Io me ne pongo ogni giorno e non ricevo che silenzi in cambio. Forse non sono ancora pronto. O forse è la terapia a cui mi obbligano momentaneamente a costringermi a questa confusione preponderante. ‹ In quel momento immagino di sì. › E' l'unica risposta certa. Non ricordo molto dell'attimo in cui il terreno mi è letteralmente mancato da sotto i piedi. Ricordo perfettamente ciò che ha preceduto quel momento, tutto il dolore che mi ha spinto a ricercare in quello l'assoluzione ai miei peccati ed alla sofferenza che ne è derivata. In questo non mi pare di essere davvero cambiato: continuo a sentirmi responsabile della tristezza altrui, anche dopo un gesto che sarebbe dovuto rimanere mio, che avrebbe dovuto riguardare me e nessun altro. Calcoli sbagliati, perché chi meglio di me sa che il suicidio scatena in chi è intorno e non riesce a prevenirlo, né evitarlo lo stesso identico carico di senso di colpa di chi rinuncia al prezioso dono della vita? Il mio vestito d'egoismo mi calza decisamente a pennello. Non ne vado fiero. ‹ Adesso però non so ancora risponderti. › La voce impastata chiarisce una realtà che non posso fare a meno di rivolgerle. Se i miei pensieri sono sempre stati un guazzabuglio di punti interrogativi indecifrabili, adesso ad offuscarli è una patina grigia che li rende ancora meno concentrati. I loro sbiaditi contorni sono il freno delle spiegazioni che ho voglia di suggerire alle persone che amo. La terapia, magari, mi aiuterà a sollevare il piede da quel crudele pedale. ‹ Ma sono sicuro che tu abbia qualcosa di più interessante e divertente da raccontarmi. › Una richiesta, la mia, di sorvolare almeno per adesso su quell'indefinito stato d'animo a cui la mia stanchezza non riesce a dare spiegazione. Mi sollevo dal letto, vestito di una tuta ed una t-shirt. Un look scialbo ed inconsueto, ma comodo abbastanza per soggiornare tra le quattro mura di questa mia piccola incresciosa tana. La invito a sederci ad una delle sedie qui presenti, un tavolo a separare la doppietta. Faccio lo stesso, adagiandomi con cautela ed estrema lentezza, i gomiti poggiati sulla limitata superficie plasticata, prima di rivolgere a lei la domanda che ha timore di suggerire a me. ‹ Come stai? ›

     
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    La brasiliana tacque di fronte alle parole iniziali del Drayton, poiché entrambi sapevano che non era quella la risposta che la ragazza cercava. Poteva immaginare quanto Alexander avesse desiderato porre fine alla propria vita nel momento in cui aveva deciso di stringersi una corda al collo, poiché solo un'estrema forza di volontà - gravata da una disperazione ancora più estrema - poteva spingere un essere vivente ad andare contro il proprio naturale istinto di sopravvivenza. Uccidersi non era facile: bisognava volerlo davvero.
    Quello che la Rocha cercava di capire era quali tracce quel tentativo fallito avesse lasciato nella mente del biondo. Com'era sopravvissuta la sua anima a quel tentativo mancato? La Rocha si chiedeva se fosse contratta dalla frustrazione, o piuttosto in qualche modo sollevata, o spaesata, sconfitta, atterrita. La gente diceva in giro che gli occhi erano lo specchio dell'anima, ma se questo era vero si trattava di uno specchio che offriva un riflesso torbido e confuso come quello di uno stagno popolato da una vegetazione subacquea fitta e indomabile, abitato da creature che si muovevano nelle sue profondità come ombre fuggevoli. Cassandra dubitava che vi fossero persone realmente in grado di comprendere le imperscrutabili profondità altrui, a meno che non fosse disposto a rischiare di annegarvici dentro.
    Alla fine una vera risposta giunse e la trovò comunque silenziosa e incapace, in un primo momento, di far altro che annuire. Una parte di lei si sentiva sollevata, poiché il fatto che nel Drayton si fosse insinuato un dubbio era già un piccolo appiglio che potesse trattenerlo ancorato alla vita. Come se guardare la morte da vicino avesse spinto Alexander a perdere ogni certezza, stato che doveva apparirgli terribilmente spaesante e doloroso, ma che al contempo gli permetteva di prendere la decisione che ora lo stava portando ad alzarsi da quel letto senza che fosse stata Cassandra ad insistere.
    Immagino che anche questa sia una risposta.
    Si ritrovò infine a pronunciare quelle parole che lasciavano intendere molto ma non si soffermavano su nulla che Alexander potesse voler evitare di affrontare. Era chiaro che avrebbe dovuto cercare risposte più nette attraverso un dialogo che avrebbe potuto sostenere solo con sé stesso. Eppure la Rocha continuava a pensare che avrebbe dovuto mostrarsi in grado di dirgli altro: avrebbe dovuto dirgli quanto l'idea di poterlo perdere la facesse soffrire, quanto sperava che lui facesse il possibile per rimanere aggrappato alla vita con le unghie e con i denti. Perché anche se l'esistenza spesso appariva terribile anche a lei, infondo quella era l'unica vita che veniva concessa loro. Probabilmente Jerome e Luis l'avevano fatto, ma questo la veggente non poteva saperlo e non si sarebbe impegnata a scoprirlo: se il dolore per il tentato suicidio di Alexander era qualcosa di intimo per lei le veniva naturale supporre che dovesse esserlo anche per gli altri. Forse un tempo certi confini di intimità emotiva non esistevano affatto tra lei e Luis, ma il rapporto tra i gemelli negli ultimi mesi era mutato senza che Cassandra sapesse spiegarsi come ciò fosse potuto accadere. Un dolore privo di risposte, una mancanza con cui faceva i conti ogni giorno senza osare farne parola con l'essere umano che per così tanto tempo le era stato più vicino di quanto chiunque altro potesse comprendere, ma con il quale ora perdeva familiarità ogni giorno di più. Si impose di ingoiare la propria amarezza, non era certo di questo che lo scozzese desiderava parlare nel proporle un argomento che allontanasse la loro conversazione dalla ragione per cui lui era ricoverato in quella clinica.
    Ti risulta che io sia mai stata una persona incline al divertimento?
    Cercò di strappargli qualcosa di simile ad un sorriso, anche solo una smorfia sarcastica, mentre si sedeva a quel tavolo anonimo e freddo nella sua plasticità e si adagiava contro lo schienale della sedia osservando l'altro di sottecchi.
    Sono andata con Roy in Romania.. a vedere i draghi. Non avevo mai fatto una vacanza senza mio fratello prima, anzi.. non avevo mai fatto una vacanza.
