If trust has left you fallin' in nobody's arms

Helsingør, Danimarca || Privata

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    Fiducia. Una concessione delicata, per chiunque avesse un minimo di cervello.
    Daphne aveva sempre ritenuto fondamentale fidarsi di sé stessa più che di chiunque altro. Sceglieva ogni giorno di fidarsi delle sue capacità, dei suoi talenti, del suo corpo. Si fidava delle sue decisioni, così come delle sue intuizioni..sebbene queste ultime andassero sempre accolte con prudenza, analizzate per quello che erano.
    Diversa era la fiducia che sentiva di poter concedere agli altri. Cresciuta nella convinzione di essere stata respinta e abbandonata dalla sua stessa madre, non era affatto bendisposta a moti di fiducia incondizionata. Questo l'aveva sempre aiutata nella vita, rivelandosi un meccanismo di sopravvivenza fondamentale: l'aiutava a gestire i pettegolezzi, a superare determinati ostacoli e a non sentirsi in debito con nessuno. O quasi.
    Suo padre, insieme ad Helena - e Bram che al momento rappresentava un caso a parte e un tasto terribilmente dolente - era depositario della fiducia della Mikkelsen, o quantomeno lo era stato per anni. Era stata la prima persona ad ottenere la sua fiducia, così come la sua stima e la sua ammirazione. Il suo affetto. Le prime verità di cui era venuta a conoscenza erano state espresse da quelle labbra sottili, da quella voce ferma e sicura: Daphne le aveva apprese e ne aveva fatto tesoro, che si trattasse di verità assolute o relative a sé stessa e alla sua realtà, al suo mondo e alla sua vita. A ciò che le riservava il futuro.
    Non aveva mai pensato a Soren come ad una figura troppo oppressiva. Lui le aveva insegnato molto e in cambio le aveva solo chiesto di dimostrarsi all'altezza delle aspettative che nutriva nei suoi confronti, non le aveva mai nemmeno imposto il percorso di studi da intraprendere limitandosi a verificare che fosse degno di nota.
    Daphne bussò alla porta dello studio di Soren e quando la familiare voce la invitò ad entrare provò l'intenso e irrazionale desiderio di girare i tacchi e andarsene. Fuggire a quella conversazione. Scappare. La sua mano abbassò la maniglia fredda e la porta si aprì, regalandole lo scorcio di una stanza che conosceva alla perfezione: l'austera scrivania in ebano, i quadri alle pareti e i grandi tomi perfettamente allineati tra gli scaffali della libreria. Il tappeto su cui da bambina si era stesa a giocare, ma solo quando il padre non era in casa.
    Aveva compreso presto, forse troppo presto, che suo padre non le avrebbe dedicato l'affetto a cui da bambina anelava. Si era detta che l'amore di quell'uomo assumeva altre forme ed era veicolato da diverse manifestazioni: un sorriso orgoglioso, una mano che si stringeva sulla sua spalla in segno di approvazione (a volte con una forza troppo possessiva, ma tutto sommato indicativa per lei di una certa emozione, di un sentimento), lunghe conversazioni sulla società, sul mondo del lavoro e di natura ideologica. E infine, più di ogni altra cosa, la continua richiesta di risultati e l'invito a spingersi sempre oltre i propri traguardi.
    Spero di non disturbarti.
    Si richiuse la porta alle spalle, avvicinandosi alla scrivania. Perfino adesso che era lì per affrontarlo, per forzarlo ad una sincerità che temeva le fosse sempre stata negata..perfino in quel momento si sentiva giudicata e valutata, sotto lo sguardo freddo di Soren. Come se, ancora una volta, fosse lei a dovergli dimostrare qualcosa.
    Ti devo parlare, è piuttosto urgente.
     
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    Il toc toc alla porta, non richiama la mia attenzione. O meglio lo fa, ma non rispondo. Non subito.
    La mia risposta arriva lenta. Attesa. Le cose importanti si fanno attendere, ed io lo sono.
    Quando la porta di questo ufficio è chiusa, i motivi per cui è possibile venire a distogliermi dai miei impegni, sono davvero pochi. Nulli quasi oserei dire.
