disintegrating reality

Jonas

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    Mi illudo sempre di avere opzioni poste su piani diversi della realtà, ma alla fine fa tutto parte della stessa massa indistinta, giusto? Un filo aggrovigliato senza inizio né fine, che si attorciglia su se stesso ancora ed ancora, dando vita ad un gomitolo di nodi senza senso. Intoppi al naturale scorrere del tempo, che rendono la mia visione del mondo frammentata ed incostante, come una VHS vista troppe volte, tanto da essere consumata. Saltano passaggi nella mia mente. Compaiono vuoti che non mi spiego, riempiti da interferenze che non capisco. Immagini senza senso e contesto, che mi fiondano in una realtà alternativa che non conosco.
    Come sono finito qui? L'ho voluto io o l'hanno voluto loro?
    Loro chi?
    Continuo a chiedermelo cercando una risposta. Poche cose ne trovano.
    La mia vita è un quiz. Un accumulo di domande senza esiti, che si affollano nella mia mente rendendomi costantemente impegnato a dare un senso a quel che vedo per poterne usufruire, ma non ne trovo.
    Sono spettatore della realtà. Un personaggio senza autore e scenografia che vaga in un teatro colmo di dettagli che non mi appartengono. Osservo me, o qualcuno che mi somiglia, recitare una parte che non conosco e non me ne sento coinvolto anche se tutto questo mi appartiene, in un modo che ancora non sono in grado di spiegare.
    Ma mi adeguo.
    Lo faccio di continuo.
    Col tempo ho capito che è più semplice non porsi domande, muoversi seguendo regole fisiologiche, imposizioni razionali sfocate al punto da darmi l'illusione della scelta. Perchè questo l'ho scelto io, giusto?
    Quindi sono qui dopo quello che mi è successo. Dopo il mio primo vero eccesso.
    Il mio primo vero me.
    E' ormai un mese che sono ospite di questa struttura, e ho già capito come funzionano le cose. Sono un attento osservatore. Forse non so fare altro.
    Guardo ciò che mi circonda, convinto di poterne capire l'essenza, di potermi immergere in determinati contesti e viverli. Non è mai così semplice. Conosco tutto il personale però, ed alcune delle dinamiche tra i pazienti. Ne punto uno ogni giorno, studiandolo a fondo come fosse un libro.
    L'ultimo mi ha tenuto impegnato per giorni. Drayton. Scozzese dall'accento, impasticcato come me nei miei giorni migliori. Tumultuoso. Leggo la sua fiamma repressa sotto uno strato di droga che comincia ad attecchire ed annichilire la sua mente. Mi diverte. Mi incuriosisce.
    Ho aspettato per giorni prima di finire nella sua stanza, appropriandomi del suo letto approfittando della sua momentanea assenza.
    Provocare, è divertente. Stuzzico la realtà per poter godere degli eccessi. È più semplice muoversi in questi che nella normale quotidianità. Tutti ti giustificano quando sei fuori di te. Puoi fare qualsiasi cosa. Essere chiunque tu voglia.
    “A quanto pare si è liberato un letto.” Intervengo così quando vedo il biondo fare il suo mentre sono comodamente sdraiato sul suo letto. Le gambe incrociate e penzoloni mentre fumo in barba al divieto rosso stampato sulla parete sulla mia testa.
    “Credo mi trasferirò. C'è una vista migliore sul nulla da qui.” Gli dico, piegando il braccio dietro la testa e guardandolo appena per qualche attimo.
    “Hai fatto il culo ad uno di questi svitati qualche giorno fa.” Non sorrido, né rido. Sono serio ed assorto mentre gli espongo un dato di fatto. Il tumulto è fonte di gossip anche tra menti distorte come quelle che vivono qui. “Divertente.”

