Chaos came

Helena

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    Interminabili settimane di silenzio quelle susseguitesi dopo l'ultimo tragico incontro con Helena. Dura accettare che dopo mesi di bugie e cattive azioni celate sia stata proprio la sincerità a giocargli quello scherzo da cui si sente irrimediabilmente sopraffatto. L'apatia derivata dal volontario allontanamento di lei dalla sua vita, di cui ormai conosce praticamente ogni dettaglio, è stata una conseguenza necessaria, ulteriormente patita nel ricordo di tutti gli avvertimenti di Hubert su cui ha incoscientemente scelto, ancora una volta, di marciare. Noncurante, menefreghista, imprudente. Pagarne le conseguenze, si dice sia la punizione che gli spetta. Ma si trattiene dal farne parola con chiunque, isolandosi di nuovo in disperati tentativi di studio e lavoro con cui occupa la maggior parte delle proprie giornate. Scarso l'entusiasmo, ma prepotente la necessità di provarci. Ricevere la risposta di Helena dopo il suo regalo ed il suo messaggio non l'ha aiutato a sentirsi meglio, deluso dinanzi a quella freddezza che si è lentamente insinuata nella sua mente per intensificare i timori già provati dopo averla vista andare via dal suo appartamento. Quando però, dopo un tempo tanto lungo da aver strappato via ogni briciolo di speranza dal suo corpo, una seconda missiva gli viene recapitata, uno strano sollievo gli monta dentro, infiltrandosi tra i sensi di colpa e la tristezza che hanno padroneggiato il suo animo senza concedergli tregua. Così, dopo aver mandato alla ragazza una risposta affermativa al suo invito tramite patronus, si è preparato per raggiungerla al Nord, sulle rive non più ghiacciate del lago ormai familiare nei pressi del centro di Bergenwiz, all'orario da lei designato. Non sa cosa aspettarsi da quell'incontro e l'invasività dei pensieri negativi che gli frullano per la mente non lo aiuta a prospettare alcun miglioramento in quella situazione di stallo. Benché Helena non sia mai stata particolarmente accurata nelle lettere recapitategli - non in quelle più serie, perlomeno - considerato il periodo che sta vivendo, non riesce ad evitare che l'inquietudine prenda il sopravvento. Si fa largo nella penombra serale delle stradine illuminate dai lampioni incantati, col passo svelto e deciso di chi ha una meta e vuole raggiungerla in fretta. Appena diverso l'ambiente che lo circonda, ma troppo frettoloso per soffermarvisi a sufficienza. In fondo non gli importa del luogo, vuole solo vedere lei. La intravede finalmente nelle vicinanze della riva e palesa la propria presenza con passi marcati, sì da non spaventarla piombandole improvvisamente alle spalle. Richiama la sua attenzione, poi, quasi sul punto di raggiungerla. 'Ehi!' Così si perde ad osservarla, col solo intento di assicurarsi lei sia intera, che stia bene almeno fisicamente, prima di capire se le sia successo qualcosa che sommi una nuova sofferenza a tutte quelle ingiustamente collezionate fino ad ora. La vede bella. Bellissima. E non si stupisce affatto di quanto effetto lei riesca ancora a fargli, nonostante le ferite che vederla scappare gli abbia provocato. Combattono con ferocia dentro di sé due parti: quella che ce l'ha a morte con lei per averlo abbandonato e quella che non può fare a meno di biasimarla e giustificarla. 'Stai bene?' Si limita a chiederle questo, rimanendole a qualche passo di distanza. Gli fa male, ma ne percepisce la necessaria costrizione.


     
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    Aveva scritto a Mason e se ne era pentita l'attimo dopo. Sapeva di essere inopportuna, di chiedere il suo aiuto in modo indegno dopo il modo in cui l'aveva trattato. Non era più riuscita a scrivergli, dopo il loro incontro. Aveva ignorato il suo biglietto, e si era sentita un mostro.
    Il punto era che stava ancora cercando di dare un'ordine alla realtà che Mason le aveva spiattellato dinanzi e non era semplice. La sua di realtà, per quanto complicata, non si era mai spinta così oltre, e cercare di accettare tutti i lati oscuri che Mason portava con sé, significava farli propri, accettare insomma, di essere in qualche modo complice di qualcosa di orribile. Non si sentiva pronta a quello. Eppure, avrebbe mentito se avesse detto di non sentire la sua mancanza. Ne soffriva terribilmente, così tanto da non riuscire a provare piacere per nulla. Non c'erano belle notizie se non poteva condividerle con lui, e quelle brutte lo sembravano ancora di più senza il suo aiuto.
    Avrebbe atteso ancora, sperando di capire nel breve tempo quale fosse il modo migliore di comportarsi, se il peggio non fosse tornato a bussare alla sua porta. Sembrava avere un'affinità particolare con la Haugen nell'ultimo periodo.
    Erano cominciate come lettere sporadiche. Anonime missive che recavano insulti brevi. Li aveva catalogati come errori, perchè sì, magari non erano diretti a lei. Poi però la frequenza era aumentata. Si era ritrovava sommersa di lettere senza nome, pregne di insulti, cattiverie e minacce. L'accusavano di aver mentito, la additavano con epiteti orribili, ed era tornata a farsi pressante la paura di un pericolo. Il mostro non era più soltanto Lorence. Era quel mondo che era riuscito a convincere, con le sue bugie, a stare dalla sua parte. Era sola.