    Mi richiede fin da subito una certa dose di pazienza accogliere chi dall'altro lato reclama il mio interesse.
    E no. Non mi meraviglio sia Daphne.
    "Avanti."
    Secca la mia risposta. Apatica.
    Quando la osservo fare il suo ingresso tra queste mura, non posso fare a meno di notare il cipiglio nel suo sguardo. Il timore malcelato nel suo corpo rigido. Chiari segni d'allarme.
    La Mikkelsen è stata un'ottima alleata per la mia immagine quando, in seguito ad accuse rivoltemi più volte, persino i miei colleghi cominciavano a dubitare. Ci sono cose che l'atto della forza non può risolvere. A volte, è l'apparenza il migliore alleato. E' per questo che l'ho presa con me. Fingendomi un salvatore, l'ho portata con me lasciando che il suo viso paffuto da bambina, salvasse la mia facciata in alcuni ambienti. E lo ha fatto.
    Fingere però, richiede una buona dose di impegno. Persino per me.
    Mi chiedo quando arriverà il momento della sua ribellione, perchè so avverrà. Per quanto io abbia provato a reprimere e modulare ogni suo pensiero, il rapporto col mondo esterno può rivelarsi pericoloso per un animo debole. E lei lo è. In lei, dopotutto, scorrono i geni di debolezza atavica. Debole lo è lei.
    Ripongo lentamente la piuma nel calamaio, alzando con altrettanta calma lo sguardo su di lei.
    "Cosa c'è di così urgente da non poter aspettare che io completi le mie mansioni?" Le chiedo con voce piatta. Privo di emozioni è il mio volto. Non mi mostro adirato ma nemmeno ben disposto. E' il modo migliore per far venire a galla, qualunque cosa l'altra mi stia nascondendo. Perchè è chiara sia così.
    Il suo corpo ora adulto e ben formato, parla chiaro.
    "Qualunque cosa sia, spero valga il mio tempo."
     
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    Quella stanza aveva sempre esercitato uno strano effetto su di lei. Difficile da definire. Fin da quando era bambina, quella era la stanza in cui portava a suo padre i propri risultati e ascoltava i suoi giudizi o i suoi incoraggiamenti che, pur mancando di calore, erano in grado di motivarla più di qualunque altra cosa. In quella stanza aveva avuto l'impressione, talvolta, di scorgere negli occhi di Soren qualche traccia di affetto, di intuire - o immaginare - segnali d'amore in qualche gesto di quell'uomo algido e severo. In quella stanza l'aveva reso orgoglioso il più delle volte, deluso in pochissime occasioni a cui aveva fatto il possibile per rimediare. Aveva passato la vita a dare tutta sé stessa, a superarsi sempre e comunque, per poter essere all'altezza di quella stanza.
    Amava quella stanza, ne era convinta. Ma allo stesso modo, era consapevole che quella stanza non le aveva mai trasmesso un senso di sicurezza, di accoglienza e di protezione. Non l'avrebbe mai fatto: simili esigenze erano debolezze agli occhi del Bachskov, il che le aveva sempre rese agli occhi di Daphne pretese assurde, insensate. Qualcosa di cui solo una perdente avrebbe avuto bisogno.
    Non si era mai sentita al sicuro in quella stanza ma quel giorno, mentre prendeva posto sulla sedia dall'altro lato della scrivania del padre, la sua tensione sfiorava picchi estremi. Temeva le parole che si sarebbe ritrovata a pronunciare e allo stesso modo temeva le risposte che avrebbe ricevuto.
    Ho conosciuto Jerome Morrow. Si è avvicinato a me diversi mesi fa, in Accademia.
    Sapeva che Soren si sarebbe arrabbiato, l'avrebbe fatto anche se lei non avesse aggiunto altro. I gemelli avevano frequentato Durmstrang nello stesso periodo, entrambi ignorando totalmente il legame di sangue che li univa, solo quando l'ingresso di Daphne in Accademia era stato imminente Soren aveva deciso di rivelarle l'identità di quel ragazzo e di metterla in guardia su di lui. Perché l'aveva lasciata nell'ignoranza per tutti quegli anni? Perché non era pronta. Una risposta a cui la rossa non aveva saputo ribattere: se suo padre considerava che non fosse ancora abbastanza matura, abbastanza brava, che lei non fosse abbastanza in qualsiasi aspetto fosse oggetto di una valutazione dell'uomo..allora doveva avere ragione. Per lei era sempre stato così.
