Posts written by #oxymoron

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    chiusa
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    Panico. Poche volte ne sono stato vittima. Generalmente, sono io ad avere il controllo, o così mi piace credere. Quando la paura aumenta e l’ansia comincia a rendere opaco il mio mondo, faccio ricorso a mezzi che mi aiutano ad essere vivo, energico. Sprezzante della paura e del pericolo. In questo momento non servirebbe a nulla, nè riesco a perdermi nell’inconsapevolezza del pericolo. Non ora che c’è di mezzo la vita di Drayton. Potrei fregarmene, come ho sempre detto di fare, ma il timore di quel che potrebbe accadergli se i miei genitori sapessero della sua irruzione nelle segrete, mi toglie il fiato. “Chiudendo gli occhi e ringraziando il cielo di non essere qui o morto. Perché se parlerai la fine che farai sarà esattamente questa.” Diretto ed incauto. Non voglio indorare la pillola, ora non avrebbe più senso. Non posso nascondergli l’ovvio senza rischiare di spingerlo ad una reazione avventata. Tutto ciò che posso fare è dirgli la verità e sperare che questo basti a tenerlo lontano da questo mondo. Da me. "Drayton, per favore.” La mia voce si piega in un sussurro mentre i miei occhi impauriti cercano appoggio nel suo sguardo chiaro.
    Scuoto il capo, osservando oltre il muro dietro il quale l’ho condotto per assicurarmi che siamo ancora soli. Ci metto un po’ a rispondere alla sua domanda. “Cosa cambia saperlo?” Gli dico infine. Sapere quanto e come sono coinvolto in questa macchina letale, non mi scagionerà dal male che ho fatto e che mi porto addosso come una cicatrice, nè lo salverà dalle mire dei miei genitori. “Basta, vieni via da qui.” Lo afferrò per il braccio, conducendolo oltre un passaggio sotterraneo che dovrebbe condurci all’esterno, in una terra apparentemente abbandonata. “Io lo so che non puoi capire e capirò se vorrai andartene e scappare lontano. Anzi ti invito a farlo. Sarò io a coprirti. Ma non dire nulla a nessuno. Ti prego. I galeoni che ci sono in gioco metterebbero a tacere anche gli auror più diligenti e tu e la tua famiglia finireste male.” Verità. Sono stati pochi i momenti in cui mi sono concesso di dirla. Ora la dico a lui. Spero potrà servire a qualcosa. Mi fermo, lo guardo. Le mie mani toccano il suo viso cercando un contatto che possa fungere da catalizzatore per le mie parole. Un tocco che possa indurlo a credere alle mie parole. “Non è una cosa che si può combattere o da cui puoi scappare. Io lo so bene e devi fidarti di me. E’ l’unica cosa che ti chiedo.”