    Così aveva scritto a Mason, attendendolo all'ora prestabilita, sulle sponde del lago dove lo aveva portato a pattinare. La superficie dell'acqua leggermente increspata dalla brezza fresca che c'era, non riusciva a rilassare i suoi nervi, e tesa e raggomitolata, Helena se ne restava lì, con le gambe tirate al petto.
    Voltò il capo di scatto quando sentì dei rumori, tirandosi in piedi velocemente. Il cuore prese a batterle con intensità, non calmandosi affatto quando intercettò Mason.
    E quando lui si avvicinò, si sentì una stupida per non riuscire ad evitare di arretrare.
    Non era di lui che aveva paura, ma del mondo intero.
    Tirò su col naso, portando una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Sì. Sì. Sto bene.» Gli rispose, prima di abbassare il capo. Mentiva, ma non le veniva più bene farlo. La sua espressione non era distesa, ed anzi gli occhi stanchi, la posa stretta come a voler ripararsi da nemici invisibili, parlavano chiaro del modo in cui si sentiva.
    «Cioè... No. Non proprio .» Scosse il capo, aggiungendo quella verità con un fil di voce.
    Sospirò, portando una mano a coprirsi gli occhi per qualche attimo. Poi portò indietro la mano, passandola tra i capelli, provando a darsi una calmata. «Gli occhiali erano davvero belli. Non eri obbligato.» E lo erano. Lo era stata anche la sua frase, quella a cui Helena non aveva avuto il coraggio di rispondere. Eppure, da ipocrita, gli aveva riscritto ora che aveva bisogno di lui.
    Chinò il capo, asciugando una lacrima mentre provava a calmarsi. La gamba si muoveva, battendo il piede contro il terreno umido, come a voler scaricare la tensione provata.
    Sperò che la fioca luce presente, potesse coprire quella sua debolezza. Non voleva gravare anche di più sull'altro.
    Tirò su col naso, scuotendo il capo mentre afferrava dallo zaino un malloppo di lettera che a stento riusciva a tenere in una mano. Gliele porse. «Io lo so che sono l'ultima persona che vorresti vedere adesso dopo il modo in cui me ne sono andata... e mi dispiace, davvero, ma... io... io non sapevo con chi altro parlarne.»

     
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    Vederla indietreggiare è avvilente. Sente tutta la fiducia riposta in lei sgretolarsi sotto il peso di quel passo indietro che compie. Leggero, appena percettibile, ma talmente incisivo da sembrare issare un polverone di angoscia che Mason non può ignorare. Non ci riesce. Resta quindi a distanza, più di quanto non si fosse già prefissato, imponendo tra loro un invisibile confine invalicabile. Chissà se lei è in grado di leggere la devastazione disegnata nei contorni delle sue iridi scure, adombrate di sentimenti che nessuno gli ha mai fatto provare prima. Con Helena funziona così, in positivo tanto quanto in negativo. In attenti, dinanzi alla sua risposta, ricerca nelle curve del suo viso una veridicità che non vi ritrova e che lei stessa, dopo qualche secondo, si ritrova a smentire in preda all'angoscia che comincia a salire su per i suoi occhi umidi. E' chiaro che stia male e vederla così peggiora ulteriormente lo stato d'animo del Chesterfield. Attende chiarimenti che tardano ad arrivare, dietro tentennamenti e giri di parole che portano a galla particolari piacevoli che, in quel contesto, hanno comunque un sapore tremendo, amaro come il peggiore dei veleni. Non fanno altro che ingerirne, mandando giù bocconi di distruzione che si rifilano a vicenda o, ancora peggio, da sé. 'Non mi sono sentito obbligato.' Chiarisce quel punto con la stessa apatia che ha riservato a chiunque negli ultimi giorni. Sperava di sentirsi meglio nel vederla, sorpreso che si fosse finalmente decisa a cercarlo, ma ogni prospettiva vagamente speranzosa è crollata nel momento in cui non ha ritrovato la stessa dose di sollievo nello sguardo dell'altra, nell'incontrarlo. Allunga un braccio verso quello che sembra un cumulo di lettere che lei ha scelto di porgergli. Stringe le dita attorno a quegli spigolosi messaggi, che nascondono in sé, a quanto pare, molte più insidie. Fa luce con la bacchetta per scorgerne meglio il contenuto e comincia a montargli una rabbia indescrivibile al passo con le parole su cui i suoi occhi scorrono imperterriti. Ogni lettera in più è un grammo di nervosismo che gli stringe il cuore. Ne sente il battito accelerarsi, andare all'impazzata mentre la mascella si serra e i polpastrelli si piantano con prepotenza sui margini di quelle cartacee porcherie. Costretto a darsi un contegno, esalato un respiro lungo ed assai profondo, abbassa i fogli, ancora stretti in una mano. Gli occhi vanno di nuovo a puntarsi contro quelli lucidi di Helena. 'Hai idea di chi le abbia potute scrivere?' Probabilmente una domanda superflua, che non può fare a meno di rivolgerle. Non vuole che lei si ritrovi per l'ennesima volta a sopportare i pesi della cattiveria altrui, costringendosi a darsi colpe per un motivo o per un altro quando non è lei ad aver peccato. E' il mondo che è bastardo e gli esseri che ne fanno parte sono anche più atroci. Pensare di farne parte, peggiora ancora di più quella prospettiva. Perché chiedergli aiuto se la sua opinione sembra ormai essersi adattata a quelle realtà svelate? Ci sono così tanti mostri in questo universo e l'idea che la ragazza possa vederlo come uno di essi lo distrugge. 'Dovresti portarle agli auror. Sono delle cazzo di molestie, non lasciare che ti faccia anche questo.' Ed è chiaro si riferisca al Volhard, perché per quante persone possano esserci dietro quelle minacce e quegli insulti indecenti, tutto è partito da un fulcro ben preciso. E quel fulcro, che Mason non è mai riuscito a spezzare come avrebbe voluto, come avrebbe dovuto, è Lorence.


