There's something in the way that you cry...

...that makes me die inside. (Alyssa)

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    Eric J. Ðylan
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    Era una bella giornata di maggio, luminosa e calda. Le lezioni del pomeriggio s'erano da poco concluse e Eric camminava attraverso la tenuta, un lungo prato verde punterellato di fiorellini selvatici. Aveva undici anni. Le gambette magre e svelte che lo portavano avanti, aveva un andamento leggero come quello di un animaletto selvatico. I capelli corti di un biondo sporco, il pallore di chi passa ormai più tempo sui libri che fuori all'aria aperta. Calpestava le zolle erbose del terreno quasi a gioco, mentre il peso della borsa a tracolla ricolma di manuali di studio piegava leggermente la sua figura da un lato. La sua meta era l'ombra di un faggio - rosso in quel periodo dell'anno - dove poteva sistemarsi comodamente a leggere, deliziato da una buona vista sul lago nero. Ci andava da solo, perché in genere la solitudine era sempre stata la sua compagna più gradita. Non che non andasse d'accordo coi suoi compagni di casata, anzi... Solo che Eric aveva un temperamento da lupo solitario: era perfettamente in grado di entrare nelle dinamiche di gruppo, di fare amicizia, ma non in maniera profonda. Aveva perlopiù legami superficiali, e per qualche motivo i suoi coetanei tendevano spontaneamente a rispettarlo, ad aspettarsi che li guidasse. In pratica gli veniva offerto un ruolo da leader che però - almeno in quel periodo della sua esistenza - non desiderava. Stava appunto aprendosi la strada tra ciuffi d'erba un po' più alta, man mano che s'allontanava dalle mura del castello, quando un capannello di ragazzetti sulla riva del lago - che come lui portavano addosso ancora la divisa scolastica - attirò la sua attenzione. Dapprima li sbirciò soltanto con la coda dell'occhio e ricobbe gli effetti della sua casata sul loro abbigliamento: serpeverde. Quando fu abbastanzo vicino, iniziò distinguerne anche le voci: molti di loro sghignazzavano mentre alcuni inveivano in direzione di qualcosa - o di qualcuno - che era sottratto però alla sua vista. Eric non era il genere di persona che si faceva gli affari altrui: era piuttosto individualista per natura, eccetto rari casi in cui il suo senso morale lo obbligava ad agire in favore di qualcuno. Ma ancora l'egoismo non sapeva esattamente cosa fosse: a undici anni era solo una personcina molto attaccata alla madre, abbastanza viziata, che aveva vissuto un'infanzia solitaria e avrebbe voluto più attenzioni da parte di suo padre. Per questo non intervenne immediatamente, quando si rese conto che al centro del piccolo cerchio c'era una persona - una ragazzina del primo anno a giudicare dall'aspetto - solo di una diversa casata: corvonero. Da un varco apertosi tra due sue compagni, Eric potè fissare gli occhi su quella figurina esile, la testa color fiamma, che sembrava mortificata dal coretto di voci maschili che le davano della stramba. Non la vedeva bene in volto, ma il suo linguaggio del corpo non lasciava posto a dubbi: veniva bullizzata, ed era in una posizione di netto svantaggio. Preso da un'irritazione improvvisa e profonda, ebbe l'impulso irrefrenabile di intromettersi nella faccenda e fare in qualche modo da mediatore - o in caso da scudo - tra le serpi e la corva. «Con chi ve la state prendendo stavolta?» interloquì senza preamboli, in