    In quel momento, con lo sguardo incatenato a quello dell'uomo che era sempre stato un modello per lei, Daphne si ritrovò a pensare che forse quell'informazione non le era stata finalmente offerta perché ora veniva considerata abbastanza matura. Forse le era stata data unicamente per metterla alla prova. La Daphne che Soren Hans Bachskov conosceva avrebbe rispettato la richiesta paterna di stare alla larga da Jerome.
    E allora lei..che Daphne era?
    Mi ha parlato di te e di nostra madre. Ha detto delle cose orrende.
     
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    Paura.
    Non ho bisogno di guardarla per capire che ne prova.
    La percepisco nell'aria. Avvolge il suo corpo come un abbraccio asfissiante, rendendola rigida ed il suo tono fintamente duro.
    Dovrei essere preoccupato dal suo modo di fare, ma non lo sono affatto. So di poter gestire perfettamente qualunque cosa abbia da dirmi, e qualora non ci fosse rimedio immediato, provvederei ad utilizzarne uno alternativo. Un uomo come me, con una storia come la mia, è sempre pronto a qualsiasi evenienza. Se non fosse così, forse adesso non sarei qui.
    Le sue parole, mi impongono di bloccarmi dai miei affari.
    Tiro su lo sguardo lentamente, puntandolo nel suo sguardo chiaro. Il volto duro. L'espressione apatica.
    Il nome da lei pronunciato risuona come un campanello d'allarme.
    Ho provato ad avvicinarmi a lui, facendo leva sull'insita debolezza della sua psiche. Dominick però, aveva già istillato il seme del dubbio nella sua mente, aizzandomelo contro.
    Avrei potuto porre rimedio a quel piccolo intoppo nel mio percorso, ma perchè sporcarsi le mani per una causa persa così? Nessuno darà mai conto alle parole di uno psicopatico.
    Eppure Daphne è qui e quello che mi dice, insieme ancor più a quello che mi tace, mi spingono a credere di essere dinanzi a qualcosa che richiede chiaramente tutta la mia attenzione.
    Mi tiro in piedi lentamente.
    "E' chiaro lo abbia fatto." Comincio, aggirando la scrivania per arrivare fino a lei. Mi fermo al suo cospetto, guardandola dall'alto in basso. "Ha avuto una vita miserevole con una madre pazza che ha lasciato a lui lo stesso destino." Scuoto appena il capo, mettendo su un'espressione di biasimo per quella che deve essermi sembrata una vita da disperato. Deve esserla stata senz'altro.
    Mi allontano poi, per raggiungere la credenza da cui tiro fuori la bottiglia di whisky invecchiato. Me ne verso poche dita nel pesante bicchiere di cristallo e mi concedo un lento sorso.
    Pausa.
    Il lungo silenzio a cui la costringo, è un mezzo. La volontà di stimolare la sua pazienza.
    "La cosa che mi sorprende è che tu te ne sia sentita toccata." Torno a guardarla, il bicchiere in una mano. "C'è qualcosa che vuoi chiedermi nello specifico?"
     
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    Tossica. Una conversazione del genere non si sarebbe potuta rivelare altrimenti. A prescindere da quale sarebbe stata la sua conclusione, le parole pronunciate quel giorno in quella stanza l'avrebbero intossicata. E avrebbero intossicato il rapporto con quell'uomo, colui che era stato il suo unico punto fermo fino a quel momento. L'unica famiglia che aveva.
    Voleva davvero andare avanti?
    Lei e Bram non si parlavano da settimane. Helena era presa dai suoi problemi, come biasimarla visto quello che aveva passato. E Harvey..beh, erano amici ma il loro rapporto non era mai evoluto in modo più profondo: dubitava che lui fosse disposto ad apprezzare qualcosa di diverso dalla regina impeccabile, complice e sarcastica che conosceva. Altri visi si susseguirono nella sua mente, nessuno dei quali le parve un solido sostegno che potesse aiutarla di fronte ad un'eventuale caduta. Era sola.