     
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    Non l'aiutó notare il suo atteggiamento apparentemente così distaccato. Si sentì a disagio, sbagliata, come in genere la faceva sentire tutta quella storia.
    «Tutto il mondo?» Rispose con un pizzico d'ironia amara alle sue parole. Non aveva idea di chi fosse stato. Era chiaro non fosse la mano di una sola persona. C'erano molte grafie lì dentro, ed ognuno aveva impresso su quelle pagine, cattiverie diverse. Non erano solo insulti. Era ingiurie, accuse, auguri di atti spietati che la nauseavano. Ed aveva paura, proprio di quelli. Si sentiva come braccata, in trappola, circondata da predatori che non riusciva a vedere. Le sarebbe bastato fare un passo falso per tornare a soffrire ancora, o forse in modo peggiore.
    Storse il muso facendo spallucce alle sue parole.
    Consegnare ogni cosa agli auror sarebbe stata di sicuro la scelta giusta, l'unica da prendere eppure la sola idea di tornare ad esporsi, a lasciare che altri la giudicassero come se fosse stata sua la colpa di tutto quello, la straziava.
    «Non...» Strinse i denti sul labbro inferiore, nel tentativo di stemperare l'angoscia provata. Non servì a nulla se non a farsi male.
    Tiró su le spalle, piegando appena il capo.
    «Sono stanca.» Era quella la verità. Era davvero distrutta. Esasperata.
    Ci aveva provato ad andare avanti, ma ad ogni passo avanti compiuto le sembrava le spettasse patire un disastro, il successivo sempre più grande ed atroce del precedente.
    Sospirò, tornando a sedersi con le spalle chine.
    «Il mondo ultimamente non smette un attimo di fare schifo.» Ed era vero. Non era soltanto il brutale atto di Lorence ad averla turbata. C'erano le recenti rivelazioni di Mason, che la mandavano in confusione. Sentiva inoltre di averlo ferito, lo percepiva anche ora e non aveva la minima idea di come risollevarlo. Di come risollevare entrambi. Se solo avessero potuto annullare le distanze tra loro.
    «E magari, sai, penso che se chi mi ha causato tutto questo smettesse di esistere... Sì beh, forse ogni cosa brutta cosa che mi è successa sparirebbe con lui .» Lo disse a capo chino, mentre strappava dei fili d'erba rigirandoseli tra le dita.
    Ci aveva pensato sul serio, troppe volte. Ed averlo fatto non la faceva sentire meglio. Immaginare la morte di qualcuno così tante volte ed in modo costantemente atroce, l'aveva fatta sentire così simile a lui, ed era orribile.
    Forse era quello il prezzo peggiore da pagare, oltre quello di sentirsi sempre sola. Sempre in pericolo.
    «E poi mi sento un mostro per averlo pensato.» Passò una mano sul volto, prendendosi del tempo.
    Non aveva fatto venire Mason fin lì per lagnarsi. Non meritava di subire anche quello da lei.
    Avrebbe sul serio voluto fare qualcosa, dirgli qualcosa, per lenire il dolore di entrambi ma non ci riusciva. Non poteva farlo fino a quando non sarebbe stata sicura di una cosa.
    «L'hai mai fatto?» Perché era atroce quel che faceva Mason, insopportabile ed inaccettabile, ma Helena era convinto non dipendesse da lui. La leggeva nei suoi occhi la costante paura della delusione. La morte però, beh, quella nessuno gliel'avrebbe imposta. Quella sarebbe stata una sua scelta. O almeno era quello che credeva una ragazza di sedici anni. «Hai mai ucciso qualcuno?»