un tono ugualmente stanco e seccato. Ora che aveva una bacchetta magica, la differenza di fisico non importava più molto: la sua statura ancora non molto alta e il corpo gracile non erano più un ostacolo alla possibilità di avere la meglio in uno scontro. Improvvisamente tutti tacquero, tranne un paio di ragazzini particolarmente arroganti che non ci stavano a farsi comandare da un coetaneo. «Le facciamo solo capire meglio la feccia mezzosangue che è.» disse uno di loro, sprezzante. Gli occhi di Eric allora si strinsero, come succedeva sempre quando interiormente valutava una frase o un gesto di qualcuno, riflettendo rapidamente sulla sua mossa successiva. Ma non serviva chissà quale elucubrazione per afferrare una verità evidente e indiscutibile, perciò un ghigno gli si disegnò sulla bocca e beffardo replicò al campagnuccio: «Anche io sono un mezzosangue.» dichiarò senza mezzi termini. «Vorresti riservare anche a me lo stesso trattamento privilegiato che concedi a lei?» il tono era di sfida, e lo sguardo truce, quello si chi è prontissimo a battersi e non dubita di poter avere la meglio. A quel punto buttò per terra la borsa dei libri e sfilò con grande calma la sua bacchetta dalla tasca. Il suo nemico - almeno su quel campo di battaglia - fu preso in contropiede, e sulla sua faccia si dipinse il disappunto di chi sa che non ha abbastanza fegato come invece gli piace fingere. Probabilmente non si immaginava nemmeno che Eric fosse davvero un mezzosangue, perché qualcun'altro azzardò: «Ma la tua è una famiglia di maghi, lo dicono tutti.» Fu il turno di Dylan di sghignazzare. Perché lo pensavano? Perché suo padre era purosangue e lui sembrava essere un mago particolarmente dotato? «E invece vi devo deludere. Mia nonna era una Veela.» lo disse così, ma non sortì l'effetto sperato: gli altri non lo guardarono in modo diverso per questo, al contrario sembravano affascinati. «Quindi fino a prova contraria sono uno sporco mezzosangue tanto quanto questa corvonero.» Alzò la bacchetta contro tutti loro, avrebbero solo dovuto provarci... E pensò bene di provocarli: «Su, dai. Che aspettate? Sono qui. Colpitemi, se vi riesce.» Sapeva nessuno di loro aveva passato la metà del suo tempo a studiare ed esercitarsi. Poi però accadde qualcosa: il bulletto che aveva parlato prima provò a coglierlo di sorpresa con un impedimenta, ma lui era stato abbastanza svelto da evitare la scia luminosa che andò invece a colpire un altro suo concasato. Il suo contrattacco fu meno ostentato e tuttavia più funzionale «Rictusempra!» sibilò in direzione dell'altro, il quale iniziò a ridere pazzamente fino a cadere per terra e quasi soffocare. Fu allora che tutti i presenti - eccetto la corva - iniziarono a disperdersi, mentre qualcuno cercava di aiutare le due vittime inattese. Fu allora che Eric tornò a dedicare la sua attenzione alla rossa: «Stai bene?» le domandò, incerto se avvicinarsi di più oppure rimanere a distanza. «Sono solo degli idioti. Codardi, perdipiù.» le spiegò, azzardando un sorriso amichevole. Non poteva prevedere la sua reazione, ma sperò che la sua intromissione non l'avesse infastidita. Per una persona orgogliosa ricevere un aiuto non richiesto poteva essere motivo di rabbia, anziché di gratitudine. Perciò rimase in attesa.


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    Edited by Ðylan - 18/5/2020, 20:57
     
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    Odiavo Hogwarts.