    Ma lei stava già cadendo. Forse non avrebbe dovuto chiedersi se davvero voleva andare avanti, ma piuttosto se era ancora possibile tornare indietro. Purtroppo era convinta di conoscere già la risposta.
    Una fitta di puro rancore verso Jerome le strinse il cuore, irradiandosi in lei come a riempire ogni frammento del suo essere. Quel fratello sbucato dal nulla le aveva rovinato la vita bombardandola con quelle insinuazioni su suo padre, non le aveva dato tregua e adesso Daphne non era più in grado di ritenere impossibile l'eventualità che ci fosse del vero nelle sue parole. No, adesso attribuiva nuove sfumature allo sguardo sempre gelido e impassibile del padre, lo sguardo di uno squalo o di qualche creatura a sangue freddo, piuttosto che di un uomo. Quello sguardo l'aveva sempre intimorita, ma sempre si era detta che non aveva nessun significato particolare. Soren era umano, era in grado di amare..perché amava lei. Eppure adesso persino quella certezza le sembrava potesse essere messa in discussione.
    Immagino che sia così.
    Non aveva motivo di dubitare del fatto che Jerome avesse condotto una vita terribile: un unico figlio, senza un padre, ad occuparsi di una donna malata di mente che alla fine si era persino tolta la vita davanti a lui. E si rendeva anche conto che Jerome nei suoi confronti era stato più che meschino: aveva distrutto la sua realtà, rinfacciandole il destino di tutti loro con l'aggressività di chi sembrava voler attribuire colpe anche a lei, fino a quel momento ignara di tutto. Le aveva urlato addosso il suo odio e la sua rabbia, poi l'aveva persino accusata di essere in qualche modo complice di uno stupratore. Ma, naturalmente, la cattiva era lei.
    No, il fatto che avesse smesso di rifiutare così strenuamente la versione dei fatti del gemello non significava che avesse messo da parte l'astio che provava nei suoi confronti. Non era quello il motivo per cui ora si trovava lì, immobile, ad osservare suo padre che sorseggiava whisky con una serenità quasi innaturale.
    In effetti sì, ho diverse domande.
    Sentì la voce uscire dalle sue labbra e se ne sorprese, come se il suo corpo avesse preso coraggio prima di lei.
    Non ho mai davvero capito perché hai aspettato il mio ingresso in Accademia, per dirmi dell'esistenza di Jerome. Io e lui frequentavamo Durmstrang insieme e non avevo idea di chi fosse.
    Fece una piccola pausa. La storia del: "ora sei abbastanza adulta per sapere una verità tanto orrenda" l'aveva sempre lasciata perplessa, ma aveva scelto di farsela andare bene. Più volte aveva pensato che quella rivelazione fosse una prova, un test: un modo per vedere come lei avrebbe reagito e se si sarebbe avvicinata a quel ragazzo, nonostante il padre le avesse intimato di non farlo. Anche quell'idea le andava bene, era abituata ai test: per quanto fosse evidente che questo non lo aveva superato. Ma era il fatto che Soren le avesse sempre tenuto nascosta l'esistenza di un gemello a non convincerla.
    Non capisco nemmeno perché mia madre non mi abbia voluta. D'accordo, era pazza: ma se aveva un rifiuto per i figli che aveva messo al mondo, perché tenere Jerome?
    Poteva sentire i battiti del proprio cuore. Si agitava nel suo petto come un uccellino appena messo in gabbia e Daphne non avrebbe saputo dire esattamente quali e quante emozioni muovessero le sue ali. Non aveva ancora mai distolto gli occhi da quelli di Soren, eppure continuare a sostenere quello sguardo divenne molto più difficile mentre pronunciava quella che non era un'altra domanda, ma un'affermazione.
    Lui mi ha parlato di altre donne. Ho fatto una ricerca su Ella MacDuff, credo che tu possa immaginare che tipo di informazioni ho raccolto.
     
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    Il bordo spesso del bicchiere poggia con troppa irruenza contro il ripiano in mogano della scrivania. L'eco assordante di quel rumore, rimbomba per un istante tra queste mura. Poi il silenzio.