     
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    Mantenere la calma diventa la sfida più tosta mai affrontata in tutta la sua esistenza. Ha sempre dovuto fare i conti con persone che hanno ferito la ragazza senza poter reagire in alcun modo, per volontà sua come per la necessità di tenersi fuori dai riflettori della legalità. Sentirsi limitato, adesso, anche solo nell'indurire la propria espressione, nel lasciarsi sfuggire qualche imprecazione dalle labbra o uno scatto violento della mano per sfogare il tumulto rabbioso provato dentro, rende tutto ancora più soffocante. E' la prima vera volta che si sente estremamente oppresso ed in errore persino con lei ed è una sensazione orribile, annichilente. Siede sull'erba, volgendo lo sguardo verso la superficie lucida del lago, buio, oscuro, con appena qualche riflesso lunare a schiarirne le increspature. Vorrebbe che la quiete di quel luogo isolato dal centro urbano lo raggiungesse e distendesse i suoi nervi, ma sembra non ci sia niente in grado di farlo da un pò di tempo a questa parte. Neanche l'unica cosa che vi riusciva e che adesso invece siede al suo fianco, a diversi centimetri di distanza, con l'animo frantumato e la voglia di tenersi alla larga. Così sembra. Il suo atteggiamento remissivo, poi, è anche più duro da sopportare. Vorrebbe prenderla per le spalle, costringerla a guardarlo dritto negli occhi e convincerla a combattere per se stessa e per la pace che le è stata immeritatamente sottratta. Si limita invece a sedere sull'erba, le gambe piegate dinanzi a sé, le braccia blandamente poggiate sulle ginocchia. Le mani si torturano tra loro, il tintinnio degli anelli si unisce ogni tanto al leggero scrosciare delle acque del lago. 'Fa schifo anche a me.' Si lascia sfuggire spontaneamente, rimuginando sulle sensazioni provate in sua assenza come anche in sua presenza, adesso. Per anni ha creduto di non avere alcun appiglio ad una realtà meno pesante di quella vissuta; poi è arrivata lei, cambiando le carte in tavola e convincendolo, mano a mano, di poter meritare quel "meglio" che ha sempre visto come un'utopia. Infine, gli è toccato tornare coi piedi a terra, farlo con un capitombolo che l'ha costretto a cadere, facendogli estremamente male. Fa decisamente schifo. 'Tutti almeno una volta nella vita hanno pensato una cosa del genere. Questo non ti rende un mostro.' Una pausa di qualche secondo, mentre avanza una seconda realtà, meno spaventosa, ma più dura da digerire. 'In ogni caso, non servirebbe a niente. Il dolore non sparisce così.' Le cose brutte trovano sempre il modo di insidiarsi nelle persone e tormentarle probabilmente a vita, anche quando ci si convince di averle dimenticate. Si possono sconfiggere, superare, accantonare, ma la sofferenza che ne deriva avrà sempre influenza nelle loro azioni e nei loro pensieri. Ha cominciato a crederlo da quando ha imparato a convivere col suo, di trauma; è andato avanti, ma mentirebbe se dicesse di non ripensare o rivedere nella propria mente quello scenario sanguinoso di cui è stato spettatore a sei anni. Nel momento in cui l'attenzione di Helena si sposta su prospetti simili, non può fare a meno di sentirsi anche più deluso. I suoi dubbi sembrano trovare conferma nelle domande dell'altra: ha paura di lui, di ciò che ha fatto e di ciò che potrebbe fare. E' la sensazione peggiore mai provata in vita sua. 'No.' Secco, non riesce a guardarla. Non sa neanche se ci riuscirà, da qui al termine della serata. 'E non mi alletta l'idea di farlo, se non fossi stato abbastanza chiaro.' Una considerazione avanzata in prospettive future che spera non arrivino mai a compimento. Solo perché fino ad ora se l'è cavata con incarichi cruenti ma mai definitivi, non significa che ne sarà salvo per sempre. Questo, però, è un dettaglio che tralascia. Peggiorerebbe soltanto le cose. 'Ti ho raccontato ogni cosa, non c'è altro da sapere. Hai già potuto trarre le tue conclusioni.' Chiaro il riferimento alla sua fuga, ai suoi silenzi ed al modo in cui è indietreggiata. Non è difficile immaginare le congetture formulatesi nella sua mente, se anche fossero frutto della delusione e non della realtà dei fatti. Non può fare a meno di soffrirne. 'Anche se non capisco, esattamente, cosa ti aspettassi da un ragazzo che ti ha rapita e minacciata dopo averlo beccato a massacrare di botte un tizio in un vicolo.' Crudo nell'uso dei termini, appare arreso. Mascherare la sua realtà con parole che non la inducano a rabbrividire o spaventarsi non sembra avere più alcun senso ormai. Preservarla, non ha senso: sembra essersene tirata fuori già da sola.


     
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    Annuì alle sue parole. Cominciava a credere che quel dolore non sarebbe mai scomparso. Avrebbe sempre fatto parte di sé ed avrebbe condizionato per intero tutta la sua esistenza, o almeno avrebbe condizionato la sua vita fintanto che ne avrebbe avuta una da vivere. Quel che disse, il modo in cui lo disse, non la calmarono. Percepire la sua apatia, in qualche modo le fece male.
    «Le conclusioni che traggo mi confondono.» Gli disse, prima di cogliere quella che fu una vera e propria stoccata. Non potette trattenere uno sbuffo amaro alle sue parole. «Già. Che stupida ad aver pensato fossi diverso, eh?» Scosse il capo, tirando lo sguardo verso l'alto. E forse stupida lo era stata sul serio. Insomma, sapeva fin dall'inizio qual'era la doppia vita di Mason, o comunque poteva immaginarne la categoria. Eppure, si era avvicinata a lui, gli aveva dato tutto quello che poteva dargli ed ora allontanarsi le sembrava impossibile.
    Chiaramente era lo stesso anche per l'altro.
    Sbuffò, portando le mani a coprirsi gli occhi. Sarebbe stato bello, chiuderli, riaprirli e trovarsi in un modo tutto nuovo. Uno in cui Lorence non esisteva, e Mason era privo di quel carico malevolo che rovinava la sua esistenza. La realtà era però quella, e dovevano fare i conti con lo schifo che si ritrovavano a vivere.
    Aveva rimuginato tantissimo sul suo racconto e su quello che avrebbe significato per loro. Aveva pensato di poter persino fingere di non sapere nulla, ma come poteva?