    Ero fuggita dal mondo Babbano piena di speranza, convinta che finalmente potessi lasciarmi alle spalle quel codazzo di bulli che impestavano la mia vecchia scuola e cominciare una vita nuova, senza più offese nè risate di scherno alle mie spalle. Mi ero convinta che stare in mezzo alla "gente come me" fosse la scelta giusta, ma in quel posto intriso di magia non avevo fatto i conti con i serpenti. Quando avevo messo piede per la prima volta al castello le gambe mi tremavano dall'emozione e il cuore mi scoppiava di gioia, non vedevo l'ora di imparare tutto sulla magia e dimostrare a mio padre quanto fossi speciale come diceva la mamma; volevo dimostrargli che era stato un vero codardo, un uomo piccolo e viscido ad averci abbandonate così solo per paura, paura di sua figlia, della sua magia, del suo potere. Era colpa sua se, in tutti quegli anni, ero stata costretta a fingere di essere ciò che non ero, a mettere su una maschera di spavalderia che non mi apparteneva per essere accettata dai compagni di scuola, costretta a fare la snob, quasi la leader di un gruppetto di oche giulive che credevano di essermi amiche. La realtà era che nel mio mondo, anzi in quella metà di mondo, io non avevo amici veri; nessuno mi conosceva per davvero, sapevano vedere solo la facciata senza preoccuparsi di andare a fondo, nessuno voleva scoprire chi fossi realmente e nessuno, ovviamente, conosceva il mio segreto. I miei segreti, a dir la verità.
    Allora avevo sperato, avevo sognato quel posto, agognato quella voglia di essere finalmente me stessa e di trovare qualche vero amico che mi volesse bene esattamente per chi ero..Quanti sogni, quante speranze infrante.
    Per quelle come me, quelle divise a metà, non c'era speranza.
    Appena arrivati ci avevano divisi per Case con un cappello magico in grado di "leggere" la nostra anima ed io ero finita dritta a Corvonero, figuriamoci secchiona com'ero! Prima di andare ad Hogwarts, ovviamente, avevo letto tutta la storia, desiderosa di scoprire ogni segreto di quella che sarebbe stata la mia seconda casa, e quasi c'ero rimasta male per non esser finita a Grifondoro, la tana dei coraggiosi; avevo un grande intelletto e questo bastava a rendermi una grande persona, certo, ma non era sufficiente solo il cervello in quel posto, perchè anche fra quei banchi e calderoni sgobbare sui libri non era abbastanza. Fra quelle mura avevo scoperto perchè il Cappello Parlante non mi avesse messa fra i grifoni: io avevo costantemente paura. La paura non è una cosa di cui vergognarsi, anzi, a volte è proprio quella che ti tiene in vita..il problema è che io avevo paura di me stessa.
    Che idiozia, direte voi, eppure è la pura e semplice verità: quel maledetto "dono" mi aveva resa una vigliacca, proprio come mio padre. Non servivano a niente le parole di conforto della mamma a farmi sentire davvero speciale, perchè nessuna carezza amorevole avrebbe potuto scrollarmi di dosso la paura della Vista. Quelle immagini senza senso, quelle voci nella mia testa non mi rendevano speciale, al diavolo!, non facevano altro che terrorizzarmi ancora e ancora, proprio come quando avevo otto anni; ero rimasta quella bimba spaurita che grida a squarcia gola nel suo letto, cercando riparo fra le braccia della mamma, implorando la vicinanza di un padre che aveva eretto fra noi un muro di ghiaccio. Avevo creduto che fra quella gente qualcuno riuscisse a capirmi, ma anche lì ero quella strana.
    Ma c'era una qualità che mi mancava più di tutte in quel posto: essere una strega completa. Il primo giorno di scuola, oltre ad aver appreso di essere una codarda, avevo anche appreso di essere Mezzosangue. Sapete cosa vuol dire questa parola? E' un insulto rivolto alle persone che non discendono da una famiglia di maghi, figli nati da genitori Babbani che della magia sapevano solo un Bibidibobidibù, una di quelle stupidaggini che si leggono nei libri di favole. Ecco, per i Babbani la magia era solo una favoletta, ma per i maghi noi Mezzosangue eravamo quasi come gli antagonisti che andavano tolti di mezzo per arrivare all'happy ending. Potevo essere più intelligente, più scaltra, più brava in Pozioni rispetto a tutti i miei compagni, la migliore nel volo, ma sarei rimasta sempre la Corvonero Mezzosangue. Così avevano cominciato a chiamarmi i perfidi Serpeverde e ben presto a quel nome si era aggiunto anche quello di Mezza-strana; appena si era sparsa in giro, chissà come poi, la voce che fossi dotata della Vista ero automaticamente diventata la Corvonero Mezzosangue-Mezza strana e addio casa felice.
