fatherly love

privata

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    La fortuna aiuta gli audaci, direbbero gli stolti, coloro che si accontentano del caso. Io non mi sono mai accontentato. Ho sempre costruito da me il mio percorso, ed è il motivo per cui sono arrivato in alto superando tutto e tutti. Ho deciso di spostare all'ultimo minuto l'appuntamento prefissato. Non più al ministero ma nel mio ufficio privato nel capoluogo danese. Un incontro formale, certo, ma che avrà risvolti interessanti per il sottoscritto. Accolta la richiesta del procuratore inglese di essere momentaneamente sostituito dalla sua assistente a causa di un malore, attendo e faccio attendere. Quando ormai la luna è alta nel cielo e nell'edificio preposto siamo rimasti io e la ragazza oltre questa porta, mi decido a farla entrare.
    Un sorriso disteso sul volto ed una mano ad indicarle la sedia su cui la invito ad accomodarsi.
    “Mi spiace averti fatto attendere.” Mi scuso per pura cortesia. Avere un atteggiamento distaccato così diametralmente opposto a quello dimostratole nel nostro ultimo incontro, è una tattica atta a confonderla. Non ho bisogno di sentirla parlare per percepire il suo odio e rancore nei miei riguardi. Eppure, oltre quello e la paura, so di poter fare affidamento sull'ammirazione provata nei miei riguardi. Io, suo padre. Sarò un tasto essenziale per me.
    “Non mi stupisce vederti qui in questo studio. Sapevo che avresti fatto strada, Daphne.” Le porgo complimenti che pungoleranno il suo ego. Ammirazione, accettazione. E' quello che ha sempre desiderato ed io glielo sto offrendo. “E sapevo saresti ritornata da me.” Aggiungo poco dopo con un sorriso, voltandomi verso di lei ed attendendo qualche istante prima di continuare. “Ho saputo del tuo incidente. Non ne sono sorpreso. Hai già sporto denuncia verso i colpevoli?” Il mio sguardo lascia intuire più verità di quanto io sia disposte a rivelarle adesso. Dopotutto, immagino lo sappia, i miei occhi sono ovunque.


     
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    Aveva faticato a capacitarsi della crudele ironia della sorte. Le sembrava così assurdo, una coincidenza di una tale precisione da non apparirle realistica: come se una simile tortura fosse stata architettata apposta, con dovizia di particolari e con un perfetto e ineccepibile gusto sadico. Non si trattava solo delle forti e violente emozioni che l'avevano assalita di soppiatto, azzannandola alla gola, sotto le sembianze di quell'incarico del tutto inaspettato e decisamente improvviso. No, Daphne aveva seriamente preso in considerazione l'idea che persino il malessere del procuratore per il quale svolgeva il suo tirocinio fosse opera di Bachskov, parte del suo disegno persecutorio nei confronti dei suoi stessi figli. Si era resa presto conto di come tutto ciò suonasse ai limiti dell'irragionevole, eppure faticava ancora a mettere da parte quell'inquietante convinzione, segno di quanto pesasse su di lei il giogo della paura.
    Era stata contenta di poter cogliere una simile opportunità, naturalmente, almeno fino a quando non aveva scoperto qual' era il giudice con cui avrebbe dovuto interagire. Il Ministero del Nord contava ovviamente innumerevoli giudici - nella corte del Wizengamot e non solo - così come ogni altro Ministero Magico su cui la Mikkelsen si fosse mai documentata, ma sfortunatamente il suo incontro era previsto con l'unico tra loro che mai avrebbe voluto trovarsi di fronte. Ciononostante, si era detta di non poter rifiutare: e non soltanto per non deludere il procuratore o per non lasciare una nota negativa nella valutazione sul suo tirocinio, ma anche perché sapeva di non poter accettare che suo padre la privasse di qualcosa di così importante per il suo percorso. Di nuovo. Ma ora, seduta nella sala d'attesa dello studio privato di suo padre, Daphne si sentiva più tesa che mai. Doveva incontrarlo al Ministero e invece si era ritrovata in un luogo tutt'altro che pubblico e ad un orario ben diverso da quello previsto. E quella non era una coincidenza, né un suo delirio paranoico.