    E lo sapeva che tutto quello non faceva soffrire soltanto lei. Lo vedeva il modo in cui a volte Mason sembrava allo stremo della propria sopportazione. Lo aveva visto esplodere e sapeva che sarebbe andata sempre peggio. Col tempo, la furia che buttava fuori quando si sentiva stanco di sopportare una realtà imposta che non gli piaceva, avrebbe colpito anche le persone che provava a proteggere. Helena ci era passata, sebbene in modi meno drastici, e sapeva quanto potesse fare male. Avrebbe soltanto voluto evitargli tutto quello, ma non sapeva come fare. «Senti... io ti capisco. E' che...» Chinò il capo, mordendosi il labbro inferiore, mentre grattava distrattamente la fronte.
    «Io lo so com'è avere paura ad uscire di casa. O a restare da soli nella propria stanza quando si sente un rumore. O anche a stare tra la gente. Lo so com'è che ci si sente quando ti tolgono con la violenza la consapevolezza di essere al sicuro. E lo sai anche tu, no?» Gli lanciò uno sguardo prima di tornare a fissare il lago dinanzi a sé. Doveva saperlo. Avevano condiviso quelle paure negli ultimi tempi. Aveva dato a Mason ampia visibilità sulla propria emotività. Aveva conosciuto ogni aspetto della sua sofferenza dopo quel che le era capitato. Ed era quello a mandarla ai matti.
    Come poteva essere così ipocrita?
    Come poteva continuare con quel tipo di vita, sapendo quando dolore potesse provocare? Aveva sofferto con lei, ed ora era pronto a saltare dall'altro lato della barricata per infliggere ad altri la stessa sofferenza? «Ma tu vendi esattamente questo. Spacci quel che mi ha fatto ammalare e privi gli altri con la forza della loro sicurezza.» Non riusciva ad accettarlo. Le si stringeva lo stomaco a quel pensiero.
    «Ed è orribile perchè tu non sei come lui. Eppure ti comporti esattamente allo stesso modo.» E la sua voce si incrinò a quel punto. Strinse la base del naso con due dita mentre serrava le palpebre, come a voler trattenere le lacrime.
    Aveva persino provato a pensare che di sicuro le persone con cui trattava, un po' dovevano meritarselo, che di sicuro non potevano essere brave persone se compravano oggetti oscuri, ma non era riuscita a calmarsi.
    Sospirò abbracciando le gambe con le braccia, ed appiattendosi su di quelle. Era così stanca. Avrebbe soltanto voluto lasciarsi andare. Lasciare che lui si occupasse di lei come era riuscito a fare fino a quel punto, ma si sentiva bloccata. «Quello che hai scritto sul biglietto... Mason, per me è lo stesso. Sei l'unica persona con cui sto bene. L'unica con cui mi sento di nuovo al sicuro. Ma...» Deglutì, tenendo lo sguardo basso. Provava a nascondere le lacrime. Odiava quel tipo di emotività. Odiava sentirsi così debole. «Non credo di poter accettare questo lato di te. E fa schifo! Fa schifo perchè vorrei solo mi abbracciassi ora.»
     
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    Diverso. Aveva cominciato davvero a sentirsi diverso, proprio perché lei, che lo guardava con quegli occhi innocenti, lo dipingeva sotto forme nuove e colori migliori rispetto a quelli assegnatigli dalla vita. La consapevolezza di essere comunque relegato a quel mondo così sbagliato sembra essere piombata addosso ad entrambi, costringendoli a quella distanza forzata che si riflette anche nel loro incontro. Non riesce ancora a guardarla. Fermo, si lascia colpire dalla brezza che gli rinfresca il viso e dalle parole che gli sfiorano le orecchie. Nessun sollievo, nessun vago sentore di miglioramento. Resta vittima di quelle realtà che comprende fin troppo bene e se ne sente annientato. La consapevolezza che lei meritasse meglio di un delinquente, della pessima persona che è e che è destinato a rimanere, sbuca nuovamente fuori dagli angoli cui era stata relegata, contribuendo ad alimentare il suo senso di colpa ed a farlo sentire insignificante. Sente di star perdendo tutto e l'unico errore che l'ha portato a questo punto è... essere se stesso. 'Avevo provato ad avvertirti ed è stato del tutto inutile.' Tira su col naso, annaspando alla ricerca del fiato che sente mancargli. A stento riesce a rivolgerle la parola, oppresso in pieno petto come da un metaforico macigno di accuse e costrizioni anche più prepotenti di quelle che gli sono toccate per tutta la vita. Un duro colpo essere paragonato al mostro che le ha causato tutto quel dolore, eppure come potrebbe darle torto? Come potrebbe differenziarsi da chi ha fatto su di lei ciò che lui fa su altra gente, in modo più o meno diretto? Tutti gli innocenti che ci hanno rimesso per errori dei genitori, di fratelli, di parenti di ogni tipo... Loro sono proprio come lei. E se ne rende conto da sempre, ma sentirlo dire da Helena fa inevitabilmente molto più male. E' distruttivo. Una catastrofe emotiva che incrina il tono della sua voce, mentre raccoglie il coraggio di esporsi probabilmente per un'ultima volta. 'Mi hai spinto tu a parlare, mi ci sono sentito praticamente costretto... E che cosa ci ho ottenuto, ad essere sincero?' Nessun sorriso rassegnato, per il momento, a distendere le sue labbra. Né il minimo sguardo volto a lei. Solo una lacerante verità che non può fare a meno di condividerle. 