    Scosse la testa, interrompendosi bruscamente e alzando lo sguardo per fissare meglio il suo interlocutore. Niente occhiate lanciate di sbieco ora, lo guardò dritto negli occhi con un'espressione grave nelle iridi attente. Non poteva sopportare la forzatura a cui si stavano sottoponendo.
    Mi sembra così inutile parlare di queste cose. non che fossero superflue, non che quel viaggio non si fosse rivelato incredibile per lei, ma in quel momento qualunque argomento sarebbe risultato totalmente fuori luogo Il punto non è come sto io, ma come stai tu. Pensi di tornare al campus quando ti faranno uscire da qui?
    Ti faranno uscire da qui, prima o poi? Forse era quella la vera domanda. Cassandra non sapeva se fosse possibile costringere qualcuno a trattenersi in un luogo come quello contro la sua volontà: era il genere di argomento su cui era completamente ignorante, anche perché non aveva mai cercato di scoprirlo. Era troppo agghiacciante il pensiero che qualcosa di simile a ciò che i Rocha avevano fatto a lei e Luis fosse consentito all'interno della società, ma non le sembrava poi così assurdo. Infondo esistevano luoghi come quello che le aveva mostrato Roeim, il carcere. Gabbie come quelle che lei aveva imparato a conoscere da bambina, gabbie per esseri umani.
     
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    Ci provo a spezzare la monotonia compassionevole di cui questa stanza s'impregna ogni volta che qualcuno viene a trovarmi, a fare domande, ad indagare tergiversando senza mai centrare il punto focale che preme sulle loro bocche per venire fuori. Lei ci si adegua, per secondi sfuggevoli, un racconto refrattario di una realtà che i miei occhi hanno perso. Me ne sono lasciate di cose e persone dietro o forse sono loro ad essere andati avanti mentre io mi sono fermato. Annullato. Annientato dai miei demoni. Di volti nuovi non ve n'è più traccia. Quelli vecchi sembrano lontani anche dopo aver varcato la soglia della camera. ‹ E' passato tempo, tutto sarebbe potuto essere. › Ribatto alla sua considerazione su se stessa. L'affinità che ci ha legati si è sempre incastonata tra le sembianze della calma, una quasi apatica atta ad arrovellarsi attorno a parole e considerazioni. Non siamo animali da festa, neanche bestie sociali. Siamo anime sole, per scelta in definitiva, che di tanto in tanto tastano i contorni dei rapporti umani e ne assaggiano gli accenni. Non giungiamo mai alla vetta, ma procediamo imperterriti su un percorso che non ha mai fine, né una fermata. Avanziamo piano, eludendo la fase d'arresto. E ciò che racconta sul suo viaggio costellato di dettagli che un tempo mi sarebbero stati irrealizzabili non ne è che una prova evidente. ‹ Una vacanza. Col tuo ragazzo o qualunque cosa siate. › Constato, lanciandole un'occhiata mista di furbizia e fierezza. ‹ A me sembrano progressi. › Definirli progressi ha senso. Lo ha per noi, per lei. Per tutto il filone che ci siamo lasciati alle spalle e che ci ha trascinati fino a qui. Per noi ciò che viene incluso nella normalità altrui diventa di sovente un traguardo dalle fattezze speciali. Sarebbe avvilente non riconoscere i nostri meriti: il mondo tende già a scartarci per questi stessi motivi. ‹ Non è inutile. Mi aiuta a concentrarmi su altro. › Su quel passato che mi rende nostalgico, sull'incipit di rapporti che sono andati poi perdendosi, sebbene non del tutto. Era una normalità bizzarra, un insieme scombinato, ma mi piaceva. Era mio. Il tempo, gli eventi, le persone hanno scombussolato ogni cosa. Mi sono ritrovato io stesso ad estraniarmi da me pur di abbozzare i tratti di quel disegno che il resto aveva sbiadito. L'epilogo di tutto questo è la cicatrice che le bende avvolgono. Rifletterci non è facile. Unire il passato al futuro, farlo nel presente, è un meccanismo complesso. E' troppo idealista perché ne trovi la concretezza di cui necessito. Eppure ci provo. Con principi d'ostinazione, l'espressione orgogliosa oltrepassa il dolore per proiettarsi nelle risposte che Cassandra richiede. ‹ Certo che tornerò. Pensi che le occhiate curiose degli altri mi freneranno? Non è mai successo. › Il menefreghismo ha sempre avvolto ogni mia invettiva. Mi sono chiuso per anni nell'elusione di qualsiasi opinione immeritevole delle mie attenzioni. E' andata bene, finché non ho perso il controllo. Basta solo rimettere in ordine le priorità. Rimettermi al primo posto. Sarà davvero così complicato? ‹ Cass, se cerchi un perché io non posso dartelo. › Cass. Diretto, disinibito. Sfrenato. Intimo. ‹ Ne esistono mille di perché ed al contempo non ce n'è nemmeno uno che abbia un senso. › Rivelo infine, le dita pressate contro le palpebre, il volto chino nel rimuginare su tutto ciò che lei non sa. Che nessuno ha mai saputo. Che senso avrebbe mascherare una parte del mio essere se una metà ne è venuta fuori imprescindibilmente? ‹ Non è la prima volta che mi ritrovo in una clinica. Combatto con me stesso da anni e... non andrò nei dettagli, ma ci sono volte che non ho controllo di me senza imbottirmi di flaconi di cinque o sei farmaci diversi. › Recupero un foglio tra i plichi di scartoffie impilati nella mia cartella clinica. Ne tiro fuori uno con la diagnosi ufficiale, quella che mi trascino dietro da prima dell'incidente. Da sempre, anche se non lo sapevo. Lo passo a lei, riflettendo nei suoi occhi una dicitura chiara: disturbo esplosivo intermittente. A coronarlo, depressione, disturbi comportamentali ed ogni piccolo ramo di studio sulla mia mente ed ogni crepa che riporta. ‹ E' questo che mi spaventa nei rapporti. Questo che mi rende schivo e sgradevole. › Sollevo lo sguardo sul suo. Rassegnato. ‹ Sono io. E sono un mostro. ›

     
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    Le labbra di Cassandra si curvarono in una smorfia incerta, quasi una considerazione silenziosa. Non era mai stata una grande sostenitrice della convinzione che le persone potessero realmente cambiare: per come la vedeva lei, ogni essere umano era destinato e in qualche modo costretto alla reiterazione, a ripetere sempre gli stessi errori e i medesimi schemi comportamentali, per quanto potessero essere nocivi. Se il carattere e le attitudini di una persona dipendessero più da una presupposto biologico, un determinismo divino o piuttosto dalle esperienze vissute, questo la Rocha non lo sapeva: quel che sapeva, però, era che in ogni caso si trattava di una condanna che ogni essere umano si portava dietro a vita, agitandosi spasmodicamente nell'illusione di poter abbracciare un radicale cambiamento.