     
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    sufFn2J
    Di nuovo solo. Mi tocca abituarmi a quell'assenza, sfruttarne la mancanza per concentrarmi sulla motivazione che mi serve per colmare i vuoti che sento siano stati lasciati in questo posto, come solchi più profondi di quanto non avrei ostinatamente mai creduto, e venirne finalmente fuori. Più difficile disegnare linee di positività sul mio volto, nonostante l'animo sia pregno di un orgoglio che, anche in questo caso, non riuscirei a spiegare a nessuno. Era la prima volta dopo tempo immemore che fossi riuscito a sentirmi completato, riempito di quell'accessorio che rifinisse il quadro misero della mia esistenza rendendola un po' meno malinconica e solitaria. Ed è solo la ferma consapevolezza di avere qualcosa, qualcuno che possa incastonarsi perfettamente nelle pieghe della mia comprensione ad aspettarmi fuori da queste mura che mi incita a proseguire in questo percorso di rieducazione personale. Certo, sarebbe più semplice se non avessi fatto in modo che l'equipe medica mi dipingesse come un soggetto disturbante e poco incline alla collaborazione, ma c'è sempre un punto di partenza da cui fondare basi nuove e nel mio caso coincide col punto d'arrivo di Jerome. Comincio rassegnatamente ad abituarmi, quando oltrepassata la porta della mia stanza il mio sguardo investe contro quel letto composto, chiaramente privato della vita che lo occupava in precedenza, accostato al mio dalle coperte tanto incasinate quanto la mia testa. Un fastidio che mando giù ogni volta ingoiando di prepotenza il groppo alla gola intrecciato di quell'insopportabile assenza. Ancora incredulo, incapace di spiegarmi come le dinamiche di quello strano rapporto stiano mutando, insinuandosi in me con radici profonde che virano verso un'ossessione innaturale, tento di adattarmi anche a quella nuova esperienza. Non me la rende facile l'avere a che fare con un'anima anche più affine alla mia, tanto similare da reincarnare i medesimi atteggiamenti disturbanti con cui io do filo da torcere agli altri pazienti. Due contrasti che cozzano in modo quasi esplosivo da un paio di giorni a questa parte e che, a quanto pare, dovrò trascinarmi dietro più di quanto vorrei. Una consapevolezza che si palesa con una beffarda risata nel momento in cui al mio ingresso in camera ritrovo quella fonte di disagio, frustrazione ed eccessivo fastidio, seduta sul mio letto. ‹ Non ti voglio tra i coglioni e se non spegni quella merda entro cinque secondi te la ficco su per il culo. › Impossibile non rivolgergli quelle chiarissime note d'astio e diffidenza che la sua espressione piatta scatena con impressionante automaticità. L'Hollingsworth è un tipo di persona che mi fa quasi pentire di aver riservato i medesimi trattamenti alle vittime che mi sono scelto in questo covo di pazzi. Ormai traslato dalla parte opposta, perfettamente immedesimato in quei poveri squilibrati che si impegnano quotidianamente a risollevarsi dal loro apocalittico universo di disperazione, non riesco a reagire diversamente che da martire nei confronti di quell'irritante sbruffonaggine che forse il karma ha deciso di rivoltarmi contro, come punizione per il cinismo con cui ho creduto di potermi elevare al di sopra del mio disagio. Un disastro dietro l'altro, accumulati come macerie di una pazienza mai realmente contenuta, mai bloccata nella presa ferrea del mio controllo, su cui soltanto adesso cerco di arrampicarmi, gattonando a fatica verso la cima che mi riporti alla libertà che desidero riassaporare. ‹ Parli come se non fossi uno svitato anche tu. › Volutamente offensivo, sebbene rientrante in quella categoria tanto quanto lui, gli lancio addosso occhiate di genuino disprezzo, contenendomi dall'assimilare le sue provocazioni per tramutarle in una violenza che rischierebbe di mandare all'aria i progressi compiuti sino ad ora. Passivo, avanzo verso di lui. I movimenti un po' più impastati rispetto ai miei standard, i nervi eccezionalmente più saldi di quanto quel tipo di comportamento permetterebbe di norma. Nella mia avanzata, insomma, sono ben visibili tutti i miglioramenti del seguire alla lettera la terapia prescritta. E' un cambiamento che istiga parzialmente la mia preoccupazione, ma che stuzzica notevolmente la mia fierezza in merito. ‹ Ti togli dal mio letto o vuoi essere il prossimo svitato sulla mia lista a cui "fare il culo"? › Non perdo tempo a fissare le dita attorno alle sue braccia, nel tentativo di tirarlo via e cacciarlo definitivamente dalla mia stanza. Se solo i nostri diverbi si limitassero a pochi secondi di insulti ed occhiatacce, sarebbe più semplice mantenere la calma. In questo posto, però, non c'è un cazzo di elemento che sia realmente semplice. Nell'intricato intreccio di vite portate al limite per l'uno o per l'altro disturbo, ci tocca soccombere ai nostri confini morali. Ci si ignora o ci si sbrana a vicenda. Unico punto comune: sopravvivere.

     
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    Jonas né nessun altro potrebbe mai capire quanto abbia bisogno di questo tipo di interazioni. Necessito di un confronto, di uno scontro. Necessito di mettere alla prova me stesso e mettere a tacere i dubbi che si affollano nella mia mente. le persone non sono solo un semplice passatempo ma un bisogno, un tassello necessario per completare il personaggio che devo interpretare, quello di cui mi hanno dato il copione e che non riesco a sentire mio. Non tutti i giorni almeno. Cerco quindi un tumulto, il boato di un'esplosione. Il vociare disordinato che annienta la mia confusione. È il silenzio il mio acerrimo nemico, quello in cui le domande prendono forma e pretendono risposte.
    Rido scuotendo il capo alla sua minaccia, lasciando andare una boccata di fumo tra labbra strette. Eppure lo assecondo. Spengo la ciccia sul suo comodino, ignorando il posacenere lì accanto, prima di tornare a guardare il mio interlocutore.