'Eri la mia unica scappatoia da tutto quello.' Quell'"eri", così difficile da pronunciare, è devastante. Una pugnalata in pieno petto che si è inferto da solo. 'A casa sono costretto ad occuparmi degli affari ed in Accademia mi tocca studiare per servire lo stesso scopo. Non ho una fottuta via d'uscita e forse non l'avrò mai. Non te ne rendi conto.' E' così che quel fiume di parole comincia a farsi largo oltre limiti che non ha mai superato. Sfogarsi con la violenza, con modi rudi, crudi, noncuranti, distaccati ed impersonali, freddi, vuoti, non gli servirà adesso. Dimostrarle ancora una volta il proprio peggio, non riconfermerà che quell'impossibilità di staccarsi da certi canoni. E nonostante sia consapevole di non poterne fare a meno, un ultimo scorcio di sincerità è l'unica cosa che sente le sia dovuta, prima dell'eventuale cambiamento delle cose, della distruzione di quello sbagliato loro che gli è sfuggito dal controllo. 'Non posso cambiarlo. Oppure posso ma non ne ho il coraggio... Comunque la metti, non vedo una soluzione. E la parte peggiore di tutto questo è che hai... Cazzo, hai dannatamente ragione, perché mi fa schifo questo mondo, ok? Mi fa schifo tutto di quella roba e mi faccio schifo io stesso, che la traffico, che sono un mezzo di distruzione, ma è l'unica alternativa che la vita mi ha dato e non posso tirarmi indietro, anche se sono fottutamente infelice ogni giorno della mia esistenza.' Rabbia. Frustrazione. Il suo tono di voce è contrariato, il suo sguardo assente, le sue dita intrecciate spasmodicamente tra loro. E' sul punto di crollare e non riesce a far altro che arrendervisi. 'Abbracciarti? Cristo. Mi hai visto e hai indietreggiato! Ti fa paura persino incontrarmi, nonostante mi abbia cercato tu.' Solo adesso un sorriso lieve, amareggiato, finto si posa sulle sue labbra. 'Non è del mio abbraccio che hai bisogno. Tu vuoi l'abbraccio di quel Mason che ti ho lasciato conoscere fino a qualche settimana fa...' L'emotività da cui si sente investito ha raggiunto livelli mai toccati prima. Lo strano pizzicore avvertito agli occhi, ben mascherato dalla durezza del suo volto e dall'ombra in cui sono immersi, è anomalo. Sospira la propria rassegnazione, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. 'Ma quello non sono io. Non potrò mai esserlo.' Una convinzione cucitagli addosso da cui non trova via di scampo, in alcun modo. Mai. 'E se non riesci ad accettare quello che sono, anche se lo capisco... allora dovrò fare a meno di te.' Non se ne sente per niente felice.


     
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    Scorse il suo sguardo lucido alla luce della luna, e ne fu colpito. Sentì una forte stretta allo stomaco e l'irrefrenabile istinto di abbracciarlo. Non lo fece. Serrò le palpebre mordendosi la guancia dall'interno, mentre conficcava le unghie nella pelle del braccio, come a volersi controllare. Servì solo in parte.
    «Solo perchè ti hanno fatto credere che debba essere così, non vuol dire che deve essere così.» Ci provò ad aprirgli gli occhi, a dargli un punto di vista differente da quello che gli avevano sempre obbligato ad avere, ma dubitava avrebbe funzionato.
    Sebbene Mason fosse conscio della putrefazione dell'ambiente in cui era immerso, era ancora colmo di una riverenza troppo simile all'idolatria. Riuscire a fargli cambiare idea, Helena immaginava sarebbe stato impossibile. Ne ebbe la conferma poco dopo.
    Le sue parole furono una sorta di pugnalata. Sentirsi dire, senza mezzi termini, che o accettava tutto quello o non c'era futuro per loro, la spiazzó, tanto che per qualche attimo non riuscì a dir nulla.
    Poi, qualche istante dopo, come punta improvvisamente da qualcosa, si tirò in piedi, guardandolo dall'alto con un'espressione scioccata.
    «Quindi? Che cazzo stai dicendo? Che o mi adeguo a questa merda o posso andarmene? E a te va bene?» Non riusciva a crederci. Non voleva farlo.
    Non avrebbe immaginato di poter arrivare a quel punto, e se gli aveva chiesto di raggiungerla non era perché voleva porre una fine al loro rapporto, era anzi il contrario. Ora però si rendeva palese l'impossibilità o la non volontà di venirsi incontro. Erano ai poli opposti, gridando ognuno le proprie ragioni senza ascoltare quello dell'altro.
    «Che razza di stronzo. Non sei giusto.» Lo odió. Lo odió come non aveva mai fatto. Avrebbe voluto urlargli contro ed invece tutto quel che riuscì fare fu piangere. Lacrime mute le inondarono gli occhi prima di precipitare giù dalle sue guance e lo odió anche per quello.
    Come aveva potuto lasciare che qualcuno entrasse così in profondità nel suo cuore e che gli spezzasse in modo così brutale?
    Provò a darsi un contegno, asciugandosi le lacrime velocemente.
    Si sentiva rifiutata, ancora una volta. Sembrava essere quello il suo destino. Ed era assurdo, orribile, che per una volta che aveva finalmente trovato qualcuno in grado di capirla, apprezzarla, non poteva goderselo.