    Aveva comunicato i dettagli del suo incarico fuori sede solo ad Harumi, Jerome e Nick. Loro erano gli unici a conoscere ciò che si celava dietro la maschera del giudice potente ma integerrimo, quell'uomo altero ed elegante che in tanti non potevano fare a meno di ammirare con una certa deferenza. Haru era stata l'ultima a conoscere certi dettagli, l'unica con cui Daphne si fosse ritrovata a confidarsi durante l'ennesimo crollo: per quanto non potesse dire di essersene pentita, la danese si preoccupava spesso nell'immaginare le possibili conseguenze di quella sua scelta. Haru, invece, al momento era più che altro preoccupata per Daphne, la quale le aveva promesso di contattarla non appena quell'incontro si fosse concluso.
    Entrò silenziosamente, cercando di ostentare tranquillità. Si impose di sostenere lo sguardo dell'uomo che la invitava a sedersi, di ignorare il suo sorriso e l'ansia che le provocava.
    Nessun problema.
    Mentì, prendendo posto. Il problema c'era eccome, ma si presumeva che Daphne dovesse comportarsi in modo professionale in un contesto simile e lei era davvero intenzionata a provarci. Per questo si ostinò a mantenere un apparente controllo di fronte alla cortesia che Soren le stava mostrando, una gentilezza che appariva del tutto dissonante rispetto agli ultimi due incontri che avevano avuto.
    Il giorno in cui ho lasciato villa Bachskov mi hai detto che sarei diventata un pessimo avvocato, hai cambiato idea in fretta.
    E così le erano bastate poche parole per mandare in frantumi tutti i suoi buoni propositi. Nessuna distanza: solo dolore e risentimento. Soren di certo ricordava di averle sputato addosso una simile sentenza, quando lei aveva dichiarato di credere alla verità che Jerome le aveva raccontato, così come a quella di Helena su Volhard. E se invece l'uomo lo aveva scordato, beh.. questo non valeva per sua figlia: la sua memoria per ogni giudizio positivo o negativo espresso dal padre nei suoi confronti era sempre stata impeccabile. E questo non era cambiato.
    Io non..
    Tornata da lui. Quel concetto l'aveva colta alla sprovvista, era riuscita a spiazzarla malgrado fosse entrata in quella stanza aspettandosi esattamente qualcosa del genere. Com'era possibile, quindi? Sentì una morsa stringersi attorno al suo cuore e faticò a sostenere lo sguardo dell'uomo che aveva davanti. Suo padre. Era sempre stato il più affascinante, il più carismatico e il più elegante dell'intera sala di ogni ricevimento di lavoro che Daphne aveva organizzato e supervisionato per lui. Spiccava tra la massa, persino se si trattava di una massa così appariscente. In passato la rossa si era anche chiesta se non fosse proprio quello il motivo per cui le sue relazioni non superavano mai la soglia dei quattro mesi: nessun ragazzo reggeva il confronto con il modello maschile che aveva potuto ammirare sin da bambina. Ora sapeva che il motivo delle sue intermittenze relazionali era un altro. Sapeva anche che Soren Hans Bachskov era un mostro che indossava costosi completi su misura e che sapeva esattamente come sorridere in modo accattivante, quando ve ne era la necessità.
    Sono qui per ragioni lavorative. Il procuratore Miller vuole assicurarsi che esamini questo fascicolo in mia presenza, così da poter arginare eventuali difficoltà nel coordinamento dei due Ministeri su questo caso.
    Si aggrappò a questo, a ciò che sapeva di dover dire. A ciò che voleva cercare di fare al meglio delle sue possibilità. Parlò accelerando il ritmo del suo eloquio, non tanto da risultare ridicola, ma abbastanza da lasciar intuire la sua tensione mentre posava un grosso fascicolo sul piano della scrivania che li separava. Si concesse di sperare che ciò avrebbe almeno creato un diversivo temporaneo, trovandosi invece raggelata dalla successiva domanda che il padre le rivolse. Come sempre, lui sapeva ogni cosa.
    L'auto ha fatto inversione e si è dileguata. A quanto pare erano tutti troppo agitati per prendere la targa quindi.. dubito che la mia denuncia contro ignoti porterà a qualche risultato. In ogni caso io sto bene, mi è stato fatto di peggio.