    "Immagino tu ben conosca la differenza tra domande ed insinuazioni." E' quel che mi lascio sfuggire dopo qualche attimo apparentemente durato un'eternità.
    Poi, piego il capo in un lato. Un angolo della bocca verso l'alto.
    La fisso per un po' senza dire o fare assolutamente nulla, con le mani unite tra loro.
    "Cosa vuoi che ti dica?" E sebbene il mio tono sia cortese ed il mio volto come il mio corpo apparentemente disteso, sarebbe chiaro a chiunque quanto pericolosa sia diventata questa stanza in questo momento.
    Le bugie sono sempre utili se le si sa usare. Ancor più utile è a volte la verità.
    "Theresa non ha scelto. Non poteva farlo." Il mio volto non mostra ilarità. Diventa serio.
    Le concedo un dettaglio sul suo passato. Uno che manipolerò a mio vantaggio. "Voleva uccidervi entrambi. Ho salvato te." Aggiungo poco dopo, scuotendo il capo per poi superarla, quasi come se ritirar fuori questo dettaglio di quella vecchia storia, mi faccia ancora soffrire.
    "Ti ho dato una vita perfetta. Vuoi davvero lamentarti di questo?" Le chiedo, a fronte corrugata, facendo leva sul suo senso di colpa ed inadeguatezza.
    Dopotutto ha avuto tutto quello che il suo gemello non ha avuto. Ha avuto ricchezza, sicurezza. Ha avuto la possibilità di crescere praticamente in un castello. Tutte cose che in una vita alternativa, quella da cui l'ho salvata, non avrebbe potuto avere. Mai.
    Mi volto, poggiando una mano sulla sua guancia che carezzo lentamente.
    "Vedi Daphne, tu hai del potenziale. O almeno credevo lo avessi. L'idea però che tu ti faccia contagiare dalle parole di un pazzo è così... deludente." Annuisco. So che aiuterà far leva anche su questo. Spingerla a credere di avermi deluso. Di aver infranto le mie aspettative.
    Non che ne avessi mai riposte tante in lei. In una donna.
    La mia mano si stringe sul suo mento, costringendola a tirar su il volto, per far sì che il mio sguardo si punti nel suo.
    "E' per quello che ti ha raccontato la tua amica, la figlia degli Haugen? E' per lei che cerchi negli altri, in me, un colpevole alle ingiustizie subite dalle donne?" Le chiedo aggrottando le sopracciglia. "Daphne. Sarai un pessimo avvocato." Rido. "Mentiva, anche lei. Credi sul serio che un Volhard possa mai arrivare a tanto? O che io possa farlo?" La presa diventa più forte. Il tono appena più alto. "Credi io abbia fatto quelle cose?"
     
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    Conosceva la differenza sì, il che la rendeva consapevole di aver mosso delle insinuazioni più che porre delle domande. Le sue ultime parole, in particolare, non si erano configurate nemmeno in un interrogativo che potesse dare adito a qualche dubbio al riguardo. Aveva gettato in faccia a suo padre un'informazione: gli aveva detto di aver fatto addirittura delle ricerche su quanto Jerome le aveva accennato. Mentre Soren si avvicinava a lei, la Mikkelsen si rese conto che quella era stata anche più di un'insinuazione: lo aveva sfidato.
    Non c'era arroganza in quella sfida. Non consapevole, perlomeno. Daphne desiderava davvero che lui le dimostrasse che si stava sbagliando, che si era lasciata ingannare da un ragazzo dalla mente totalmente sconnessa dalla realtà, una persona invidiosa e forse, nella sua follia, persino crudele. Sarebbe stato bello pensare che Jerome Morrow volesse semplicemente mandare in frantumi la vita che lui non aveva potuto vivere, distruggendola con le bugie più meschine. Era questo che Daphne desiderava realmente, ma quel giorno ciò che desiderava era in netto contrasto con i dubbi e i timori che ormai le affollavano la mente da mesi.
    Non mi sto lamentando della vita che ho avuto.
    Precisò, frustrata dalla sua evidente necessità di giustificarsi. Non voleva mostrarsi ingrata ai suoi occhi: ancora, persino in quel momento..mentre gli chiedeva conto delle accuse più infamanti. Era la parte di lei che ancora sperava di potergli credere ad impegnarsi in quei superflui tentativi di appianare il contrasto in corso.