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    E’ strano averlo a casa. Vivo con il costante timore possa succedergli qualcosa di brutto - tra queste mura non sarebbe così irreale - eppure non riesco a lasciarlo andare. A volte mi capita di osservarlo in silenzio mentre la mia mente è bombardata da pensieri che non capisco e non accetto. Se mia madre potesse guardarmi dentro, mi aggiungerei probabilmente alle vittime in cantine e quando nel mio inconscio si fissa l’ipotesi di essere sbagliato, il benessere lascia spazio ad un’agitazione incontrollabile. L’idea di essere un abominio mi repelle. Solitamente la metto a tacere con un po’ di polvere bianca. Chiuso nella mia stanza, tiro su un po’ di felicità e l’adrenalina che mi scorre nelle vene annienta ogni altro pensiero. Lo faccio anche oggi. Mi nascondo nella mia camera, mi nascondo da Drayton e da ciò che mi provoca, concedendomi una parentesi di pace. Così immagino possa essere. Presto però mi ritrovo a ricredermi. Quando raggiungo il salone e più lontano il corridoio che porta a parti di questa villa che non dovrebbero esistere, mi coglie un senso d’angoscia. Paura oserei definirla. Vedere la porta dello scantinato aperto mi toglie il respiro. Provo a richiamare Drayton prima di fiondarmi di sotto, ma quando non ricevo risposta, corro a perdifiato.
    Tic toc, è il rumore delle lancette che mi pesano sulla testa. Tempo. Mi sembra di non averne più. Ogni passo sembra rallentato mentre scendo le scale a due a due. I miei genitori potrebbero essere qui da un momento all’altro e quel punto cosa accadrà? Lo so cosa accadrà. Dinanzi agli occhi, mentre supero gabbie di inumanità, vedo sangue, catene. Vedo la sua testa bionda lontana dal suo corpo. Quando finalmente lo vedo, lo afferro per un braccio in malo modo, strattonandolo per richiamarlo a me. “Sei sordo o pazzo?” Pazzo. Folle. Morto. Ignoro quello che dice mentre mi coglie un ingestibile senso di panico. Le mani fisse alle tempie e il respiro accelerato ne sono un chiaro esempio. “Fanculo.” Un calcio al muro incurante del dolore.
    “Perchè sei venuto qui?” Glielo urlo rosso in viso, lo sguardo lucido quanto il suo. Mi tremano le mani mentre lo riafferro con violenza. Non gli darò modo di liberarsi, non se lo può permettere. Non posso permettermelo. “Stai zitto.” Gli intimo mentre provo a trascinarlo via di lì. Un calcio all’elfo domestico prima di afferrare anche lui per la collottola. “ZITTO.”

    Chiusi in stanza ragiono sul da farsi. Darwin è qui. Sono stato io a richiamarlo cercando supporto. Mentre Jonas è sigillato nella mia stanza, io sono nel bagno della mia camera a parlare con il mio socio cercando una soluzione mentre mi sciacquo il viso cercando di calmarmi. “No. Lui non dirà nulla. Te lo assicuro.” Rispondo così alle sue ingiurie, alla possibilità che Alexander vada in giro a spifferare ciò che ha visto mettendo in pericolo se stesso. E quando si offre di sistemare le cose, a modo suo ovviamente, lo spingo contro la parete di mattonelle. Un rumore chiarisce l’impatto. “Non osare. Devi lasciarlo in pace. Me ne occupo io!” E’ l’unico modo che ho per poterlo salvare. Devo provarci almeno. Darwin però non si placa. Offre la possibilità terribile di una risoluzione definitiva ed io lo colpisco con un pugno, mentre la mano contro il suo collo chiarisce quale sarebbe la mia reazione dinanzi ad un atto simile. “Tu provaci soltanto e ti giuro che ti uccido. Ci sono quasi riuscito una volta, no? Posso rifarlo.” Lo caccio via dal bagno, dalla stanza. Me ne occupo io. Me ne occupo da solo. Non ho bisogno di nessun altro.

    Lo raggiungo, il labbro spaccato dalla breve discussione con Darwin. Non mi frega un cazzo del dolore, è Drayton il mio obiettivo ora. Lo raggiungo. So che sarà poco collaborativo, lo conosco, ma farei di tutto per convincerlo a non fare cazzate. “Drayton, tu non hai visto nulla, okay?” Provo ad avvicinarmi, le mie mani alla ricerca delle sue braccia. “Ascolta le mie parole e guardami, per favore.” Una supplica. E’ a questo che sono arrivato prima ancora di sentirlo parlare. E’ il timore di vederlo sparire che mi annienta. E’ la paura che gli Hollingsworth mi hanno sempre intimamente trasmesso a farmi sembrare come ciò che non sono stato mai: impaurito.
    “Tu sei sempre rimasto qui a fare quello che ti avevo chiesto di fare. Fine.” La mia voce trema appena mentre il mio sguardo ancora cerca il suo e le mani si stringono nella presa, quasi a volerlo tenere qui, vivo. “Per favore per favore per favore. Non avere strambe idee. Non fare pazzie.”