     
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    «Ed è un caso il procuratore Miller abbia scelto proprio te per questo caso?» Insinuo il dubbio nella sua mente di essere qui perchè l'ho voluto io. Non sarebbe poi così irreale. È cresciuta con me, sa che tipo di influenza ha il mio nome ed il mio ruolo sugli altri. Crede cambierebbe qualcosa soltanto perchè ha intenzione di esercitare in un'altra nazione? Le sorrido.
    I giovani sono così ingenui.
    Scuoto il capo fintamente affranto ed amareggiato dalla sua spiegazione. Mi sembra chiaro ci siano dei dettagli che tiene per sé, ma non la spingo ad esprimersi. «Babbani. Non puoi mai fidarti delle loro diavolerie.» Le dico, raggirando la scrivania dopo essermi tirato in piedi. Afferro una sedia trascinandola fino accanto a lei. «Quindi... perchè non cominci ad espormi i tuoi dubbi?» Mi siedo compostamente, accavallando le gambe mentre la osservo. Sistemo la giacca, invitandola a continuare. «Sul caso ovviamente.» Aggiungo poco dopo. Un mezzo sorriso sulle labbra sottili. «Io sarò qui di fianco a te ad ascoltarti.»

     
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    Un piede in fallo, un passo nel vuoto. Precipitare. Era questa la sensazione che le parole di suo padre avevano appena suscitato in lei, quelle parole che sotto il mellifluo e innocuo aspetto di una domanda rappresentavano in realtà un'allusione. Soren voleva insinuare il dubbio, il sospetto, nella mente di sua figlia e ci stava riuscendo senza alcuna difficoltà. Non che Daphne potesse dirsi sorpresa di ciò: per anni le aveva trasmesso certezze assolute, quando ciò rientrava nel suo intento e nei suoi desideri di padre padrone, ma allo stesso modo l'aveva resa preda dei dubbi e delle insicurezze che la ragazza era costretta a reprimere e celare, determinata a non deludere il padre in alcun modo.
    In quel preciso momento la mente di Daphne corse proprio ad una delle risorse che usava per tenere a bada i suoi dubbi garantendosi una lucidità mentale sempre costante, innaturale nella sua persistente rapidità e incombenza. L'Adderal forse avrebbe potuto aiutarla anche in quel momento: l'avrebbe aiutata a pensare più in fretta, a districarsi dal groviglio di angoscia che l'insinuazione del Bachskov aveva tessuto dentro di lei, intrappolandola all'interno della sua stessa paura, come fosse la tela di un ragno tesa sapientemente dal subdolo predatore. Ma le sue pilloline magiche, le sue risorse speciali e preziose, erano fuori portata in quel momento e la danese avrebbe dovuto cavarsela da sola, facendo leva solo sul proprio autocontrollo per tenere il punto e non farsi mandare fuori strada dalle affermazioni di quell'uomo, o semplicemente da un suo sguardo.
    Decise che non avrebbe risposto a quella sua provocazione, né si sarebbe espressa ulteriormente circa l'incidente che l'aveva vista vittima qualche settimana prima e su cui lui era ovviamente informato. Anche se non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto sapere nemmeno che Daphne frequentava quel quartiere. Possibile che avesse scoperto addirittura che lei e Jerome lavoravano al Fairy Tale? La Mikkelsen si costrinse a convincersi che non aveva importanza, non in quel momento. Tutto ciò che contava, ora come ora, era uscire da quella stanza il più in fretta possibile: avrebbe avvisato Harumi che era andato tutto bene e la mattina seguente sarebbe partita all'alba, lasciandosi alle spalle le fredde terre del Nord e gli occhi ancor più freddi di suo padre.
    Nessun dubbio: come ti dicevo, devi solo esaminare questo fascicolo e farmi sapere se riscontri qualche incongruenza. allungò una mano posandola sul fascicolo e avvicinandolo al giudice, spingendolo lungo la superficie della scrivania che li separava. Una leggera esitazione accompagnò quel movimento, quasi che la tirocinante avesse il timore che l'altro avrebbe afferrato improvvisamente il suo polso sottile stringendolo in una morsa Probabilmente non dovremo rivedere nulla insieme, quindi quando avrai finito potrò andarmene.