    Quando la mano di suo padre si posò sulla sua guancia, Daphne sussultò. Non ricordava l'ultima volta che Soren le aveva dedicato una carezza: cercò di scavare nella propria memoria ma nessuna immagine del tutto chiara venne alla luce. Doveva essere passato molto tempo. Si sentì piccola e inerme sotto il suo tocco. Questa sensazione, invece, la ricordava bene.
    Io non..è solo che..
    Le parole corsero via, rifuggendo i suoi pensieri e la sua voce. Quel tocco delicato, la delusione negli occhi di suo padre. Quelle parole lapidarie così pregne di amarezza l'annientavano. Era il suo potenziale, quello che si trasformava in talento in molteplici campi, a forgiare la sua sicurezza e la sua autostima: era sentirsi la più brillante, la più abile, la più bella e la più popolare...era tutto questo che le permetteva di sopravvivere alla fatica e all'impegno necessario a risplendere sempre. Ma se suo padre non credeva più in quel potenziale, cosa le restava?
    Per molto più di pochi istanti, l'idea di fare marcia indietro ed impegnarsi a fargli cambiare idea prese forma nella sua mente. Si adattava perfettamente al cervello che la ospitava, quell'idea, un cervello abituato a lasciare ampio spazio a simili configurazioni. Fu allora che i suoi occhi incontrarono nuovamente lo sguardo fermo e glaciale di Soren, mentre lui le sollevava il mento. E fu in quel momento che le parole di suo padre, per la prima volta nella sua vita, le scatenarono un moto di repulsione.
    Helena ha detto la verità.
    Ritrovò la voce e si rese conto che non tremava, non in quel momento. Non aggiunse che sapeva che Helena aveva detto la verità perché l'aveva sentita dalle sue labbra, ritrovandosi a crederle nel momento stesso in cui aveva ricevuto quella confidenza. Non disse che credeva ad Helena. Lei sapeva che Helena aveva detto la verità e questa era una risposta molto più netta, incisiva. Non si prestava a manipolazioni. Era questo che lui aveva provato a fare poco prima? Aveva cercato di manipolarla parlandole di quanto lo aveva deluso? Era la prima volta che ci pensava - la prima volta che si concentrava realmente su quella possibilità - e nel farlo si rendeva conto che, effettivamente, l'atteggiamento del padre l'aveva mandata fuori strada, le aveva fatto perdere di vista il punto del discorso. Le aveva fatto dimenticare le domande che non avevano ricevuto risposta.
    Perché un Volhard non dovrebbe arrivare a tanto? Il suo cognome lo rende incapace di aggredire una ragazza, violentarla, cercare di annientarla? Io non credo.
    Guardarlo negli occhi sembrava meno difficile in quel momento. In lei ribolliva la rabbia che quanto accaduto alla Haugen le aveva provocato: pensava ad Helena, a Vanya Hellstrom, a molte altre donne. Forse..a sua madre?
    "Daphne. Sarai un pessimo avvocato." Rideva di lei.
    Ma la rabbia sovrastava persino la fitta di dolore che quelle parole, affilate come coltelli, le avevano provocato.
    Ho letto molto sulla violenza sessuale, dopo quello che è successo ad Helena. Non ha a che fare solo con il sesso. In molti casi il sesso è addirittura secondario: prima di ogni altra cosa, lo stupro ha a che fare con il potere. Quindi sì, credo che quel mostro abbia stuprato Helena. E forse anche altre ragazze.
    Deglutì e i suoi occhi si sbarrarono quando la presa del padre si fece più forte. Un profondo senso di disagio la pervase, qualcosa di troppo indefinito per riuscire a dargli un nome. Forse aveva paura. Forse aveva paura di suo padre.
    Hai detto che nostra madre voleva ucciderci, ma Jerome è rimasto con lei ed è ancora vivo. E non mi hai detto niente su Ella MacDuff.
    Si ostinava ad insistere, per quanto fosse più difficile con la presa del padre stretta come una morsa sul suo mento e la voce dell'uomo che si era fatta più alta e intimidatoria.