    «Sai cosa non riesci a capire? È che non si tratta più solo di te!» Riuscì a replicare dopo poco, il tono incrinato e furioso al tempo stesso. E mantenere la calma, rientrare nei limiti a quel punto sarebbe stato impossibile.
    «Mi hai trascinato nel tuo vortice di negatività. Mi è successo tutto questo perché c'eri tu nella mia fottuta vita.» Era un fiume in piena. Incontrollabile. Ed in quella condizione sapeva che avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa.
    «E ora mi lasci sola perché non hai le palle di affrontare tuo padre? Fanculo.» Avrebbe voluto spingerlo. Avrebbe voluto colpirlo. Non lo fece. Gli era vicino però, a mostrargli tutta la propria agitazione.
    «Avrai mai il coraggio di vivere, Mason? Hai mai avuto coraggio nella tua vita?» Piegò il capo guardandolo ancora adirata. Furiosa. Distrutta.
    Il volto rosso ancora rigato dalle macchie scure di mascara, ben chiarivano la sua condizione psicologica.
    «Se le cose vanno male, tu non le affronti. Vai a nasconderti sotto il letto come il codardo che sei.» Se fosse stata in sé avrebbe pensato le parole da dire, ma in quel contesto non le sarebbe riuscito farlo. Quando era ferita, l'unico modo che aveva per reagire, era provare a ferire l'altro in modo peggiore. Ed in quel momento era esattamente quello io suo obiettivo.
    «E sai che c'è? Puoi andare a farti fottere. Tu. I tuoi occhiali e le tue ridicole poesie. Non te ne frega un cazzo di me, di noi. A te importa solo di te stesso.»
     
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    E' difficile valutare un punto di vista differente dal suo. Troppo convinto lei non possa capire, continua a mantenere saldamente la presa sulle proprie convinzioni, a rimanere chiuso in quella scatola troppo stretta, sigillata, in cui è stato intrappolato per tutta la vita. Non può neanche costringere lei ad entrarvi con lui; prima o poi esploderebbe. Lo stanno già facendo, mentre la delusione di quella scelta imposta dal Chesterfield accende la miccia del nervosismo della ragazza. Plausibile, più che comprensibile, ma non è mai piacevole stare a vedere l'effetto di quegli scoppi. 'Ti sembra mi vada bene?' Pronuncia quelle parole ancora seduto sull'erba, apatico esattamente come pochi istanti prima. Immagina di star alimentando ulteriormente l'astio dell'altra e non gli importa. O forse gli importa, ma è così recluso nella propria assurda rassegnazione da non trovare più alcun pretesto o una motivazione per ribellarsi, per combattere per lei nel modo in cui Helena vorrebbe. Meriterebbe. E' la paura del cambiamento. La paura di una scelta che non ha voglia di fare, nonostante sembri averne appena selezionata una. Ha scelto il dolore ed ha abbandonato la propria felicità. Facendolo, ha escluso anche a lei la possibilità di stare meglio e questo non fa altro che aggiungere l'ennesimo pezzo mancante al puzzle di distruzione che ha messo su nel corso del tempo. 'Non sono giusto? Sei stata tu la prima ad andartene, perché adesso dovrei essere io ad adeguarmi?' Continuano a lanciarsi accuse futili, cui neanche credono sul serio. Sono le loro parti feroci che si scontrano senza lasciargli scampo. Le loro essenze più profonde che vengono fuori per proteggerli, per piantarsi sulla loro pelle come una corazza che li tenga al sicuro. Peccato che non ci sia protezione che tenga ai dolori dell'anima. Si tira in piedi, sotto la sua scarica di parole, e punta finalmente lo sguardo verso quello di lei. I loro occhi gridano dolore e desiderio di comprensione, ma le loro bocche non possono fare a meno di ferire, di azzannarsi a vicenda. Si contiene per un pò, rimuginando su tutto il veleno che lei gli getta contro, soccombendovi automaticamente perché consapevole quelle dannate parole siano vere. Più volte si è ritrovato a pensare che senza di lui, la sua vita sarebbe stata migliore. Più volte le ha confessato di sentirsi la parte peggiore della sua esistenza e lei ha provato a smentirlo, finché ha potuto. Finché ha voluto. Ora, per l'ennesima volta, ognuno di quegli elementi si rimescola, come carte devastate di un mazzo di incomprensione. Stracciano con le loro stesse mani la fiducia arduamente conquistata. In particolar modo, è lei a farlo, tirando fuori la confidenza più dolorosa che Mason le abbia mai concesso. In quel preciso istante, gli sembra di avere dinanzi a sé una totale estranea. 'Sotto il letto?' Ribadisce incredulo, con un tono di voce che ricerca veridicità nell'altra, sperando di non trovarne, di aver carpito male quell'elemento così devastante. Ed invece è successo davvero. Quelle parole pronunciate, taglienti come la più acuminata delle lame, avvelenate come il peggiore distillato mortale, sono realtà. Neanche realizzare che lei abbia ricollegato a lui i suoi gufi anonimi riesce a calmarlo. Il suo volto si trasforma, diventando probabilmente il più duro, brutale, spaventoso che a lei sia toccato vedere. Anche più della furia dimostrata contro Lorence. Anche più del momento in cui ha sfasciato tutto al capanno nordico. 