    Gambe incrociate, braccia sul ventre e capo piegato.
    Non avrò idea di chi io sia, ma so come assumere un ruolo. So come essere la miccia che innesca una guerra. Ora voglio essere la sua. Mi darebbe un grande lustro, un'importanza enorme. Scatenare la sua furia, mi darebbe l'onore di un'etichetta. La consapevolezza di essere almeno colui il quale può essere odiato.
    “Lo sono, no?" Replico, sorridendo.
    Non obietto.
    Siamo qui da mesi. La fase della negazione l'abbiamo superata da tempo, e forse io non l'ho mai nemmeno realmente avuta. Non mi dispiace stare qui. I miei incubi si sono attenuati e l'equilibrio chimico che ci propongono sotto forma di polvere compressa e pillole dai colori tenui, calma i miei picchi. Smussa i miei angoli. Rende lo specchio in cui mi rifletto, meno frammentato. A volte mi sembra persino di riuscire a darmi un volto, se sono fortunato resta lo stesso per tutta la giornata.
    Quando mi afferra per tirarmi via, oppongo resistenza, quel che basta perchè io mi tiri su ma senza allontanarmi dal letto. Resto faccia a faccia col mio momentaneo nemico per un attimo prima di sorridergli.
    "Quindi?" Poi, la mano ancorata alla sua, si tira indietro con uno strattone nel tentativo di far crollare lui sul letto sul quale era sdraiato. Io mi allontano invece, accomodandomi sul letto di fronte.
    Sul comodino, un pacchetto avvolto in una carta stagnola attira la mia attenzione. L'ospite precedente deve aver dimenticato qui il suo spuntino, ed io me ne approprio, scartandolo.
    "Ora che se n'è andato il tuo ragazzo, che piani hai?" Do il primo morso, prima di piegarmi in avanti, gomiti poggiati sulle ginocchia. Lo fisso.
    "Smetterai di fare il coglione per seguirlo?" Ammicco.
    Poi, torno al mio panino, concedendogli un nuovo morso. "Sarebbe... Scontato."

     
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    AqYxwO0
    Impigliato in vertici di scontentezza iniziale, mascherata sotto l'orgoglio per i progressi avvenuti dall'altra parte, abbastanza convincenti da motivarmi a perseguire lo stesso cammino, non riesco a sentirmi affine al benessere che questa situazione dovrebbe trasmettermi. Un egoismo che mi lega imprescindibilmente alla mancanza, impedendomi di valicare l'invisibile muro limitativo che mi blocca una visuale più piacevole, come se la mia scala per scavalcarlo fosse quella persona ormai lontana. E l'Hollingsworth non sembra che innalzare ulteriormente questo muro, negandomi la possibilità di scorgere quelle sfumature di miglioramento che ho promesso di raggiungere. Così, immerso nel mio grigiore, mentre tento di riempire gli spazi bianchi di colori brillanti, Harvey arriva con le sue pennellate nere a macchiare la mia rinascita. Mi istiga, lo fa da un po', ma ormai scostato dalla necessità di reagire, di ripagarlo con le stesse fiamme di furia, getto acqua nel tentativo di spegnere l'incendio da lui appiccato. Si sa, però: talvolta l'acqua potrebbe solo alimentare il fuoco. Mi tocca dunque fare finta di nulla, fingere un benessere che anelo, nonostante sottili lame di conoscenza guidate dalle parole del ragazzo stiano già raggiungendo la mia coscienza per conficcarvisi con note pungenti, vagamente meschine. Borbotto imprecazioni a denti stretti, quando piombo improvvisamente sul materasso del mio letto ed il mio comodino si brucia di sigaretta. Sorvolo. ‹ Il fatto che condividessimo la stanza, non ci rendeva una coppia. La tua linea di pensiero è davvero così limitata? › Ignoro i pregiudizi che ci sono stati implicitamente scagliati contro, conscio che oppormi con esagerazione alimenterebbe la sua soddisfazione, oltre ad offrirgli nuove possibilità di tormento che andrebbero ad intaccare la mia tranquillità. Un lusso che non posso permettermi, concentrato in quella vaga provocazione destinata a rimanere sospesa in una non definizione. ‹ Magari non ho voglia di passare il resto della mia vita bloccato qui dentro. › Una realtà viva anche quando mi ostinavo a fingere di non voler abbracciare alcuna alternativa a questo schifo. Quando mi dicevo fiero del mio comportamento errato, capace di tenermi stretto in questo ambiente sì da non rischiare di piombare nella vita vera e sentirmi inadatto, incapace di reinserirmi in contesti di normalità che non sento più appartenermi. Definito dalla diagnosi, dalla terapia, dalle capsule che getto nel mio stomaco ogni maledetto giorno, continuo a dubitare di poter tornare ad esserlo. Se non ci provassi, però, avrei già fallito in partenza. ‹ Forse un giorno capirai anche tu che non vale la pena fare lo stronzo se ciò che ne ricavi è una reclusione perenne in questa prigione. › Un'illusione di vita, a conti fatti, a cui un po' tutti crediamo, dimenticandoci di cosa significhi vivere veramente. Mi sporgo appena oltre il letto, avvicinando con irruenza la mano al suo volto per strappare via il panino dalle sue grinfie e riavvolgerlo nell'incarto che Hollingsworth ha stracciato indecentemente. Mi limito, sì, ma non gli lascerò credere di avere così tanto controllo su di me e sulle mie cose. ‹ A me quello scontato sembri tu, con il tuo atteggiamento da "fingo non me ne freghi un cazzo, così la gente non vede che fottuta paura ho". › Ed io che ci sono passato, so perfettamente di cosa sto parlando.