    Conoscere determinate persone - Roy, Alexander, Jerome - le aveva permesso di aprirsi alla possibilità che dei rapporti umani avessero il potere di offrirle emozioni positive di cui per molto tempo si era privata, certo, ma non aveva mai pensato che qualcuno di quei rapporti potesse cambiarla, salvarla.. in qualche modo. Tutto questo, tuttavia, non voleva dirlo ad alta voce. Come avrebbe potuto condividere con il Drayton il suo pensiero, considerato che allo stato delle cose sarebbe apparso come una condanna anche per lui?
    Roy è il mio ragazzo, sì. Ma prima o poi si renderà conto di quanto sia difficile starmi accanto, quindi non so se si possa definirle un "progresso". Magari.. un progresso temporaneo.
    Non sapeva perché lo stava rendendo partecipe di quella riflessione. Le si affacciava alla mente di frequente e tutte le volte lei la assecondava, perché le pareva il modo migliore per non illudersi. Le emozioni che provava in compagnia di Roy, tutto l'amore che lui le riservava, talvolta la facevano sentire come ubriaca. Ma Cassandra temeva gli effetti a lungo termine di quell'ebrezza, ne avvertiva il pericolo e per questo si ostinava a ricordare a sé stessa che presto o tardi l'Hellstrom avrebbe aperto gli occhi e l'avrebbe vista per quella che era. Rammentarlo a sé stessa, in parte, l'aiutava paradossalmente ad addomesticare la paura di perderlo. E in qualche modo, forse, anche condividere quel pensiero con Alexander aveva un po' la stessa valenza: si schermiva così dalle osservazioni del biondo, perché la loro connotazione quasi ottimistica la metteva in difficoltà.
    Gli altri non hanno alcuna importanza. Mi piace sapere che non desideri restare lontano.. troppo a lungo.
    Non la sorprendeva il fatto che Alexander non desse alcun peso all'opinione dei suoi compagni, o di chiunque altro potesse esprimere un parere su di lui e su quanto accaduto. In effetti, era proprio ciò che si sarebbe aspettata dallo scozzese. Aveva sentito dire in giro che una ragazza gli aveva fatto una scenata in caffetteria, l'anno precedente, ma che lui aveva reagito con stoica impassibilità. Per quanto Cassandra ignorasse ogni dettaglio della dinamica di quell'evento e delle motivazioni della ragazza in questione - dettagli che nemmeno le interessavano, tra l'altro - era più che certa che se una cosa del genere fosse accaduta a lei.. magari non le sarebbe importato di avere un pubblico giudicante, ma sicuramente avrebbe reagito in modo decisamente più aggressivo per difendersi da un simile attacco. Si era sempre chiesta come facesse il Drayton a contenere in quel modo le proprie emozioni: aveva parlato con lui a sufficienza da capire che il suo mondo interiore era ricco e tormentato e dunque sapeva che si trattava della capacità di controllare il proprio comportamento, piuttosto che di un'emotività poco spiccata. Quell'aspetto era ciò che più li distingueva l'uno dall'altro ma, se la Rocha per molto tempo lo aveva considerato un talento e una risorsa del Drayton, ora le parole di quest'ultimo gettavano una luce diversa su quella realtà.
    Non lo sapevo. Come ti fanno sentire.. questi farmaci? Cosa ti fanno esattamente?
    Era spiazzata di fronte a quella rivelazione e non si impegnò a nasconderlo. Pur essendo cresciuta in una famiglia in cui ogni instabilità e comportamento fuori dagli schemi veniva attribuito al Demonio, Cassandra aveva vissuto a contatto con il mondo abbastanza da sapere che c'erano persone che curavano il proprio male di vivere, il dolore che si annidava nel loro cervello, ricorrendo alla medimagia. Eppure lei non era mai riuscita a vedere in tale alternativa una possibilità, di sicuro non per sé stessa.
    Prese il foglio che Alexander le porgeva e lo posò davanti a sé, senza smettere di guardare l'altro negli occhi. Solo a quel punto il suo sguardo si staccò da quello di lui per posarsi sulle parole scritte, iniziando a scorrerle lentamente. Lesse con attenzione, senza fermarsi finché non ebbe finito: la sua mente faticava a metabolizzare le informazioni ricevute. Nero su bianco, c'era scritto che Alexander Drayton era l'esatto opposto di ciò che aveva sempre mostrato di sé, almeno nei comportamenti: non aveva un completo controllo sulle proprie emozioni, non aveva un'infallibile capacità di bloccarne ogni manifestazione istintiva ed impetuosa. Quella era opera dei farmaci di cui faceva uso.
    Però non è questo che ti ha portato a cercare la morte, giusto? Non è stato il .. "disturbo esplosivo intermittente". Non è possibile che siano stati loro? I farmaci, intendo.
    Scosse la testa, confusa e consapevole di pronunciare parole che in molti avrebbero trovato fuori luogo. I farmaci erano la medicina, agli occhi del mondo. Ma a lei sembravano delle catene.
    Non ti soffocano?