    Non c'era giorno che quei maledetti mi facessero pesare cosa fossi, non c'era giorno che potevo seguire in pace una lezione senza ricevere bigliettini con disegnini orribili che mi ritraevano a bocca spalancata e con gli occhi spiritati. Non c'era giorno che riuscissi a non versare una lacrima e sentirmi meno sola in quel posto. Odiavo Hogwarts, appunto. E odiavo i Serpeverde.
    Quel giorno la storia non era cambiata, l'ennesima presa in giro per il mio sguardo vitreo in Sala Grande, dopo aver rovesciato tutti i libri per terra ed esser rimasta impalata davanti a tutti. L'ennesima visione strana, l'ennesimo motivo per farmi dare addosso. Ero fuggita come sempre, stanca di sentir volare sempre gli stessi insulti, stanca di ricevere pernacchie e spintoni, così mi ero diretta di corsa verso il Lago Nero alla ricerca della solitudine che, purtroppo, non era mai arrivata. Quegli impertinenti mi avevano seguita fin lì, accerchiandomi e ridendo delle due lacrime che solcavano il mio volto, arrossandomi gli occhi e ferendomi il cuore ancora una volta. Mi avevano derisa e schernita tutti insieme e,quando ero stata sul punto di lanciargli una fattura, un giovane dai capelli biondi con la casacca verde era venuto in mio soccorso.
    Non l'avevo mai visto, ma doveva avere all'incirca la mia età e si era eletto a paladino della giustizia sistemando a parole e magie quegli idioti della sua casa. Un Mezzosangue come me, anche se a differenza mia, lui non provava vergogna, sembrava quasi fiero di esser quello che era, non sputava sentenze sugli altri e non giudicava le persone dal sangue. Un altro strano, un altro come me.
    Grazie..anche se la codarda sono io. Sei tu quello che li ha affrontati tutti. sussurrai rinfoderando la bacchetta nel mantello. Sei un Serpeverde anche tu, perchè l'hai fatto? Domandai curiosa, sinceramente colpita dal suo atteggiamento. Quasi ero invidiosa di come si era saputo difendere dalle stupidaggini di quei ragazzini viziati, invidiosa di quel suo essere così sicuro di sè tanto da sembrare che tutti lo rispettassero. Che fosse il loro capo in realtà? Che volesse finire l'opera dei suoi compari? Perchè gli hai detto di essere un Mezzosangue? Quelli come noi li calpestano, ammesso che tu lo sia davvero. Era più forte di me, non ce la facevo a fidarmi subito delle persone, dentro di me c'era un piccolo diavoletto che mi diceva di stare in guardia da tutto e tutti. Scusami, sei stato così gentile a difendermi anche se è..strano. Piacevole, ma comunque strano!