     
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    Mi piace vedere il modo in cui mentono le persone. A se stesse prima che agli altri. Qui è un particolare comune. Si nega la realtà perchè immersi in scenari differenti. Forse non si tratta nemmeno di bugie, quanto di punti di vista diversi. La pazzia non è nient'altro che questo. È vedere il mondo dal buco di una serratura, godendo del proprio universo fatto di colori nuovi e sgargianti. È quando i due scenari si schiacciano per sovrapporsi che accadono problemi. Non sono miscibili. Come olio ed acqua, restano l'uno sull'altro, dando visioni opache e frammentate di sé.
    Eppure ora Jonas sembra appartenere alla prima categoria, quella dei bugiardi. Non so se mente a me o a se stesso, ma io so cosa ho visto. Il ragazzo ostile che avrebbe messo all'angolo chiunque pur di tenerlo lontano, si era avvicinato a qualcuno. Se non è una straordinarietà questa, non so cosa possa esserlo.
    “Porti tutti i tuoi compagni di stanza a fare una visita panoramica del terrazzo? Porterai anche me?” Gli chiedo, inarcando le sopracciglia con l'espressione di chi conosce già la risposta. So quanto possa essere fastidioso il mio modo di fare ed è esattamente per questo che ne faccio abuso. “Tranquillo, non l'ho detto a nessuno.” Preciso poco dopo, come a voler rassicurarlo sul fatto che questo può considerarsi un nostro segreto. Un'altra fune per il nostro legame.
    Ignoro le sue supposizioni. Non che non abbia ragione, ma non me ne sento toccato ora. Questa parte di me non ha paura. Ora sto bene. È quando chiudo gli occhi che si fa forte il timore di un passato che sto imparando a ricordare e riconoscere soltanto adesso.
    “E dove vorresti passarla la tua vita?” Gli chiedo, mettendo su un'espressione turbata quando mi strappa via il mio trofeo gastronomico che stavo pregustando.
    “Era buono.” Gli dico ancora a bocca piena, mandando giù il boccone.
    Mi piego in avanti. Il mio sguardo fisso in quello dell'altro, quasi come un predatore che punta la sua preda.
    “Ci divertivamo prima.” Un dato di fatto. Non siamo mai stati realmente amici, forse più soci. Compagni di malefatte. Univamo i nostri talenti per concederci una pausa dal mondo, un aumento della nostra permanenza in quest'ospedale. Tutto è finito d'improvviso.
    I cambiamenti drastici hanno sempre un forte effetto su di me. Li accolgo con apparente apatia, ma non significa affatto che io non li elabori col tempo.
    “Ti ricordi quando raccontammo a David che lui non era il vero se stesso e che era in realtà vittima di un loop temporale? Vederlo impazzire ed urlare era divertente.” Rido a quel pensiero, tirandomi in piedi per raggiungerlo. Mi fermo ad un passo da lui che è seduto sul letto, restando a guardarlo dall'alto in basso. “Mi manca.”