    Voleva che lui sapesse che niente oltre alle sue incombenze lavorative l'avrebbero trattenuta lì. Che per nessuna ragione sarebbe rimasta in quella stanza più a lungo del necessario, che non sarebbe rimasta con lui.. perché tutto ciò che voleva era mettere tra loro più distanza possibile. Eppure ormai il dubbio aveva gettato radici nella sua mente, radici che avevano fatto presa su un terreno fertile e che non sarebbero state sradicate se non attraverso un atto di pura violenza, una violenza che lei doveva esercitare sulla sua stessa mente. Perché Miller l'aveva voluta lì? Perché riteneva che lei, una semplice tirocinante, potesse sostituirlo in un confronto importante come quello con il giudice Bachskov su un caso di risonanza internazionale ed estrema delicatezza? La considerava una ragazza brillante, una promessa del mondo giudiziario. Doveva essere quella la risposta. Eppure ora le suonava così sciocca, si sentiva terribilmente presuntuosa e dannatamente ingenua nel confidare in essa.
    Sarebbe stato assurdo da parte tua volermi qui, dal momento che non mi tratterrò oltre il necessario.
    Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, collegandosi a quell'allusione del padre che prima aveva volutamente ignorato, Daphne avvertì con chiarezza la sensazione di essere stata presa in trappola. Uscire al più presto da quella stanza le apparve, in un attimo, molto più difficile.
     
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    Sorrido. Mi diverte il modo in cui prova a mantenere le distanze, convinta di poterlo fare. Non può. Non ne ha diritto e non ne ha la forza. Ho cresciuto Daphne con un unico grande sole: me. La sua dipendenza affettiva non può essere sparita di punto in bianco, sebbene si stia impegnando a dimostrarmi il contrario. Io le mostrerò quanto ancora e per quanto tempo, la mia presenza avrà valore nella sua esistenza. Io sono la sua esistenza.
    Sfoglio i documenti che mi porge, leggendoli a gambe accavallate. Sul mio volto appare un'espressione poco convinta, quasi stia leggendo qualcosa scritto orridamente. “Lo hai scritto tu?” Gli chiedo con sufficienza, voltando la pagina. In realtà sono poco interessato a tutto questo. È solo un modo di trattenerla più del dovuto, oltre che influire sulla sua sicurezza. Richiudo il fascicolo facendolo ricadere sulla scrivania dinanzi a loro. Scuoto poi il capo.
    “Credi sia il modo più consono di presentare dei documenti ad un giudice?” Le chiedo, indirizzando lo sguardo critico verso di lei. Un ammonimento nel campo in cui crede di eccellere. È una tattica come un'altra. “Forse dovresti riscriverli. Sono un giudice, non un tuo professore. Non posso giudicare obbrobri simili. Aggiungo poco dopo, guardandola. E così, in silenzio attendo. Lascio che gli attimi scorrano prima di interrompere nuovamente il silenzio con argomenti che mi preme di più affrontare.
    “Sai cosa non si può cancellare, Daphne?” Mi avvicino a lei mentre le rivolgo quella domanda. “Il sangue e la famiglia.” Aggiungo poco dopo fermandomi in piedi dinanzi a lei. La guardo dall'alto. La mano ad accarezzare lentamente una ciocca dei suoi setosi capelli rossi. Identici a quelli di sua madre. “Avvicinarti a loro, è l'errore più grande che tu potessi commettere. Tu non sei così.” Annuisco, piegandomi appena per far sì che i nostri sguardi possano incontrarsi. “Dominick è un sognatore disperato, l'altro...” Mi lascio scappare un verso di puro disgusto, evitando inutili epiteti che non servirebbero alla nostra conversazione. La mano si ferma sul suo mento, a stringerlo in una presa ferrea. “Il tuo futuro non è con loro. Lo sappiamo entrambi.”

     
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    Si sentiva in trappola, messa all'angolo sotto ogni punto di vista. Spesso suo padre l'aveva fatta sentire in questo modo, non serviva necessariamente che Daphne lo considerasse una minaccia per la propria incolumità. A volte bastava solo che stesse esaminando e valutando un suo risultato, qualunque cosa la riguardasse, per farla sentire con le spalle al muro. Inerme. In passato, tuttavia, non era mai riuscita ad odiarlo per questo: di tale angoscia aveva sempre incolpato sé stessa, considerandosi eccessivamente emotiva. Una caratteristica che suo padre trovava deprecabile, questo lo sapeva bene. Da una parte, comunque, quelle emozioni le tornavano utili perché - al netto di qualche attacco di panico - la rendevano più produttiva, più determinata nell'inseguire il successo ed evitare il fallimento.. dopotutto, era la pressione a produrre i diamanti.