     
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    Eric J. Ðylan
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    Con sollievo di Eric la ragazzina non lo cacciò in malo modo, al contrario lo ringraziò del suo gesto, che alla fine aveva avuto successo: le serpi erano sparite. Questo però non significava che non ci avrebbero riprovato. Quando Eric riuscì finalmente a scorgere il viso della corvonero, e due immensi occhi verdi - ma arrossati - incontrarono i suoi, riconobbe una studentessa del suo anno. «Grazie..anche se la codarda sono io. Sei tu quello che li ha affrontati tutti.» disse lei, ma a lui non era sfuggito il suo tentativo di difendersi. «Non ho fatto niente di che.» si sminuì lui. In fondo c'era voluto poco: solo una facciata tosta per spezzare quei vitellini boriosi. Poi però l'inevitabile domanda arrivò: «Sei un Serpeverde anche tu, perchè l'hai fatto?» Era una curiosità giustificata. Perché l'aveva fatto? Non lo sapeva, ma era stato più forte di lui. «Non mi piace che si tratti male una femmina.» disse semplicemente. Utilizzava un linguaggio infantile talvolta, ma lo faceva senza rendersene conto. L'altra però non sembrava ancora del tutto tranquilla: non s'era avvicinata a lui, e sembrava fredda. Poi un'altra domanda ancora arrivò a confermare questa sensazione: «Perchè gli hai detto di essere un Mezzosangue? Quelli come noi li calpestano, ammesso che tu lo sia davvero.» Ammesso che tu lo sia davvero. Eric rimase un pochino basito da questo commento, ma visto le esperienze di lei poteva capire a cosa alludesse. «Che tu ci creda o no non mi interessa.» commentò monotono «E devono solo provarci con me. Non mi fanno paura. Sono stupidi è vero, ma non sono davvero cattivi... Almeno credo. E' solo il loro modo di sentirsi forti, quello di prendersela coi... diversi Non sapeva quale altra parola usare, ma non gli sembrava una parola brutta. «Scusami, sei stato così gentile a difendermi anche se è..strano. Piacevole, ma comunque strano!» Eric non riusciva a capire cosa ci stesse di strano. Gli sarebbe sembrato più strano stare a guardare senza fare niente, ma non lo disse. «Perché ti fanno questo? Non è la prima volta, vero?» fece queste domande, forse scomode, come se fosse la cosa più ovvia e facile da chiedere. Intanto, non sapendo bene che fare, pensò di sedersi lì dov'era, sull'erba piatta ora che in tanti ci erano passati sopra. Assunse un'espressione pensierosa, guardando il lago che luccicava come un gioiello, sotto il sole che lentamente s'abbasava. «Ci deve essere qualcosa in te che gli fa paura.» disse infine, ed era un'affermazione, non una domanda. Altrimenti non si sarebbero accaniti in questo modo contro di lei. Ma gli insegnanti non fanno niente per fermare queste cose? pensò tra sè, dispiaciuto dal senso di impotenza che la ragazzina doveva aver sperimentato. Se fosse stato lui professore, o anche solo un prefetto, non ci avrebbe pensato due volte a punire tutti quelli che s'approfittavano dei più deboli.

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    « E' solo il loro modo di sentirsi forti, quello di prendersela coi... diversi.»
    I diversi, già. Noi eravamo i diversi, quelli strani, quelli out, quelli senza amici, senza pace. Come se fossimo degli insetti da schiacciare sotto la suola delle scarpe, come se la nostra presenza impestasse l'aria di quel posto, delle piccole mosche fastidiose che ti svolazzano vicino le orecchie disturbandoti con quell'odioso ronzio. Niente, questo eravamo; nullità, sacchi di spazzatura da gettare in un angolo, non meritavamo attenzione, rispetto, non avevamo orgoglio nè dignità ai loro occhi.
    Ma perchè?
    Cosa avevamo mai fatto di così sbagliato per meritare quel trattamento? Vivevamo nel buio della nostra ombra senza dar fastidio a nessuno, non andavamo in giro a fare i bulletti, non ci sentivamo superiori, non ci facevamo notare; fantasmi invisibili di quel posto, eppure stavamo sotto i riflettori più di chiunque altro. La cosa ridicola era che, proprio chi non voleva che esistessimo, ci puntava costantemente una luce contro, svelando la nostra presenza a chiunque rendendoci attori protagonisti di quel palcoscenico di odio che era Hogwarts. Essere Mezzosangue in quel posto significava umiliazione costante e non c'era nessuno che avrebbe potuto porvi rimedio, nè i professori, nè il preside, nè i ragazzi come lui. Sembravano tutti sordi e ciechi, nessuno aveva il coraggio di alzare la testa e dare una lezione a quegli idioti. Perchè effettivamente si parlava di idioti senza un briciolo di cervello, infondo la magia non era un qualcosa di legato al sangue o al DNA, non si trasmetteva geneticamente, era qualcosa che avevi dentro. Era la tua fiamma più ardente, la scintilla più brillante, la forza più grande nascosta dentro al cuore e non c'era contaminazione di sangue che avrebbe potuto togliercela.