     
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    20rHuKl
    In trappola. Così mi fanno sentire le sue parole, spettatore attento dei cambiamenti cui io stesso ho cercato di non arrendermi per non sentirmi sopraffatto dalle loro conseguenze, costretto alla fine ad accettare la possibilità qualcuno avesse fatto irruzione nella mia vita con tale muta insistenza che non sono stato capace di combattere. Ed il fatto che sia proprio lui a mettermi alle strette, bloccato contro un muro di finzione con la luce della verità puntata dritto sulla faccia, rende questi attimi anche più minatori, insopportabili. Le sue silenziose accuse mi affliggono più di quanto non dia a vedere. ‹ Mi sembra di aver detto che non sei il benvenuto in questa stanza. › Non qui. Non su quel letto, su cui siede formando davanti ai miei occhi un concetto completamente sbagliato, imperfetto ed inaccettabile. Perché una parte di me, quella ancora proiettata con ossessività nelle modifiche emotive subite nelle ultime settimane, sente la necessità di scindere completamente quelle due parti della mia vita così diverse, così opposte da non potersi mescolare. Ecco perché la presenza di una ha accantonato in parte quella dell'altra. Una visione univoca che mi ha impedito di lasciar coesistere due situazioni da cui ho ricavato la compagnia di cui necessitavo: una estremamente distruttiva, parallela ed affine alla mia, l'altra risanante, ingenua, nuova, di una bontà che ha catturato il mio interesse, ipnotizzandomi nel desiderio perenne di averne di più, di adeguarmi ad una prospettiva che mi sembrasse migliore. Adesso mi tocca convivere con quello strappo, consapevole di non poterlo ricucire attraverso Harvey. Sarebbe sbagliato, sarebbe irrealizzabile. Oscillo quindi tra i due eccessi che si sono prepotentemente stagliati nella mia vita, quella nuova, quella malata e controllata, limitata, e non provo che angoscia dall'una e dall'altra parte. Potrei persino meritarmelo. ‹ Non sono cazzi tuoi. › Una risposta imprecisa, velata di un'ironia che mai andrebbe a scagliarsi con reale astio nei confronti dell'altro. Un modo come un altro per mascherare la mia indecisione a riguardo, un totale blackout della mente nel pensare al dove proseguire una volta portata a termine la mia permanenza clinica. In me, ancora viva la paura di essere un pericolo per gli altri, nonostante le medicine mi aiutino a mantenere una presa appena più salda sui miei nervi. Un assopimento di eccessi cui cerco di adattarmi, conscio però che la strada sia ancora lunga e potenzialmente tortuosa. Questo uno dei motivi per cui cerco di non cedere quando l'Hollingsworth disegna con la sua matita dei ricordi tutte le memorie che ci hanno viste protagonisti, tra le mura impersonali di questa maledetta clinica. Tempo che adesso giudicherei sprecato, non fosse che la vicinanza dell'altro è riuscita a darmi un posto nel mondo quando ho creduto di aver perso il mio. Un posto accanto a lui. ‹ Chi se lo dimentica... › Difficile imporre alle mie labbra di catalizzarsi in un'impersonale apatia. Le sento già distendersi mentre i miei occhi si sollevano verso il soffitto, come vi fosse proiettata l'immagine di quella e di tutte le altre malefatte con cui abbiamo ribaltato la calma di questo postaccio. Non potrei dimenticare quel risveglio improvviso dalla mia rassegnazione, quando nella mia anima addormentata si è seminata un'illusione di comprensione che, nonostante tutto, niente riesce a togliermi più. Un'immagine di superficiale felicità, solo perché certo di aver trovato la mia affinità in un universo che mi sembrava ormai fuori dalla mia portata, troppo lontano da ciò che sarei stato destinato a diventare. Riporto lo sguardo sul ragazzo davanti a me e la consapevolezza quel bel ricordo non sia che un capitolo della mia esperienza da mettere da parte per lasciare il posto a qualcosa di meglio, ridipinge serietà sul mio volto. ‹ Ma non importa. Ho chiuso con quelle stronzate, non ne vale la pena. › La mia attenzione si sposta su tutt'altro, mentre mi avvicino al comodino accingendomi a ripulirlo delle tracce malsane e ribelli che il ragazzo vi ha impresso. Non riesco a guardarlo, adesso. ‹ Senti, non ha niente a che vedere con... Morrow. › Ne pronuncio il cognome, cercando di marcare un distacco che non è più reale. Cerco di farlo credere all'altro, ma non me ne spiego il motivo. Lo faccio e basta. ‹ Mi ha solo aiutato a capire che starmene qui a fingere di avere il controllo di me stesso perché ho paura di affrontare il cambiamento là fuori non è ciò che voglio davvero. › Una confessione che mi lascio sfuggire, velata di una sincerità che sento di volergli rivolgere, seppur ancora codardamente incapace di puntare lo sguardo verso il suo. Lo faccio solo quando, scacciata vita la polvere e la cicca sulla superficie bianca del comodino insieme con quei disturbanti pensieri che mandano in tilt la mia bussola, non mi sento di nuovo in grado di condividere una familiare empatia con chi ho cacciato all'improvviso, per inerzia, quasi senza rendermene conto. ‹ Cazzo, tu non hai voglia di levare le tende ed uscire da questo buco di merda? › Cosa gli impedisce di provarci anche lui e di venirne fuori insieme, per finirla così come abbiamo iniziato?

     
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    Sguardo fisso, deciso. La sua rivelazione arriva a poco poco. Si scopre nonostante l'iniziale limite da lui anteposto, mostrando tracce d'una umanità profonda che avevo già percepito. A volte capisco fin troppo bene le persone, meglio di quanto io sarò mai capace di capire me stesso. Mi basta osservarle.