    Ed ora che lo odiava perché aveva scoperto in lui un demone dispensatore di violenza e dolore, riusciva a sostenere questo odio anche mentre lo osservava studiare i documenti che gli aveva portato? Avrebbe potuto usare quell'odio per rendersi impermeabile alle sue critiche, ma il fatto era che in quel caso non si era preparata a riceverne. Non sul fascicolo che gli aveva appena presentato.
    Li ho scritti io, ma sono passati sotto la supervisione del procuratore Miller. Se vuoi discutere qualche passaggio sono qui per questo..
    Era estremamente difficile per Daphne non allungare la mano, afferrare il fascicolo e farlo sparire nella sua borsa come se si trattasse di qualcosa di osceno, di cui vergognarsi. Era difficile non annuire, assicurare a suo padre che li avrebbe riscritti, che avrebbe fatto un lavoro migliore. Era difficile non chiedergli scusa. Eppure non fece niente di tutto questo, rimase con la schiena dritta e lo sguardo fermo adottando l'approccio diplomatico di chi era pronto a discutere punto per punto ogni dovuto particolare, se vi era davvero qualcosa che non andava nel suo lavoro. Si sarebbe sentita fiera di sé stessa, se solo fosse stata in grado di percepire qualcosa oltre al battito irrequieto del suo stesso cuore. Quando Bachskov riprese parola, sua figlia scoprì di faticare persino a sentire i propri pensieri: quasi che la sua mente fosse violata da un'interferenza. Quell'interferenza era la figura di suo padre, improvvisamente più vicina, erano le sue parole affilate come lame. Le dita che le sfioravano i capelli facendola sussultare.
    Loro sono la mia famiglia.
    L'interferenza. Colpa di quella interferenza se replicare le costava così tanta fatica. L'interferenza era lo sguardo di suo padre, freddo e implacabile, che aveva appena agganciato il suo. Quella mano che ora le stringeva il mento. Come era arrivato a toccarla? Come aveva potuto permetterglielo? Cercò di divincolarsi, sentendosi come un fragile e ingenuo cerbiatto incappato in una trappola. Era così che Soren riusciva a farla sentire: nessun altro uomo aveva mai avuto un tale potere su di lei, nessuna persona avrebbe mai potuto minare così profondamente il suo senso di controllo della situazione, la sua autoconsapevolezza e la sua autostima.
    Io e Jerome siamo più simili di quanto credi.
    Posò le mani contro il torace di Soren e accennò una spinta: come a fargli capire che l'avrebbe spinto via per davvero, con più forza e decisione, se non avesse accettato di scostarsi da lei spontaneamente. Era assurdo come l'idea di non disturbarsi a mandargli prima un avvertimento, spingendolo invece direttamente con più forza, l'avesse appena sfiorata senza che la Mikkelsen fosse riuscita ad assecondarla.
    Che cosa vuoi da me, padre? Vuoi che io sia tua figlia? Non mi hai mai nemmeno dato il tuo cognome. lo disse con risentimento e immediatamente si vergognò di quella debolezza, di come invece di insultarlo per il mostro che era gli avesse appena rinfacciato di non averla amata abbastanza. Quella vergogna rianimò in lei la consapevolezza necessaria per un nuovo slancio Non capisco nemmeno perché mi hai presa con te, vista la considerazione che hai delle donne. Ma questo è ciò che sono: una donna. Figlia della donna che hai violentato e condannato al suicidio.
    Ingoiò la paura, consapevole di quanto le sue parole suonassero come una sfida.