     
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    ‹ Riesci ad essere quasi più negativa di me. Non so se esserne sollevato. › L'eco della sua scarsa sicurezza viene raggiunto dalle mie parole, per nulla incoraggianti, ma piuttosto comprensive. Conosco bene la sensazione che descrive, quella perenne nausea alla bocca dello stomaco scaturita dalla consapevolezza di non poter essere migliore. Non ci sono parole di conforto che tengano, neanche terapie che lavorino a sufficienza sulla propria autostima al punto da riformulare quegli schemi malandati per forgiare figure nitidamente più forti. Siamo vittime di noi stessi, io e la Rocha in particolar modo. Prede dei meccanismi di auto-sabotaggio che ci portano adesso al confronto, in una stanza d'ospedale, una cicatrice di morte a macchiare la mia pelle ed un peso insormontabile a fare capolino oltre le sue iridi chiare e distaccate. In questo panorama gelato, le nostre idee si rimescolano abbastanza da innescare una reciproca, silenziosa comprensione. Forse è l'unica medicina di cui ho bisogno, qui ed in questo istante. Sentirmi un po' meno in colpa per aver sputato sull'affetto di chi non riesce a fare a meno di guardare con orrore e sofferenza le bende sul mio collo. ‹Ho già perso troppo tempo correndo dietro stronzate... Devo rimettermi in carreggiata. › Questa la risposta definitiva sulla mia volontà di tornare, senza entrare in dettagli specifici che scavino nelle memorie condivise. Le pagine del giornaletto che hanno riempito la scuola, passate sotto i nostri occhi, sono un ricordo lontano, prossimo ad uno stato obsoleto. Ci sono altri dettagli di spicco che scorreranno tra le bocche altrui ed io ne sarò nuovamente protagonista. Non posso permettermi di cedervi ancora una volta. Non voglio addentrarmi in quella fitta palude di caos se ne ricaverò soltanto delusioni e perdite di tempo. Non posso infossarmi più di quanto la mia mente non faccia già. Quindi tornerò presto, a testa alta, e riprenderò ogni cosa da dove l'ho lasciata. Piano, con calma e con la consapevolezza di dover andare avanti indossando due giganteschi paraocchi per sopravvivere. Tamponamenti di cui rendo partecipe Cassandra, curiosa di scorgere tra le righe d'inchiostro capeggianti il foglio di una mia parziale diagnosi le realtà che mi sono sempre premurato di celare a chiunque. ‹ Bloccano i miei impulsi più pericolosi. Non senza effetti collaterali, ma... quando la formulazione è corretta, tutto si assesta per un po'. Ciclicamente mi capita di cambiare terapia, ma se agisco per tempo tengono tutto sotto controllo. › Lo fanno loro, non io. Rendono tutto più vivibile, sopportabile, superabile. Me ne servo, fingendo che la mia volontà di prenderle mi protegga. In realtà sono solo un codardo che si nasconde dietro l'ausilio di quei dannati palliativi alla mia follia e non c'è modo, né mai ci sarà, di cambiare ciò a cui sono tristemente destinato. Non sarò mai l'eroe che speravo d'essere. ‹ E' quando ho smesso di prenderli che tutto è diventato terribilmente soffocante. › Le rivelo infine, chinando appena lo sguardo, affranto ed arrabbiato con me stesso per esserci cascato. ‹ All'inizio mi sentivo libero, capace di gestirmi da solo e tenere in pugno tutto ciò che mi capitava. › Un sospiro, una presa di coscienza, una miriade di insulti rivolti a me stesso che vorticano velocemente nella mia testa. ‹ Poi però è diventato tutto... troppo. Mi ero dimenticato quanto fosse rischioso per me sentire ogni cosa. Le belle sensazioni erano adrenalina pura, ma quelle brutte... puoi vederlo da te, cosa fossero. › Erano letali, un biglietto da visita per una morte desiderata, accattivante col suo richiamo insistente. E' ciò che va oltre il disturbo ossessivo intermittente. E' il dolore di traumi che stringono fittamente le mie memorie, soffocando ogni cosa bella per riportare alla mia mente una ed una sola immagine, di una corda scricchiolante con un cadavere appeso ad essa in mezzo ad un bosco. Niente per cui si possa andare in giro sorridendo spensieratamente. ‹ Questa è la mia condanna. Sentire poco o affatto. Dubito ci sia redenzione per me. › Ciò che devo imparare è solo abituarmi di nuovo a tutte le necessità di cui mi sono dimenticato per un po'.

     
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    Era certa che Alexander potesse capire l'incertezza che l'accompagnava rispetto al suo rapporto con Roy e - in definitiva - rispetto ad ognuno dei pochi rapporti che poteva dire di aver stretto. L'indole del Drayton non era certo quella di chi sapeva amarsi abbastanza da potersi dire sicuro che gli altri gli sarebbero rimasti sempre accanto, a prescindere dai suoi difetti e dalla misteriose svolte che la vita avrebbe portato con sé. Lei, dal canto suo, aveva sempre creduto che il legame con il suo gemello fosse l'unica certezza che possedeva, insieme alla propria dannazione. Aveva creduto per molti anni di possedere un'anima condivisa, il cui altro detentore era Luis e ciò le era sempre parso così naturale da non causarle alcuna preoccupazione. Abituata per anni a non possedere niente, Cassandra era ben poco avvezza al concetto di proprietà: al punto che giusto la propria anima - incrinata, sporca, scheggiata - le apparteneva davvero ma non era unicamente sua, la condivideva con colui con il quale aveva sempre condiviso tutto a partire dal grembo materno. L'arrivo dei gemelli in accademia aveva messo a dura prova quella sua certezza. Quel luogo aveva offerto loro molte opportunità, stimoli ed occasioni, così tanti da riuscire chissà come a separare i bordi del loro punto di congiunzione. E da quando si erano separati Cassandra sentiva che lo spazio fra loro si allargava un po' di più, ad ogni loro respiro. Per questo respirare era sempre più doloroso.
    Sono abituata a prepararmi sempre al peggio. Possiamo chiamarla negatività, ma anche prudenza. O realismo.
    Realista. Si era sempre considerata tale, malgrado il paradosso legato alla sua credenza in una realtà ultraterrena e intangibile, in un Dio che non la riconosceva come figlia malgrado lei lo pregasse ogni sera e cercasse il suo perdono, una redenzione che mai sarebbe arrivata. La situazione che si era creata tra lei e il fratello aveva rafforzato l'idea che, infondo, non esistesse alcuna certezza in quella vita. Anche ciò che sembrava puro e intoccabile era destinato a deteriorarsi, in particolar modo se a viverlo era un'anima corrotta come la sua. Chissà se, pur non avendolo espresso in quei termini, un pensiero affine si era affacciato anche nella mente di Alexander. Era propensa a ritenerlo probabile.
    Con il referto tra le mani, Cassandra si limitò ad annuire di fronte alla decisione del ragazzo. Non sapeva se tornare al campus gli avrebbe fatto bene - non ne aveva davvero idea, suo malgrado - ma era abbastanza certa che l'accademia fosse un luogo migliore di quello in cui il biondo si trovava adesso. Quella clinica era pulita, ordinata, asettica. Il personale le era parso gentile e disponibile, ma si trattava di persone predisposte a curare il male che si annidava negli ospiti di quella struttura. Per loro chi era lì dentro aveva in sé qualcosa di sbagliato, di malato, qualcosa che andava modificato. Questo la atterriva, rendendo tutta quella immacolata pulizia qualcosa di estraneo e agghiacciante. Non avrebbe mai voluto trovarsi rinchiusa in un luogo simile e non voleva nemmeno che Alexander rimanesse troppo a lungo lì dentro.
    I suoi occhi esitarono a lungo sulle parole vergate da un medimago o forse da più di uno di loro. Psichiatri, si chiamavano. Medimaghi che studiavano il cervello delle persone e decidevano cosa non andava. Ma quelle parole, così come la voce di Alexander, la confondevano.
    Non sono sicura di capire..
    Perché ti trovi qui. Perché era disposto a farsi contenere in quel modo, sedare e imprigionare. Per Cassandra ogni eventualità era meglio di una prigione, una gabbia. Anche quella di perdere il controllo di fronte ad eventuali minacce. Le ci volle qualche istante e ancora qualche parola del Drayton, per rendersi conto del particolare che non aveva considerato.
    Oh. mormorò, sollevando gli occhi dal foglio e puntandoli sull'amico con un misto di comprensione e solidarietà nello sguardo Tutta questa rabbia che provi.. non si trasforma in aggressività solo con le persone che si guadagnano il tuo odio. Ma anche con le persone che ami, giusto?