    Con Jonas è più semplice del solito. C'è qualcosa nel suo modo di fare che attiva i miei sensi. Mi incuriosisce il suo atteggiamento, lo scudo che si crea per nascondere una persona già formata e che conosce meglio di quanto io potrò mai riuscire a conoscere me stesso. Forse è l'invidia. Forse l'ammirazione per una persona che ha spigoli ben definiti e soltanto da smussare.
    Deve essere bello aver consistenza e non sentirsi una massa informe sputata qua e là in contesti astratti che non si comprendono.
    “Quello della guida è un ruolo importante.” Lo pungolo, ancora, con insistenza, alludendo ad una risposta che forse conosciamo entrambi. In realtà non ne ho la certezza. Assistere ad un mutamento così veloce e radicale però, parla chiara, basta solo saper osservare. Nulla cambia diventando qualcosa di diverso da ciò che era. Non si creano nuove entità dal nulla. Jonas ha solo mutato la sua forma, come se avesse indossato vestiti nuovi, ed è stato qualcun altro ad aiutarlo a farlo.
    Corrugo la fronte dinanzi alla sua proposta.
    Sembra sincero.
    Per un attimo sembra sul serio volermi aiutare ma non credo più a chi mi tende la mano. Lo fanno solo per pulirsi la coscienza o per trascinarti in posti in cui non vorresti essere. “Perchè dovrei aver fretta di tornare ad un mondo che non mi si adatta?” Gli chiedo retoricamente, piegando il capo nel rivolgergli uno sguardo vacuo. Eppure sono qui. Lo sento. È più semplici sentirsi reali quando mi confronto con Jonas. Deve essere perchè le nostre lunghezze d'onda si sovrappongono, unendosi per dar vita ad un'unica sfumatura di colore. La variazione cromatica che ci dipinge, ci inserisce in uno stesso intervallo. Questo mi fa sentire finalmente affine a qualcuno.
    O forse, siamo solo pazzi entrambi.
    “Qui posso essere chiunque o nessuno. Resterei comunque pazzo e sarei qualcuno, tutto sommato, e sarebbe comunque migliore dell'etichetta che mi aspetta messo piede fuori da questo ospedale. Qui, siamo liberi.” Annuisco, facendo spallucce l'attimo dopo, rimuginando su un tentativo da fare per provare a tenerlo qui con me.
    “Potresti esserlo anche tu. Fuori chi saresti invece se non il ragazzo pericoloso che potrebbe uccidere qualcuno a suon di pugni?” Ed attendo solo un attimo.
    Un attimo in silenzio, prima di poggiare una mano sulla sua spalla, e spingerlo con forza.
    Attendo un attimo, prima di rifarlo.
    Jonas ha provato a convincermi a suo modo. Io proverò a trattenerlo secondo il mio. Lui vuole liberarsi del suo mostro. Io lo voglio qui con me.

     
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    Sorvolare sulle sue allusioni è una conseguenza necessaria per proteggermi da quella realtà che non sono ancora pronto ad accogliere. E' come se Harvey volesse spingermi ad ammettere in che modo Jerome abbia influito sul mio pensiero, ma ho ancora troppa difficoltà a realizzarlo io stesso, ad immaginarmi inserito in un contesto così profondo a cui mai nella vita sono stato abituato. Mi chiedo, per un attimo, se l'insistenza dell'altro non sia guidata dallo stesso motore, perseguendo una strada similare, limitata dalle stesse motivazioni di benessere che hanno convinto me a dare un'opportunità a qualcosa di diverso. A credere di essere una persona, non il disturbo inciso dal destino sulla cartella clinica appesa ai piedi del mio letto. Una condizione che mi ha tenuto ancorato a parti di me atte a proteggermi, ancor più che a proteggere gli altri, nei medesimi modi con cui Harvey cerca di assopire il suo vero se stesso di cui sembra aver perso ogni traccia, dedicandosi a coltivare nuove personalità che lo custodiscano e riparino. ‹ Perché magari esiste la possibilità che sia tu ad adattarti. › Continuo ad elargire positività in modalità che non mi competono, probabilmente atte a far storcere il naso a chi ha conosciuto di me tutta un'altra versione. Leggo con facilità le note di delusione ed incredulità che si incidono sui tratti di Harvey e non me ne sento lieto. Tuttavia nutro una speranza che mi invoglia a tentarci, ad agire con lui così come il rosso è riuscito a fare con me, non tramite quella stessa delicatezza e comprensività che lo contraddistingue, ma mettendo piuttosto in primo piano il mio interesse nei confronti dell'Hollingsworth, il mio desiderio di salvare anche lui dalla parte più cruda del destino che ci è stato imposto. Perché magari una soluzione c'è davvero ed io voglio che lui la afferri proprio