     
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    Scuoto il capo alle sue parole con un sorriso stampato sul volto. È una benedizione che non sia come suo fratello, e non se ne rende conto. Sebbene abbia una doppia x nel suo corredo genetico, i suoi cromosomi sono intatti. Non c'è segno di anomalia nel DNA. Il suo corpo è perfetto, la sua mente brillante. Vuole sul serio paragonarsi ad uno scarto come il gemello ripudiato? Immagino sia una di quelle fasi di ribellione adolescenziale, o post adolescenziali, che scuotono i ragazzi. Ha bisogno di un nemico e ha scelto me come capro espiatorio. Immagino sia in parte mia la colpa. Devo averle dato troppe libertà. Le ho concesso una vita troppo agiata. L'idea di libertà deve averla confusa. Lei, non lo è. “Credi che serva un nome a renderti mia?” Le chiedo con un mezzo sorriso, avvicinando il volto al suo.
    E quando continua con l'insulsa storia della famiglia ritrovata, dopo la spinta subita, la mia pazienza comincia a vacillare. La mia mano si muove con uno scatto contro il suo volto poggiandosi poi con poca grazia sul suo braccio che stringo. “Fandonie.” Il mio tono è alto, il mio volto appena rosso ad una spanna dal suo. “Fandonie.” Ripeto poco dopo appena più pacato.
    Mi prendo un attimo per rilassare il corpo tornando a guardarla con un sorriso. “Sei sul serio così stupida da credere a quel che gli altri vogliono tu creda?” Scuoto il capo. Ingenua. È quello che è. Ed in questo devo darle ragione, è molto simile a suo fratello. E a sua madre anche. La dolce Theresa che credeva di avere dinanzi un angelo pronta a salvarla dai suoi problemi. Posso essere sul serio incolpato della sua pazzia? Era lei l'ingenua, non io. “Tua madre era pazza. Una squinternata. L'unica mia colpa è essermi concesso a lei senza precauzioni.” Le spiego senza remore. Concesso, sì. Non una violenza, ma quasi un dono che le ho fatto. È questa la verità, l'unica che sono disposto ad accettare. La presa sul suo braccio si fa più forte. “Tuo fratello è della stessa pasta. Ed io non lascerò che ti porti a fondo dopo tutto quello che ho speso in te.” Un investimento. Nient'altro che questo. Un oggetto di lusso come molti di quelli con cui lei ha convissuto nella mia casa. La rilascio, spingendola via.
    È mia. E lo sarà sempre. Deve solo accettare la realtà. Ho giusto quel che le serve per capirlo.
    Sistemo il completo, portando indietro i capelli. Le rivolgo un sorriso, pacato. “Voglio dirtelo io prima che tu lo venga a sapere da altri. Ho comprato il Fairy Tale.” So cos'è, so che ci lavora. Ed è il motivo per cui ho deciso di prelevarlo, insieme ai segreti che racchiude e che ora sono miei.
    “Tu e tuo fratello lavorate per me da oggi in poi.” Aggiungo poco dopo, aspettando una sua reazione in merito. “Perchè, Daphne, niente di quel che farai sarà privo della mia presenza.” Mi avvicino di nuovo a lei, stringendo una mano contro il suo mento per costringerla a puntare lo sguardo nel mio. “Tu mi appartieni. Ricordalo.” La lascio andare poco dopo, tornando alla scrivania per afferrare la cartella. “Avverti Miller che è tutto perfetto.” Rettifico le mie accuse di poco prima. Ho suscitato paura in lei. Mi basta quello.

     
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    L'interferenza continuava a sabotare la consecutio logica dei suoi pensieri. Suo padre scuoteva la testa osservandola con aria critica ma al contempo paternalistica - uno sguardo di compiacimento sfumato di sarcastica compassione - e subito ogni sicurezza che Daphne cercava di ostentare subiva una scossa alle fondamenta. L'incontro tra i loro occhi azzurri portava con sé solo una verità tristemente familiare, antica: "Ti stai sbagliando, Daphne. Qualsiasi cosa tu creda di sapere io ne so molto più di te. Era l'ansia di non essere mai abbastanza degna di lui, la brama di mostrarsi all'altezza e dunque non solo superiore a chi poteva essere messo a confronto con lei - i suoi coetanei, i figli delle altre famiglie del loro ambiente - ma anche, soprattutto, di mostrarsi sufficientemente meritevole rispetto alle aspettative dell'uomo. Era quell'ansia, quell'eterna frustrazione, quella disperata ricerca della perfezione, ad insinuarsi persino in un contesto come quello, nonostante ormai le loro vite fossero separate e malgrado Daphne fosse a conoscenza di quanto torbida fosse l'anima del padre che aveva tanto amato. Serviva un nome a renderla sua? Forse no. Se fosse servito un nome, non averlo ereditato dal padre le avrebbe permesso di spezzare i legami con lui in modo molto più rapido ed efficace, decisamente meno doloroso.