'Non farmi la predica, bambina.' Si avvicina a lei con minacciosa calma. Un sorriso inquietante dipinto sul volto. Pura cattiveria incisa nelle sue iridi. Quasi prepotentemente azzerate le distanze, solleva con lentezza una mano, avvicinandola al suo viso. Vi posa una carezza che non ha per niente le sembianze di quelle dedicatele sino ad ora. Sa di molesto. Sa di sporco, così come lui è. Così come lei vuole che sia. 'Sei tu quella che non fa altro che scappare.' Il tono di voce calmo, piatto, fa da preludio ad una bomba pronta ad esplodere. Una da cui l'ha protetta sino ad ora, ma che ora non ha più senso di rimanere spenta. La miccia è partita. Il caos è ormai diffuso tra loro. 'E che ci ha messo più di un mese per denunciare di essere stata stuprata.' Rimarca quella parola con cattiveria. Lei non è mai riuscita ad usarla in sua presenza e lui ha fatto in modo di evitarla. E' stato prima, quando credeva di essere in grado di proteggerla, di poterle offrire qualcosa di buono. Ma adesso che Helena non crede più in lui, che senso ha perseguire in quel percorso? Vanificare tutti gli sforzi è l'unica soluzione tempestiva a cui dare credito. Così, mostrandole ancora quell'imperterrito sorriso che le è sempre stato sconosciuto sino ad ora, rigira una ciocca dei suoi capelli tra le dita. Poi, viscido, lascia scorrere la mano sul suo collo, sulla sua spalla e giù per il suo braccio. Non l'ha mai trattata così, neanche agli albori della loro assurda e complessa relazione. Date le parole ricevute, però, si sente ormai un estraneo per lei ed è per questo che si comporta come tale. Si protegge così, ferendo lei, inconsapevole di star ferendo se stesso più di quanto sia disposto ad ammettere. Solo adesso indietreggia di parecchio e lascia scemare quel sorriso maligno, per far posto ad un'espressione dura che ben comunichi il suo malessere, il suo disprezzo. Non sa dirsi se per lei o per se stesso. Non ha più importanza, adesso che è tutto finito. 'Vai tu a farti fottere. Se ci riesci.' L'ultima atrocità, prima di sparire da quel posto. Dalla sua vita.


     
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    La rabbia era il più grande nemico dell'essere umano. Rischiava di rovinare ogni rapporto. Spingeva a dire cose orribili ed il più delle volte tirava fuori dal subconscio frasi che non si sarebbero mai volute dire. Helena si rese conto di aver detto qualcosa di estremamente sbagliato soltanto un attimo dopo averlo fatto. E si sentì male. Si sentì orrenda. Avrebbe voluto scusarsi, tornare indietro e cancellare quel momento, ma già leggeva l'effetto sul volto di Mason.
    «I-io volevo dire...» Non riuscì a completare la frase nel vederlo avvicinarsi. E non c'era niente di pacato nei suoi gesti, nonostante l'apparenza, tanto che indietreggiò passo dopo passo, incespicando persino.
    Lo fece fin quando allontanarsi fu impossibile.
    E non sembravano più nemmeno loro.
    Non c'erano più quei ragazzi che aveva giocato a tormentarsi per poi darsi la mano. Non erano più Mason ed Helena, ma solo un predatore con la sua preda.
    La Haugen si aggrappava alla consapevolezza che lui non avrebbe mai potuto farle niente ma cominciava comunque a dubitarne. Non poteva fingere di non avere paura perchè ne aveva e i suoi gesti, il suo sorriso freddo e tagliente che ben si adattavano a quell'ambiente che ora sembrava così tetro, non l'aiutarono.
    Sobbalzò quasi quando vide la sua mano muoversi, sebbene lentamente, verso il suo viso.
    «Che cosa fai?» Nel suo tono era ben udibile tutta la tensione provata. E poi Mason la colpì. Non fisicamente. Non fu quello il dolore provato anche se forse lo avrebbe sopportato di più. Fu quella parola a farle male. Una coltellata allo stomaco.
    Puntò gli occhi grandi nei suoi, mentre traboccavano di tristezza e paura.
    E tornò a sentirsi esattamente come quella sera.
    Sola, impossibilitata ad urlare, consapevole che nessuno avrebbe potuto aiutarla. Perchè era una sorta di violenza anche quella. Lo erano state le sue parole e lo erano i suoi gesti, così lascivi quanti brutali. Lui voleva farle male, e ci stava riuscendo. Voleva farla sentire debole, ed era chiaro lo fosse. Nonostante gli sforzi fatti, era ancora bloccata a quel trauma, e Mason ora sembrava divertirsi a ritirarlo fuori per buttare aceto su quelle ferite.
    Fu una tortura atroce. Crudele persino per lui.
    Non riuscì a muoversi di un solo passo ma il suo corpo continuava a tremare. Piangeva silenziosamente, guardandolo, aspettando.
    Forse fu anche peggio di quella notte, perchè da Lorence si sarebbe aspettata qualsiasi cosa, ma da Mason no. E non fece meno male il suo allontanamento, soprattutto perchè accompagnato da quelle parole.
    Non disse nulla. Non replicò.
    Crollò a sedere, le gambe deboli, piangendo al buio per la paura provata. Per la consapevolezza di non avere davvero più una spalla a quel punto. Nessuna squadra. Era sola.
     
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