come mi sto impegnando a fare io. ‹ Siamo liberi dalle etichette avvilenti del mondo esterno, ma siamo intrappolati in noi stessi. Questa non è vita, è solo un modo codardo per non affrontare la realtà. › Pretendo troppo. Non tutti si adattano ad una precisa visione delle cose. Ritengo già miracoloso essere riuscito io stesso ad offrire una possibilità a quel genere di cambiamento, ad affacciarmi appena oltre la porta socchiusa della mia cecità, per darmi uno scorcio di benessere che potrebbe rivelarsi fittizio. Ma che succederebbe se funzionasse? Se dall'altra parte della fessura quella luce corrispondesse al sole e non ad una torcia? Se il mondo fosse pronto ad accogliermi, perché escludermi a prescindere la possibilità di avanzare a piccoli passi verso quel destino? Jerome ha aperto la porta per me. Harvey cerca di richiuderla, di spingermi dentro il mio disagio e riportarmi a quella prigione cui mi sono adattato senza battere ciglio. Prova a rivestirmi della paura che ho provato dal primo giorno in cui ho messo piede qui dentro ed io me ne sento tramortito, scosso. Indietreggio appena sotto la potenza del suo tocco, sempre più incisivo, sempre più insistente. ‹ Falla finita.› Una richiesta sconsolata pronta ad assumere le sembianze di un grido d'aiuto. ‹ Piantala, non mi toccare. › Un grido disperato. ‹ Cazzo, non mi toccare! › Preda delle mie emozioni, perdo il controllo e con esso tutti i progressi che mi sembrava di aver fatto. Reagisco alle sue spinte, riservandogliene a mia volta di più atroci, molto più violente di quanto lui non faccia. Di quanto lui non meriti da parte mia. Così la mia diagnosi prende il sopravvento, muovendomi a proprio piacimento come un crudele burattinaio che tiene in pugno le mie fila. Mi solleva in piedi, mi fa scattare contro l'altro e lo spinge dritto verso il letto alle sue spalle, ad una potenza tale da trascinarlo sul pavimento, spostandone la pediera di qualche centimetro. In un attimo, gli sono addosso. Non sono io a combattere e questo Harvey lo sa bene. ‹ Non mi toccare! Vaffanculo! › E lo odio, lo odio per avermi spinto fino a questo punto, ansante su di lui, rosso in volto, in preda a spasmi di tremore nervoso che cercano risoluzione nell'eccesso. Col pugno sollevato verso il suo volto, il fiato mozzato, lo guardo intensamente. Gli suggerisco la mia paura, in quel ritorno ad abitudini cattive che non sento più appartenermi. Lo imploro di non riportarmi a quella realtà, perché non voglio più farne parte. Gli chiedo comprensione, non posso pretendere di più da lui, e gli chiedo implicitamente di unirsi a me. ‹ Non costringermi a questo. Ti prego. › E se non vuole seguirmi o accompagnarmi in questo percorso, che almeno non mi metta i bastoni tra le ruote. Non una pretesa, ma un desiderio che si esprime con prepotenza nei miei occhi spaesati.

     
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    Un colpo, basterebbe un colpo.
    La caduta di un solo tassello per veder venir giù come fosse un domino la sua inutile parvenza di normalità. Potrei lasciarmi andare ad un atto simile. Soffiare sulle sue convinzioni, soltanto per vederle crollare, ma non lo faccio.
    Mi limito ad osservarlo, sotto di lui. Non mi oppongo, non mostro alcun timore. Non ne ho.
    Ci sono momenti come questi, momenti in cui la realtà diventa ostica, in cui mi sembra di non riuscire più ad entrare nel mio corpo. È quasi come se vivessi dall'esterno ciò che mi capita, calmando i miei nervi e svuotando il mio sguardo.
    Le spalle sono molli, la mia espressione rilassata, mentre lo osservo come se non fossi nemmeno qui.
    “Okay.” Non oppongo resistenza. Non pizzico ancora la sua pazienza ma semplicemente mi adeguo. Deve essere una sorta di insito meccanismo di protezione. Quando vivi a lungo all'inferno, un po' ti abitui alle fattezze del diavolo. Sai com'è fatto e cosa farà. Il modo migliore per evitarsi dolori, è adeguarsi. A nessuno piacciono gli eroi, e quelli non vivono mai a lungo.
    Poggio delicatamente una mano sulla sua, per tentare con pacatezza, di allontanarla da me. Sono gesti lenti, calcolati, quasi come se sapessi esattamente come fare per evitare il peggio. È quel che spero.
    Soltanto dopo, mi lascio andare ad una confessione nel guardarlo. L'unico colpo che non posso tener per me. Una verità di cui, da amico, sento la necessità di metterlo al corrente. “Tu sei questo. Potrai ingozzarti di pillole quanto vorrai, ma resterai sempre lo stesso.”