    Quando lo schiaffo la colpì in pieno volto Daphne si limitò a dischiudere le labbra e sgranare gli occhi, sconcertata. Non era solo ferita nell'anima e dolorante per la pelle in fiamme che non si azzardava nemmeno a sfiorare con i polpastrelli, era prima di tutto sconvolta dal fatto che un episodio simile si fosse verificato di nuovo. Aveva creduto che Soren non avrebbe osato farlo ancora, ora che lei non viveva più sotto il suo tetto, ora che si incontravano nel suo ufficio in vesti professionali. Ma come aveva fatto ad essere così sciocca? Come diavolo aveva potuto pensare che qualche cambiamento potesse proteggerla da lui, da un uomo che aveva violentato diverse donne senza mai pagarne il prezzo? Forse, semplicemente, Daphne aveva voluto credere che non sarebbe accaduto. Solo così aveva trovato la forza di portare a termine l'incarico che le era stato assegnato dalla procura inglese. E attraverso l'illusione che aveva offerto a sé stessa, la danese aveva permesso che ciò accadesse. Era diventata una donna che permetteva che le venisse mossa violenza?
    Di certo lo sono stata. Ho creduto per vent'anni a tutto ciò che tu hai voluto farmi credere.
    Deglutì. Ciò di cui suo padre l'accusava era stato vero per molto tempo. Naturalmente, però, a lui era sempre andato bene così. Provò a divincolarsi, in parte perché a quel punto nulla escludeva la possibilità che lui la colpisse di nuovo. Ma oltre a quel timore, il fatto stessa di trovarsi così vicina a Soren, intrappolata nella sua presa autoritaria, le metteva addosso un'angoscia che minacciava di degenerare in un attacco di panico in piena regola. Tuttavia, le parole con cui Soren osò riferirsi a Theresa, la donna che aveva distrutto, la colpirono tanto da farle ritrovare la voce che, con un'aggressività del tutto nuova, sgorgò dalle sue labbra.
    Mia madre era fragile e tu l'hai fatta a pezzi!
    E avrebbe potuto fare lo stesso con lei. Erano soli in quella stanza, una porta spessa a separare i locali adibiti all'ufficio del magistrato e il resto del palazzo in cui si trovavano. Soren avrebbe potuto farle qualsiasi cosa. E forse.. sarebbe stato capace di farle qualsiasi cosa. Un senso di nausea si mescolò alla paura. Si sentì soffocare, faticava a star dietro ai battiti del suo cuore e tutto questo le sembrava terribilmente palese agli occhi di suo padre. Sicuramente era impallidita e nei suoi occhi ogni sfumatura di turbamento doveva essere più evidente che mai.
    Tu devi starmi lontano. Altrimenti ti denuncerò e..
    In un impeto di autodifesa si lanciò verso la pretesa di una minaccia, ma quel tentativo sfumò prematuramente di fronte alla dichiarazione del Bachskov. Daphne si stava massaggiando il braccio dolorante finalmente libero e in quel gesto si congelò istantaneamente nell'apprendere la più agghiacciante delle rivelazioni.
    Cosa...? Tu non..
    Boccheggiò, troppo sconvolta per riuscire a completare la frase. Non puoi averlo fatto. Questo avrebbe voluto dire, ma si accorse subito di quanto fosse assurda una simile affermazione. Ma certo che poteva farlo. Soren poteva fare qualunque cosa.
    Non sono tua. Forse lo sono stata, ma non lo sono più.
    Di nuovo, quel pensiero non raggiunse la sua voce. Non voleva essere sua ma davvero poteva dire di sentirsi libera? Se così fosse stato, Soren non avrebbe potuto schiaffeggiarla senza conseguenze. Se così fosse stato, il suo mantenimento non sarebbe dipeso nuovamente da quell'uomo. Così non disse nulla, si limitò a guardarlo con un misto di risentimento e terrore ad albergarle nelle iridi chiare prima di girarsi e lasciare quell'ufficio, mossa dal desiderio di mettere più distanza possibile tra sé e suo padre.
     
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