    Era per loro che Alexander era disposto a drogare sé stesso, ammutolire le sue emozioni e i suoi sentimenti. Non era disposto a correre alcun rischio che mettesse in pericolo la loro incolumità: voleva proteggere suo fratello, Jerome, i Rocha. Compiva quel sacrificio per chi gli era più vicino.
    E l'angoscia diventa un'arma che rivolgi contro te stesso.
    E forse lo faceva un po' anche per sé stesso. Perché il prezzo per la libertà poteva essere talmente alto da coincidere con la sua stessa vita, come suggerivano le bende attorno al suo collo diafano. Un prezzo che il Drayton non era evidentemente disposto a pagare.
    Tu sei coraggioso, Alexander. Non so se io potrei accettare un simile compromesso.
    Spinse il foglio lungo la superficie del tavolo che li separava, per restituirglielo. Lo fece confessandogli la sua ammirazione, perché aveva molti dubbi sulla propria eventuale capacità di dimostrarsi altrettanto forte. Il suo attaccamento alla vita era per sempre compromesso, a volte sostenuto solo dalla paura dell'Inferno. E non sapeva se il suo amore per il prossimo fosse forte quanto il suo smisurato bisogno di spezzare ogni tipo di catena minacciasse di serrarsi attorno a lei.
    Non esiste un rimedio definitivo, quindi? Non hai una chance di cambiamento?
     
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    Riverdermi nelle parole della Rocha è facile, automatico. I nostri schemi combaciano, vertono sugli stessi angoli e da lì tracciano le pareti di poligoni equivalenti. Se anche cambiasse uno solo dei nostri lati, l'area di ciò che resta incatenato alle nostre anime rasenta una perpetua uguaglianza. Non è solo l'essere schivi, neanche mantenere una calma quasi funerea dinanzi alle altre persone. Ci sono tanti frammenti rinchiusi nel nostro petto che raccontano più di quanto l'apparenza dimostri. E straordinariamente, collimano. Si accostano senza difficoltà. Ci permettono di capire anche quando niente dell'altro ci sembra chiaro. Accompagno Cassandra in questo mondo sconosciuto un po' a tutti. Le tengo la mano, guidandola in una metafora che apra i suoi occhi ad una realtà diversa. E la sua visione, per quanto dettata da un'ingenua inconsapevolezza, ha per un attimo il potere di sollevarmi dalla vittimistica pessima opinione che ripongo in me stesso. Mi dipinge quasi come l'eroe che ho davvero creduto d'essere. Simili anche in questo. Dopo anni d'inferno, però, mi è toccato compiere un passo avanti di cui lei non potrà ancora rendersi conto. ‹ Forse con loro anche di più. › Pronuncio mesto, un principio di vergogna a curvare verso il basso i tratti stanchi del mio volto. ‹ Immagina quanta rabbia si accumuli in me nel momento in cui una persona a cui tengo mi ferisce. E poi moltiplicala per cento. › Un calcolo celere, indefinito, non così lontano dalla realtà. Non c'è modo di quantificare la mia rabbia, né il grado del mio dolore. Non si può mettere un freno alla mia esasperazione, né attutirne a comando gli effetti. Così una volta rischio di strozzare l'Hollingsworth, ma mi fermo in tempo, mentre a Jerome tocca portare il gesso alla gamba per un mese. Questo è l'altalenante grado del mio dolore. E tali esplosioni non sono che l'acuirsi di un malessere perenne che è forse l'unico dettaglio davvero capace di farsi notare in me. Bel concentrato di merda, la mia vita. La mia persona. ‹ Coraggioso perché svolgo un dovere morale verso la società? O perché scappo dal farmi internare a vita? › Sono parole esasperate, pronostici lontani dall'avverarsi che della verità ne hanno solo il fondo. Briciole di prospettive che mi terrorizzano e che, pertanto, non mi aiutano a vedere il coraggio che Cassandra mi cuce addosso. E' esattamente l'opposto. Non sono destinato a visioni diverse di me. ‹ No.› Rispondo secco, rassegnato e disilluso, al suo ultimo quesito. ‹ Posso tenerlo a bada e fingere di controllarlo per il resto dei miei giorni. Non so se col tempo imparerò a gestire meglio le emozioni, ma forse adesso non sono abbastanza... maturo, per fare a meno di tutte queste medicine. La mia mente non è pronta. › La terapia comportamentale da sé non mi aiuta per un cazzo. Non lo fa perché non sono volto al cambiamento. O al miglioramento. Sono intrappolato nella paura di cedere, di cadere e non rialzarmi più. Peggio ancora, di annientare chi mi è intorno. A qualcuno è già successo. Fingo indifferenza, ma i sensi di colpa divorano con ferocia la tranquillità che ricerco in una fittizia guarigione. Così non guarisco. E le mie colpe non si espiano. ‹ Non sono coraggioso, Cass. Sono solo un matto che segue le regole per non farsi sedare o rinchiudere in una camicia di forza. › Di nuovo, la pongo davanti alla realtà. La mia. Paleso il livello della mia depressione, dando di me un'immagine che le ho sempre evitato: quella di un lagnoso ragazzo spaventato da se stesso. ‹ Mi spiace non avervi detto nulla prima. Non ero pronto e, sarò sincero, dubito lo sarei stato se non mi fossi legato quella corda del cazzo al collo costringendovi a venire qui. › Sincero, lo sono. Credo sia l'unica cosa che possa offrirle adesso. Sempre. ‹Jerome era l'unico a saperlo. › Solo questo, in parte, potrà spiegarle la natura del mio spasmodico attaccamento al rosso. Solo in parte, però...

     
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    A volte le capitava di immaginare una versione ancora peggiore di sé stessa. Non era difficile, perché tutta la rabbia e la violenza che vivevano in lei avevano sempre smaniato per emergere: il fatto che finora lo avessero fatto in modo contenuto, o quantomeno indirizzato solo a chi le stuzzicava, non era di certo un'assicurazione per il futuro. Immaginava un giorno in cui il Male che albergava in lei si sarebbe risvegliato a tal punto da trovare una necessità di sfogo indiscriminata: un'esplosione che avrebbe coinvolto persone innocenti e magari anche persone che aveva accanto. L'idea la spaventava molto, poteva quindi immaginare quanto dovesse essere terrificante per Alexander sapersi potenzialmente pericoloso per chi gli era più vicino.
    Deve essere devastante.
    Non era pur vero che che erano le persone più vicine a qualcuno quelle che potevano ferirlo maggiormente? Cassandra ricordava molto bene la rabbia provata verso Roy quando lui aveva creduto alle parole di Hyram e aveva deciso prima di prendere le distanze e poi di affrontarla dando per scontato che il Price gli avesse rivelato una verità che lei gli teneva nascosta. Avrebbe potuto aggredire Roy quel giorno? A ripensarci adesso, le sembrava di no. Eppure..