    Padre..mi stai facendo male.
     
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    Non lascio la presa sul suo mento. Il mio sguardo resta fisso nel suo, mentre i denti si stringono appena.
    E di nuovo, da indegna, pronuncia il nome dell'unica donna che io abbia mai rispettato. O amato. In concomitanza con la furia che sento, le mie dita scavano solchi bianchi nella sua pelle rosea.
    "Non eguaglia il dolore che tu hai inflitto a me." La mia voce è poco più che un sussurro mentre la mia presa la costringe a tirarsi in piedi. "Cerchi demoni invece di ringraziare per tutto quello che ti è stato donato." Stupida piccola ingrata. Le ho donato la possibilità di vivere una vita degna di questo nome, ed ora si ribella, tira su la testa, mi sfida come fossi uno qualunque dei suoi pari. Non lo sono e non è così che l'ho cresciuta.
    La colpa deve essere mia. Continuo a credere di poter avere una qualche fortuna con i miei figli, ma sono fallimenti. La metà del loro DNA, quella che non mi appartiene, li spinge a cedere in clichè così scontati che mi adirano.
    E più di ogni cosa, a farmi scattare, è il ricordo di Ella.
    Sono passati anni, ma quella ferita resta viva e pulsante nel mio cuore.
    Quella furia mostruosa tenuta a bada, viene fuori in un gesto veloce, violento. La mano coperta dall'anello con lo stemma della mia famiglia, colpisce con forza e con il dorso il volto dell'altra. Non mi meraviglierei se la violenza del mio schiaffo, la facesse cadere.
    "Vieni qui a pronunciare il SUO nome." E la mia furia non trova giovamento.
    Non posso tollerare un tradimento, nè sono solito concedere seconde possibilità.
    La mia mano quindi torna sulla sua spalla, per far presa sul suo corpo che spingo di faccia contro la parete.
    Lì, fermo dietro di lei, una gamba tra le sue, la costringo a restare mentre la mano si intrufola e stringe i suoi lunghi capelli rossi. Setosi e profumati come quelli di sua madre.
    "Se non ti avessi portato via da quella bettola, staresti vendendo il tuo corpo pur di avere qualcosa da mangiare." Bisbiglio alle sue orecchie. "Ed è quello che farai quando uscirai da qui perchè da me non avrai più niente."
     
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    La sorpresa ormai albergava nel suo sguardo, viva quasi con la stessa intensità dell'inquietudine che irrigidiva il suo corpo. Aveva sperato - aveva quasi dato per scontato, in effetti - che suo padre si ravvedesse, nel sentirla affermare che le stava facendo male. Non che questo potesse annullare istantaneamente la profonda delusione derivata dalla consapevolezza che, in ogni caso, seppure lui avesse scelto di ritirare la sua mano quanto era accaduto restava effettivo: le aveva messo le mani addosso. Anche quella semplice stretta sul suo volto rientrava in quella definizione per la Mikkelsen, poiché a dare davvero peso a quel gesto era l'intenzione che lo muoveva: le dita si erano strette perché in quel modo Soren voleva manifestarle il proprio potere su di lei, voleva sopraffarla..tanto bastava a rendere più tangibili i dubbi che si portava dietro da mesi.
    Aveva sempre considerato suo padre un uomo severo, ma giusto. La perfetta personificazione del mondo professionale che rappresentava, quello a cui Daphne stessa sperava di prendere parte. Sebbene Soren le avesse sempre stimolato un senso di soggezione, sebbene il suo giudizio fosse stato una fonte costante di ansia per lei, mai la ragazza avrebbe immaginato di potersi ritrovare in una situazione del genere con l'uomo che l'aveva cresciuta.