    Diversi, già..Come se questo ci rendesse meno degni di usare la magia, sussurrai abbassando il capo con una smorfia sul volto. Siamo solo spazzatura da buttare per loro.
    Il ragazzo si sedette poco più in là sotto un albero, così timidamente mi avvinai chiedendogli con un cenno del capo se mi sarei potuta unire a lui. Mi rannicchiai portando le ginocchia al petto, abbracciandomi le gambe con le braccia e lasciai che il mio sguardo vagasse su quel posto; era così bello quell'angolo del castello, una piccola oasi di pace in cui rifugiarsi in giorni come quelli. Ero solita andare lì quando volevo stare da sola a leccarmi le ferite, ma la presenza di quel ragazzo era quasi confortevole, mi faceva sentire meno sola e spaventata. Forse era solo il suo modo di fare o i suoi occhi grandi che guardavano il mondo come se niente potesse scalfirlo, a differenza dei miei così limpidi e spaventati da poterci leggere dentro tutta la paura e l'odio verso me stessa e quel posto che provavo.
    Aveva capito che non era la prima volta che avevo subito quegli "abusi" da parte dei Serpeverde e forse ne era già a conoscenza, infondo frequentavamo lo stesso anno e sicuramente dovevamo esserci incrociati a qualche lezione, anche se il suo volto mi era poco familiare; di solito, tendevo ad andare in giro a testa bassa, senza incrociare lo sguardo di nessuno, non parlavo con i miei compagni di casa nè con nessun altro, non avevo amici nè confidenti. Ero un essere tremendamente solitario, disdegnavo qualsiasi tipo di contatto umano con quella gente che affollava il castello, troppo spaventata che scoprissero chi fossi in realtà, eppure nemmeno quell'isolarmi era riuscita a proteggermi.
    Credo che abbiano paura di me perchè io..vedo. sibilai quasi sottovoce, digrignando i denti sull'ultima parola. Come se avessi chiesto io di nascere così! sbottai infine.
    C'era tanta rabbia dentro di me, sia verso me stessa che verso mio padre, come se la colpa di tutto quello che mi stava succedendo lì dentro derivasse da lui; ai miei occhi era lui che aveva iniziato quel circolo vizioso di odio e avversione verso qualsiasi cosa, era stata la sua paura la causa scatenante della mia, il suo disgusto l'origine del mio. Maledetto. Dio, lo odiavo quasi più dei Serpeverde!
    Comunque io sono Alyssa, tu? chiesi al mio "salvatore", non sapendo ancora che quello sarebbe stato solo l'inizio.