    La sua mente corse subito a Luis. La sua anima, la sua metà o il suo doppio. Il gemello con cui aveva stabilito e condiviso un rapporto di interdipendenza da quando aveva memoria. Forse a volte desiderava farlo soffrire per punirlo, per ripagare con la violenza il dolore che il suo distacco le provocava scavando una ferita sempre più profonda, giorno dopo giorno, dentro di lei.
    Se Alexander rischiava di rivolgere la sua incontenibile ira su chi amava di più la colpa non era sua. Il biondo era vittima del giogo della sua biologia o di qualunque altra cosa si trattasse. Natura, in sostanza. La medicina poteva tenerlo a bada. Ma niente avrebbe tenuto a bada lei se il Male che si portava dentro l'avesse spinta così in là. Lucifero non poteva essere sedato: se così fosse stato, Dio non avrebbe dovuto confinarlo nelle profondità degli Inferi.
    Un dovere verso la società? quell'ipotesi la lasciò incredula per qualche istante, per poi disegnare un sorriso amaro sulle sue labbra No, non avrei dato tanta importanza a questo. Sei coraggioso perché sacrifichi la tua libertà per proteggere le persone a cui tieni.
    Se non vi era del merito in questo, non poteva essercene in nient'altro. L'amore per il prossimo era il merito più assoluto, il comandamento supremo. Qualcosa di cui Cassandra temeva da sempre di non essere capace. Non credeva, infatti, che sarebbe mai riuscita ad imporsi di piegarsi ad un controllo chimico, una gabbia farmacologica, per poter tutelare gli altri. Forse, il massimo che avrebbe potuto fare, sarebbe stato fuggire: mettere tra sé stessa e le persone a cui teneva abbastanza distanza da porle al di fuori del suo raggio d'azione. Avrebbe potuto in questo modo offrire una protezione a loro, mettendo in pericolo altre persone, colpevoli o innocenti che fossero.
    Ho capito. Tu speravi che lo fosse.. ed è successo tutto questo.
    Annuì, con aria malinconica. L'idea che Alexander avesse creduto nella possibilità di possedere una forza che invece non lo aveva sostenuto la rendeva triste. Poteva percepire il peso del fallimento che l'amico si portava addosso: lo avvolgeva come un mantello pesante da cui non sarebbe mai stato in grado di liberarsi. Il segno attorno al suo collo sarebbe stato un terribile memento che si sarebbe portato dietro per tutta la vita, a meno che non scegliesse di liberarsene con la magia. La Rocha era abbastanza sicura che non lo avrebbe fatto.
    Stavi facendo i conti con il tuo Inferno personale, non eri tenuto a parlarne con gli altri. scosse la testa decisa, lo sguardo improvvisamente irrequieto, acceso di risentimento verso un nemico immaginario: come se qualcuno avesse davvero osato insinuare che Alexander gli doveva delle scuse, che doveva fare ammenda per la propria riservatezza. Una questione più personale di quanto non si potesse pensare, per Cassandra Rocha Tu non devi chiedere scusa a nessuno.
    Chi nutriva aspettative nei confronti del Drayton avrebbe dovuto chiedergli scusa. Lui non apparteneva a nessuno e dunque nemmeno i suoi pensieri o le sue emozioni. Poteva tenere per sé ogni cosa e Cassandra comprendeva perfettamente quella scelta. Una decisione che implicava un senso di solitudine, forse per questo prevedeva rare eccezioni. Per lo scozzese l'eccezione era Jerome, il che non la sorprendeva.
    Capisco.
    Volle dirgli solo questo, rimanendo seduta senza accennare ad allungare una mano verso di lui cercando un contatto di qualche tipo. Apprezzava il fatto che Alexander avesse deciso di confidarsi anche con lei ora, dava ovviamente una grande importanza ad un atto del genere, ma proprio per questo si sentiva depositaria di una fiducia che voleva rispettare. L'invadenza non le apparteneva, era pronta all'ascolto e sperava che questo fosse palese a quel ragazzo che infondo ormai aveva imparato a conoscere almeno certi aspetti di lei, del suo carattere e del suo modo di comunicare. Tacque per qualche istante, rimuginando sul ruolo che il Morrow doveva aver avuto fino a quel momento.
    E come va con lui? chiese con cautela, intenzionata a non essere troppo specifica così che lui potesse svicolare se lo avesse desiderato Il tuo rapporto con Jer è.. intenso. I rapporti intensi sono dolorosi, per quello che so.
    E quello che sapeva era ovviamente collegato alla sua esperienza con il gemello, questo Alexander poteva facilmente intuirlo. Alexander e Jerome non avevano la stessa interdipendenza e il loro rapporto non era segnato dalle stesse componenti ossessive - questo era ciò che pensava la brasiliana, convinta che nessuno potesse comprendere il legame gemellare - ma erano profondamente legati, questo le era stato chiaro fin da subito.