    Forse fu per questo che si limitò a sbarrare ulteriormente gli occhi, del tutto spaesata, quando la presa si fece ancora più stretta. E per lo stesso motivo non riuscì nemmeno lontanamente a prevedere un così rapido precipitare degli eventi. Lo schiaffo che la colpì fu così violento da farla crollare a terra: le gambe cedettero sotto la forza di quell'impatto, ma solo quando si ritrovò accasciata sul pavimento Daphne riuscì realmente a realizzare la dinamica che l'aveva costretta in quella posizione. Lentamente, sollevò una mano a sfiorarsi il volto e i suoi polpastrelli incontrarono una ferita aperta e sanguinante, un taglio inferto dall'impatto dell'anello dei Bachskov sulla sua pelle. Una pelle che i suoi meticolosi rituali di cura e idratazione rendevano liscia e perfetta. Fino a quel giorno. In un istante, Daphne comprese che da quel giorno in poi non ci sarebbe mai stato più niente di perfetto. Che forse..non c'era mai stato davvero niente di perfetto.
    Io non so chi sei..
    Si ritrovò a mormorare, più che mai consapevole della veridicità di quelle parole. Tutto ciò che Jerome le aveva detto fin dal loro primo incontro le si riversò per l'ennesima volta nella mente come una cantilena ossessiva, un disco rotto. Le parole di Soren non erano che interferenze a quei pensieri, interferenze deliranti che faticava a comprendere. Era del nome di quella donna a lei completamente sconosciuta che stava parlando? Era stato quel nome a far scattare la bestia dentro l'uomo?
    Perché Daphne, mentre si rialzava in piedi lentamente, non vedeva altro. Davanti a sé aveva una bestia feroce e ansante, una creatura guidata da un'insaziabile sete di violenza: capì che doveva abbandonare quella stanza, ma quella comprensione si rivelò penosamente tardiva. La ferrea presa di Soren questa volta si chiuse sulla sua spalla e la Mikkelsen avvertì la ferita al volto bruciare maggiormente nell'impatto contro la parete ruvida, ma fu una sensazione che si annullò completamente quando il peso del corpo di suo padre contro il proprio la paralizzò.
    Raggelata, sentì le mani di lui muoversi tra i suoi capelli, la gamba dell'uomo cercare uno spazio tra quelle di sua figlia. Un violento senso di nausea si intrecciò alla paura ormai cresciuta esponenzialmente. Nemmeno lo stupore trovava più spazio in lei a quel punto, poiché il disgusto, il disagio e l'angoscia la dominavano completamente.
    Me ne andrò. disse, alzando improvvisamente la voce nel tentativo di sovrastare il suono del respiro caldo di Soren sul suo collo Non...non voglio restare qui. Ma adesso lasciami. Lasciami..o mi metterò a gridare. Forse nessuno mi crederebbe se dovessi raccontare che mi hai aggredita, ma di sicuro se ne parlerebbe..e tu non puoi volere un altro scandalo. annaspò, cercando uno straccio di sicurezza nelle sue stesse parole Lasciami andare.
     
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    A mascella serrata, pressato contro di lei, fiuto la sua paura. Me ne inebrio. Eppure, sono indispettito. Furioso. La sua improvvisa slealtà, mi ferisce. E sebbene questo non mi coglie impreparato, né pone in pericolo il mio impero o la mia persona, ne sono turbato.
    Si fa largo in me l'idea, di dover porre rimedio a questa falla. Figuro già il modo in cui questa storia troverà il suo epilogo.
    Il sangue Morrow, e Theresa, ha mostrato fin da subito le sue pecche. Ho lasciato che nidificassero tentando invano di purificare il DNA malato di qualcosa che mi apparteneva. Devo ammettere la mia sconfitta. Ho peccato di illusione. Ho creduto di poter salvare una mela marcia.
    La mia presa sui suoi capelli, si fa per un attimo più intensa, mentre più forte è la forza con cui la spingo contro il muro.
    La mia bocca si avvicina al suo orecchio, per sussurrarle poche parole.
    "Tu te ne vai perchè sono io a volerlo." Un dettaglio che voglio sia chiaro. Non è che lei che se ne va, ma io che la caccio fuori. Voglio che pesi su di lei, il fallimento. So come si sentirà, l'ho cresciuta io, e farò in modo che stia male, che il suo senso di colpa la divori, prima che il mio intervento si appresti a porre fine ai suoi tormenti.
    "La tua vita, è mia. Ricordalo sempre Daphne." Rilascio la presa, spingendola via.
    Le dedico un ultimo duro sguardo, mentre apro la porta e con fare deciso le impongo di andar via.
    "Va."

     
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