     
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    Eric J. Ðylan
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    «Diversi, già.. Come se questo ci rendesse meno degni di usare la magia.» Eric ascoltò le parole della ragazzina senza guardarla. Sembrava che soffrisse molto il fatto di venire giudicata per quello che era. Si chiese se lei si piacesse davvero. Quanto a lui, non apprezzava particolarmente né detestava ciò che era. D'altronde, nemmeno le opinioni degli altro lo scalfivano più di tanto... Non se lui era in pace con se stesso, perlomento. Probabilmente era proprio il suo modo di riuscire a farsi scivolare addosso le cose che non lo rendeva una potenziale vittima agli occhi degli altri, anche di qualche anno di più. Era diverso in qualche modo, è vero, però questo sembrava incidere beneficamente sui suoi rapporti sociali, non obbligandolo tuttavia ad omologarsi. Faceva come voleva, in poche parole, perché ne aveva la facoltà di scelta, e non perché vi era costretto: anche la solitudine era una condizione che si sceglieva, così come selezionava accuratamente le persone da avvicinare sul serio. «Siamo solo spazzatura da buttare per loro.» Eric azzardò uno sguardo in direzione della corvonero, che s'avvicinò d'un passo e si accoccolò sull'erba vicino a lui, abbracciandosi le ginocchia. Piangeva ancora? Eric non potè fare a meno di domandarselo. Non che gli desse fastidio, ma giusto per accertarsi della sua condizione. Al contrario di molti, non trovava sconveniente la fragilità emotiva delle ragazze. Lui pure aveva pianto in vita, e sicuramente lo avrebbe fatto molte altre volte. Certo, preferiva non mostrarlo mai agli altri il suo lato più vulnerabile, altrimenti le persone sbagliate ci avrebbero marciato sopra. Avrebbe voluto far capire all'altra questo concetto, ovvero il dover fingersi più forti di quello che si è per evitare rogne, ma non gli vennero fuori le parole per farlo con tatto. Poi, mentre la brezza serale iniziava appena a far stormire le fronde degli alberi e ad increspare la superficie del lago, quella gli rivelò improvvisamente qualcosa di molto importante, sicuramente importante. «Credo che abbiano paura di me perchè io.. vedo.» lo disse così, abbassando la voce, come se stesse pronunciando una parola proibita, forse sconcia. Eric non capii immediatamente il significato reale di quella affermazione, ma quando lei aggiunse, a tono molto più alto «Come se avessi chiesto io di nascere così!» allora riuscì ad avere una vaga comprensione di ciò a cui alludesse. Vedeva. Cioè, aveva delle visioni. E dunque era stramba, per forza, ecco il risultato dell'assioma. E anche lui iniziava a vederci più chiaro in tutta quella faccenda di bullismo. Gli sovvenne in modo vago qualche scena imbarazzante in cui lei era stata coinvolta, probabilmente perché bloccata o influenzata da quello che vedeva nella testa. Lui non sapeva molto di quel campo ancora: non avevano ancora iniziato a studiare divinazione, e tutto l'argomento suonava sempre molto lontano dalla sua realtà. Tuttavia non provò particolari sentimenti di spavento o ammirazione per la sua coetanea dai capelli rossi. Alla fine, dopo aver rielaborato l'informazione dentro il suo ancora troppo piccolo cervello, quello che gli venne da dire fu: «E tu?» e si voltò a guardarla come si guarda una persona vera, un suo pari, prima di continuare con la sua domanda: «Hai paura di te stessa?» Credeva già di sapere la risposta che l'altra gli avrebbe rifilato. Poi lei fece un passo verso di lui, consapevole o no che lo fosse, presentandosi: «Comunque io sono Alyssa, tu?» Finalmente - per la prima volta probabilmente in tutto il giorno - Eric sorrise. «E' un bel nome.» commentò prima di ricambiare l'informazione: «Io mi chiamo Eric.» Ancora non sapeva che più avanti quasi tutti lo avrebbero chiamato sempre Dylan, come già facevano i serpeverde, e che solo le persone ammesse alla sua sfera più privata avrebbero pronunciato il suo primo nome: Eric. «Mio nonno si chiamava così. Era francese, come anche mia nonna Colette. E' lei che è una Veela, vive a Parigi.» Si stupì quasi di se stesso quando quelle parole gli uscirono di bocca, come se parlare di sè fosse una cosa naturale - il che era più che raro - e soprattutto attesa. «Con mia madre parlo francese. Non lo senti neanche un po' il mio accento? Ancora non riesco a mascherarlo bene. All'inizio hanno provato a prendermi in giro per quello, ma sono durati poco.» lo rivelò così, con semplicità. Forse un modo per ricambiare la confidenza dell'altra ragazza, il suo rivelare un punto "debole". Che poi, debole non si poteva definire, a detta sua. Al contrario, trovava Alyssa interessante.

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