     
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    Devastante, è un termine che mi si addice perfettamente. Si posa con paradossale delicatezza sulla mia pelle, sui miei modi, sulle espressioni del mio viso, lasciando intravedere i contorni della mia disfatta oltre quel velo impercettibile. Ho finto di controllarlo applicandomi con menefreghismo a qualunque cosa mi circondasse, ma fingere non è un lavoro che può andare avanti per sempre. Ci ho creduto, ma gli eventi mi hanno smentito in men che non si dicesse. Così torno a cercare il mio posto nel mondo, rendendomi conto di non poterlo più trovare al fianco della Rocha o di chiunque sia adesso a conoscenza delle mie condizioni. Adesso sono un fenomeno, sono la corda appesa al soffitto di quella stanza, la cicatrice che mi tange il collo, le pillole che ingoio ogni mattina. Sono un numero su una cartella clinica, un camice alternato alla tuta e al pigiama. Sono i soldi che mia madre investe nelle mie cure e quelli che lo Stato somma come il migliore degli strozzini. Sono così tante cose che credere di poter vestire ancora i panni di Alexander, di Jonas o di un amico mi risulta una realtà lontana, irraggiungibile. ‹ Sarebbe comunque una libertà dannata. › La diagnosi è una dannazione. Adagiarmici è la resa che l'accompagna. Non c'è modo perché mi senta libero come ciascun essere umano dovrebbe, quindi suppongo questa sia l'alternativa migliore. Quella in cui non faccio male agli altri... non fisicamente. Per un attimo mi lascio tuttavia accarezzare dalle giustificazioni della ragazza, lo sguardo vacuo ad accendersi di una speranza piccola ma persistente mentre faccio i conti coi miei silenzi. Che lei li accetti, mi rincuora più di quanto non riesca a dimostrare. Non è sempre stato così però. Le variabili di questa storia sono infinite. A qualcuno fa più male sapere che essere all'oscuro dei miei drammi. Potrei tracciare uno schema per ogni persona facente parte della mia vita. Ognuno sarebbe completamente diverso dagli altri. Linee opposte, curve e spigoli che non si incontrano mai. Alla fine della fiera, ad unire il tutto è un unico elemento comune: puro caos. Ed io forse non ci sto così male in questo scarabocchio di pece e disincanto. Mi basta la comprensione di Cassandra, abbastanza gradevole da permettermi di tirare un sospiro di sollievo. Quando poi è Jerome a diventare l'epicentro del nostro interesse, mi sembra di liberarmi di un ulteriore peso. ‹ Va bene, credo. › Una risposta semplice, troppo per definirsi reale. Troppo per noi. Intricati come poche persone al mondo, abbiamo incastrato a forza i nostri bisogni e le nostre paure e ne è venuto fuori un disastro anche peggiore di tutti gli altri. Stiamo lentamente districando quel nodo. Non so se sia la sua eccessiva apprensione nei miei riguardi, così simile alla mia per lui, ma ascoltarci per una volta potrebbe finalmente riportarci alla normalità. ‹ Abbiamo avuto più bassi che alti, però ora penso vada... meglio. › Meglio. Non benissimo, neanche alla perfezione. Ma meglio, è già un primo passo verso il benessere che entrambi meritiamo. ‹ Devo solo assicurarmi che non si convinca anche lui di essere colpevole di ciò che mi è successo. › Troppe persone si immischiano nel rapporto tra me ed il mio cervello. Nessuno dovrebbe prendersi la briga di dirsi fautore dei miei mali. Il solo pensiero mi avvilisce anche di più, al punto da costringermi a sollevare lo sguardo verso l'altra ed indurmi ad indagare persino su di lei. ‹ Tu lo sai che non è colpa di nessuno, no? › Né lei né nessun altro avrebbero potuto prevedere o impedire ciò che, per il rotto della cuffia, non è andato a termine.

     
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    Quale libertà non lo è?
    Quell'interrogativo scaturì spontaneo dalle sue labbra, intriso di quell'amarezza che così di frequente connotava i suoi commenti sulla vita e sul mondo. Sapeva bene che una frase simile non era di immediata comprensione, a suo avviso si prestava a svariate interpretazioni e non era sicura di sapere quale sarebbe stata quella del biondo. Lei, dal canto suo, aveva un rapporto strano con i concetti di prigionia e libertà. La prigionia era ciò che rifuggiva più disperatamente, ciò che più risvegliava la sua paura e soprattutto la sua rabbia, un destino che avrebbe evitato a qualunque prezzo: avrebbe sacrificato tutto per assicurarsi la sua libertà. Qualunque cosa o persona. E tuttavia.. la libertà, in sé e per sé, era dannazione. Lo era nel momento in cui essere liberi significava esserlo anche dalla morale, da Dio e dal peso del suo giudizio. Dalla minaccia di una sua punizione. Lei non si sentiva in trappola, ma nemmeno realmente libera poiché ancora temeva Dio.. e d'altra parte pensava che se davvero lo fosse stata, la dannazione che già era parte del suo destino si sarebbe realizzata prima del tempo, senza che vi fosse la morte a decretarne il principio.
    Era un pensiero contorto, forse sostenuto da una logica traballante, frutto di un terrore irrazionale. Libertà e prigionia: non vi era scampo per lei.. nessuna possibilità di redenzione. Ma Alexander aveva scelto le catene, pur di proteggere le persone che amava. Cassandra si chiedeva se ciò fosse completamente folle o se lo rendesse invece degno di ammirazione.
    Sono sicura che non lo pensa. Perché dovrebbe?
    Tra le complesse e contraddittorie sfaccettature del suo rimuginare, le parole di Alexander si insinuarono come un'osservazione inaspettata. La Rocha gli aveva chiesto di Jerome perché aveva avuto modo di osservare che l'amicizia tra i due aveva qualcosa di inusuale, se paragonata a quelle tra le altre persone che conosceva, qualcosa di estremamente complesso a livello emotivo. Tuttavia, non si aspettava che lo scozzese potesse nutrire simili dubbi circa i pensieri dell'amico. Come avrebbe potuto, una persona come Jerome, spingere qualcuno a tentare il suicidio?
    Potrei dare la colpa a qualcuno se sapessi che nella tua vita c'è chi te la rende insopportabile. lo rassicurò, certa che Jerome non potesse rivestire un ruolo del genere nella vita di nessuno A volte.. succede.
    Pensare ai Rocha fu inevitabile. Tutti i membri di quella famiglia, genitori e figli, avevano reso l'infanzia dei gemelli un vero martirio. L'unica ragione per cui Cassandra non aveva mai pensato alla morte era che prendere quella strada sarebbe equivalso a raggiungere prima del tempo l'Inferno che la attendeva. Se non avesse avuto quella paura, la brasiliana era abbastanza sicura che anche a nove o dieci anni sarebbe già stata in grado di considerare una simile possibilità.
    Mi sembra di aver capito che la tua guerra non è contro un altro individuo.
    La guerra del Drayton era di natura ben più complessa: una guerra contro sé stesso. Cassandra ne sapeva qualcosa, anche se lei ed Alexander avevano un modo un po' diverso di gestire i loro conflitti interiori, quella sofferenza li accomunava. I dubbi di Alexander sul Morrow, però, avevano sollevato in lei un'ipotesi che non le veniva così difficile considerare realistica.
    Credi che per Jer sarà difficile accettare che non avrebbe potuto fare niente per impedirlo, non è così?