    La verità tuttavia, è sempre la strategia peggiore. Sono poche le persone in grado di ascoltarla, ancor meno quelli capaci di accettarla. La verità è una pugnalata di realtà in un corpo fatto di finte e fantasie. Siamo tutti fatti così. Nel nostro corpo, nelle nostre vene, scorrono bugie insieme al sangue. È nel nostro DNA. Ci raccontiamo fandonie fin da quando apriamo gli occhi, lo facciamo anche in modo totalmente inconscio. È il nostro modo di sopportare il mondo, perchè vivere è la cosa più paurosa che possa esistere.
    Avvicino il mio volto al suo, mettendo su un'espressione distesa. Non c'è sfida nel mio sguardo, né tumulto tra le mie labbra. Solo la pura sincerità di chi riesce a vedere il mondo da un angolazione differente. “E lo sai perchè lo so?” Procedo ricercando il suo sguardo, nel desiderio di catturarlo. Di inoculare nei suoi occhi come nella sua mente, il seme della realtà.
    “Perchè ti conosco.”


     
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    Oscillo tra due desideri opposti, lo sguardo piantato dritto sul suo, inerme sotto di me, come stesse ponderando sulla possibilità di farmi dono della tregua che gli ho implorato fino ad ora. Dovrei sentirmi meglio, ma non ci riesco. Dovrei sentirmi appagato per essere riuscito ad inserire il mio messaggio nella sua piena percezione delle cose ed invece mi sento male. Mi sento traditore di chi ha compreso più sfumature del mio nuovo essere di chiunque altro. Una carogna indegna anche solo di sfiorare le possibilità di comprensione che mi sono state offerte. Così, colpito dalle sue parole, pietrificato dalla realtà che ha appena pronunciato con ferma convinzione, mi sento sconfitto. Tutti i miei pensieri si rimescolano, in un nauseabondo guazzabuglio di pregi e difetti che dipendono da chi mi è intorno, dal mio modo di relazionarmi a loro, che non ad una ricerca di me stesso prettamente dipesa dalla mia volontà. Poggiato all'immagine offerta all'uno ed all'altro ragazzo, cosa ne resta realmente di me? Che fine fanno tutte quelle particelle di sincerità che riempivano il mio animo ormai compromesso, dove ora giacciono buchi di nulla ai cui confini fanno capolino paure ed incertezze? Indietreggio, non per volontà mia. Mi lascio guidare dal suo tocco lento, come perfetta esemplificazione degli ultimi mesi passati qui dentro. Mi vesto dei panni che voglio gli altri giudichino, non di quelli più comodi che mi aiutino a procedere. E questo lo realizzo soltanto adesso, che mi sento mancare quella parte di intesa a cui ho voltato le spalle. Mi sento già perso. Eppure non mi arrendo. ‹ Non mi riconosco neanche in "questo". Tanto vale addormentarlo, no? › La verità è questa. Triste, dura da mandar giù, ma pura e semplice realtà: io non lo so più chi sono. Ho probabilmente perso la cognizione di me stesso quando i miei occhi da bambino si sono posati su uno scenario troppo crudo da sopportare ed ho plasmato una protezione che non ha mai dato definizione a ciò che vi albergava dentro. Non sono che un riflesso, una figura di lucida trasparenza di cui gli altri non notano che i contorni. Ed io stesso, quando mi guardo allo specchio, non riconosco niente. Non riconosco nessuno. Ed è questo che mi ha legato così tanto ad Harvey, che si ostina ancora a rimanere attaccato a quell'immagine opaca recepita allo specchio. Perché è più facile ostentare la nostra finta superficialità che scavare a fondo in noi stessi. Io, però, ho deciso di affrontarlo ed il modo migliore per farlo è strappare definitivamente quell'unico pezzo di legame che ci tiene ancora uniti, che ci collega più di quanto non saremmo disposti ad ammettere, in un'immagine pronta ad assumere sfumature malinconiche, solo a causa mia e del mio desiderio di abbandonare la mia pelle da detenuto. ‹ Magari non mi conosci abbastanza, Hollingsworth. › Una bugia sparata a zero, impaurito dalla consapevolezza in poco tempo sia riuscito a conoscere di me più di quanto io stesso non riesca a fare. E mi sono cullato nel benessere che quella celata fiducia ha poggiato sui miei sensi, aiutandomi non a sentirmi un mostro da temere, quanto piuttosto uno che si potesse accettare nonostante i propri difetti. Giudizi negativi che sono sempre mancati nel nostro rapporto, lasciando il posto ad una connessione basata su una muta comprensione. Chissà se si sente altrettanto ferito da tale crudele separazione. Io ne avverto già il fastidio, come stessi strappando un pezzo della mia stessa carne per privarmene per sempre. ‹ E ora fuori dalla mia stanza. › Un ordine che chiuda quel ciclo di cui abbiamo fatto parte, allontanandomi da lui in attesa segua la mia imposizione. Resto a guardare il disastroso risultato della mia scelta, per capire se ne sia davvero valsa la pena.

     
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