     
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    5vexKdd
    E' un tratto comune il cinico pessimismo che ci contraddistingue. Siamo soli contro un universo di colori, due puntini neri che guardano attorno a sé non distinguendo i dettagli che gli altri ci mettono sotto il naso. Una macchia sfocata di idee che non condividiamo, cui ci allontaniamo stracciandole sotto la prepotenza di una volontà irrealizzabile. Irrealistico. Una porzione d'esistenza a parte, in cui nessuno riuscirebbe ad entrare. Ed al contempo, non occupiamo lo stesso spazio l'uno accanto all'altra. Ci prendiamo la nostra fetta di mondo, osservando tra quelle pareti trasparenti il traballante profilo dell'altro. Io vedo Cassandra. Cassandra vede me. Rispettiamo i nostri spazi, sino a capirci. Non abbiamo però abbastanza coraggio per unirli in una chiarezza maggiore. Per questo non indago su molte delle sue uscite infelici. Perché dovrei? Braccarla, metterla al muro, puntarle in faccia un faro di giudizio è l'ultimo dei miei interessi. ‹ No. Io lotto contro nessuno e contro il mondo intero. › Scivola con paradossale limpidezza quel pensiero contorto. Una congettura articolata che si risolve in modo piuttosto semplice: l'odio verso me stesso. Non torno comunque a soffermarmici. La nostra attenzione si sposta su altro, in parte su Jerome, in parte su un insieme di cose più grande. E' quello che comanda i miei istinti. Quello ciò da cui mi proteggo, ed ancora, ciò che io stesso proteggo. Un universo di rubik. ‹ E non sarebbe comunque colpa di quell'unico individuo. › Le spiego ancora, cercando di esaudire ogni dubbio che sorge sulla punta della sua lingua secondo dopo secondo. ‹ E' che non c'è una colpa, ce ne sono milioni, ma l'unica responsabile di tutto è la mia testa incapace di sopportare il resto. › Fingo di non dare la colpa a me stesso. Lo faccio di continuo e forse perdonarmi è l'unico vero modo per venirne fuori. Fingere di farlo potrebbe abituarmi sino a realizzare quella volontà. Lo spero. ‹ Lui però tende a darsi colpe in continuazione... e lo capisco, l'ho fatto anch'io tante volte. › Jerome. Io e Jerome. Posti su un piatto d'uguaglianza, sotto gli occhi attenti di chi ha già potuto cogliere le nostre rare e silenziose similarità oltre i vertici opposti dell'apparenza. ‹ Quindi credo sia questo. Ma lo aiuterò a capire che non poteva prevederlo e che ormai è... passato. › Passa davvero? C'è un modo per rendere meno vivida la cicatrice che segna il mio collo? Esiste una forza di volontà abbastanza grande da ignorare le pennellate rosse che tingono di sbiadito malessere la mia pelle? Questo sta a noi, alle nostre menti. Ancora una volta, sono loro a capo di tutto. Ed è nei pensieri di Cassandra che ripongo speranza. Nella consapevole scissione che riesce ad applicare a ciò che è dipeso da me e da nessun altro. ‹ Sono contento tu la veda diversamente. › Pronuncio quindi visibilmente sollevato, spento nelle mie manifestazioni ma colto da un brillio soddisfatto agli occhi. Uno che spero percepisca, mentre rilascio un buffetto affettuoso e poco incline ai nostri approcci sul dorso della sua mano. Niente braccio, neanche guancia. Solo un mesto ringraziamento per l'interesse. Per non avermi spinto a sentirmi anche più in colpa. Per non aver alimentato il disagio provato. Per aver ascoltato, a prescindere dalla comprensione che possa riservarmi o meno. ‹ Ed anche che tu sia qui. ›

     
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    Contro nessuno e contro il mondo intero. La guerra di Alexander, pur apparendo sotto certi aspetti affine a quella di Cassandra, in realtà si distaccava da essa per una particolarità non indifferente. Se entrambi se la prendevano con sé stessi considerandosi colpevoli imperdonabili, le altre colpe venivano distribuite in modo differente: il Drayton avrebbe voluto addossarle al mondo - anche se sembrava non riuscirvi del tutto - mentre lei le attribuiva in tutto e per tutto a Dio, poiché era quest'ultimo a determinare tutta la realtà che la Rocha conosceva. Era lui a non donarle il suo perdono e a condannarla in eterno, senza possibilità di ammenda.
    Già.. lo capisco.
    Quello che però la brasiliana sentiva di comprendere, senza alcuna esitazione, era proprio la rabbia che Alexander dedicava a sé stesso. L'odio e la frustrazione verso "quella testa incapace di sopportare il resto" non era infondo solo un'altra rappresentazione mentale delle emozioni in cui si dibatteva lei stessa? Per lo scozzese la chiave interpretativa era la malattia mentale, per Cassandra il Male insito nella sua anima, le tenebre che un angelo caduto aveva insinuato in lei fin da quando era venuta al mondo. Ma in qualche modo, i due parlavano dello stesso dolore.
    Siamo sempre stati un gruppo di emarginati esperti nel darsi colpe, non credi?
    Osservò con un mezzo sorriso, tra l'ironico e l'amareggiato. Non avrebbe dovuto sorprenderla il fatto che il Morrow fosse tentato di assumersi la colpa di quanto accaduto: infondo, seppure si mostrasse al mondo sotto una luce diversa, Jerome custodiva in sé molte più fragilità di quelle che i più avevano modo di comprendere e lei stessa ci aveva messo parecchio tempo per andare oltre la superficie in cui si era imbattuta inizialmente.
    Ma a Jerome le persone piacciono molto più che a noi. Credo che questo lo aiuterà.
    Ne era convinta. La capacità di Jer di fare amicizia e legarsi al prossimo sarebbe sempre stata una risorsa per lui, permettendogli di poter contare su più persone. Persone a cui né lei né il Drayton avrebbero mai potuto - o voluto - permettere di affacciarsi al loro mondo.
    Immagino che abbia paura che tu possa farlo di nuovo. probabilmente si trattava di una paura comune anche ai familiari di Alexander, era più che comprensibile che le persone che gli erano vicine formulassero un pensiero simile e ne fossero angosciate Ma io non credo che succederà.
    Non avrebbe saputo dire perché si distingueva dagli altri, rispetto a quel timore. Prima di entrare in quella stanza anche lei aveva ritenuto possibile che il biondo tentasse nuovamente nella tragica impresa che lo aveva visto fallire. Eppure ora, dopo averci parlato, sentiva che il ragazzo infondo non era ancora disposto ad abbandonare la vita. Pensava ai sentimenti e ai pensieri di Jerome, a quelli di Cassandra, parlava di quando sarebbe tornato in accademia. C'era ancora troppo della sua esistenza che lo teneva ancorato alla vita: forse aver guardato la morte negli occhi glielo aveva reso più chiaro.
    La brasiliana accennò un sorriso, quando l'altro affermò di essere contento della sua visita. Si era fatta venire qualche dubbio al riguardo, ma ora sapeva di aver fatto la scelta giusta.. almeno questa volta. A volte le persone non sapevano di volere qualcuno accanto, eppure era così: era successo persino a lei, si poteva dire che quella fosse la rivelazione che si era manifestata alla sua coscienza da quando era entrata in accademia. Al campus aveva scoperto una dimensione a cui, per la prima volta da quando era venuta al mondo, desiderava di appartenere: pur non riuscendoci mai del tutto, una parte di lei continuava a provarci bilanciando così la sua tendenza a respingere il mondo. Odiava spontaneamente quasi tutta la popolazione dell'accademia, inutile dirlo, ma le eccezioni avevano ormai un peso non indifferente per la veggente. Sperava davvero che lo stesso valesse per Alexander.
    Tornerò a trovarti altre volte, se non ti disturbo. disse semplicemente, lanciandogli poi uno sguardo obliquo O ti farò evadere da questo posto, se ti accorgerai che è quello che vuoi.
     
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