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    Ascolto le sue parole senza avere il coraggio di guardarlo. E forse non è mancanza di coraggio, è più la convinzione, la certezza dovrei dire, di non riuscire a sostenere la sincerità nei suoi occhi e, ancora, di non poter sopportare ciò che la sua realtà potrebbe innescare nella mia. Non è una possibilità così remota che le sue parole accendino un fuoco di emotività nella mia sensibilità soventemente costretta a dormire. Ed infatti è ciò che accade. Le sue rivelazioni, le sue promesse, il sentirlo finalmente vicino dopo anni in cui mi è sembrato scappare da me nello stesso modo in cui hanno sempre fatto tutti, provoca nel mio petto un terremoto emotivo che non so gestire e che rompe alcuni miei limiti. Gli occhi umidi che provo a nasconderli ne sono una forte testimonianza. Lo è la mia immobilità. È solo quando le sue parole cessano ed il silenzio cala su di noi che mi sento quasi costretto ad intervenire. Tiro su col naso, mi rialzo e prima di voltarmi verso di lui asciugo con due dita le poche gocce indisponente che furbe sono scappate dall'amotivitá che mi impegno di mostrare. “Che discorso da checche.” Aggiungo poco dopo, puntando lo sguardo nel suo, un passo più vicino a lui. E vorrei dirgli altro, essere magari sincero, ma passi che si avvicinano oltre la porta chiusa mi spingono ad allontanarmi. Poggio una mano sulla sua spalla, dandogli una leggera botta. Niente di violento. Quasi un buffetto, nonostante le apparenze.
    “Muovi le chiappe Drayton, sei qui per lavorare non per parlare.” Alzo la voce in modo che chiunque sia passato all'esterno possa aver sentito. L'attimo dopo mi avvicino alla porta, cercando di sentire cosa accade oltre. Solo quando il pericolo sembra scampato torno a respirare. Mi volto verso di lui, sospirando. Le mani a coprire il viso per qualche istante.
    “Aspetta che vadano via e torna al campus .” È l'unica indicazione che gli do. Parlare qui tra queste mura con i miei genitori ancora in casa, è un pericolo per entrambi. Uno che non sono disposto a compiere dopo la fatica fatta per salvarlo. Gli rivolgo un ultimo sguardo quindi, un silenzioso grazie tra le labbra per parole di cui avevo bisogno.
    “Domani ti spiegherò cosa fare.” Aggiungo poi, prima di precipitarmi fuori dalla porta a fingere di adempiere a compiti che ora mi pesano. Forse l'hanno sempre fatto.


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    Mi allontanò ponendo distanza tra noi. È qualcosa che solitamente non mi sarei concesso. Ora mi sembra di non poterne fare a meno. Averlo vicino tocca corde che credevo di non possedere. Mi siedo sul divanetto rivestito di tessuto pregiato accomodato in un angolo dell'enorme stanza in cui mi rifugio.
    Non lo guardo, nemmeno quando mi rivolge la parola. “Non mi è mai importato.” La mia risposta è secca e priva di fronzoli eppure il mio sguardo volutamente lontano parla di una verità che celo. “Non volevo averti sulla coscienza. Se avessi lasciato fare ai miei genitori a quest'ora, credimi, saresti... Senti lascia stare.” Aggiungo poco dopo fermandomi prima dall'aggiungere dettagli osceni che avrebbero potuto ferirlo e spaventarlo oltre che mettere me e la mia famiglia in una posizione spiacevole. Scuoto il capo, sbuffando prima di ficcare la mano in una tasca alla ricerca di un contenitore che custodisce il mio salvavita. La mia polvere magica.
    Senza alcun tipo di freno o vergogna, ne lascio cadere un po' sul dorso della mia mano, inspirando poco dopo il mio bisogno.
    Aspetto un secondo, le dita a stringere il naso prima di tirare indietro il capo e a gambe aperte, occhi chiusi, lascio che la tensione provata si dissipi. Il timore di una rappresaglia, quello ancora peggiore di poter esser letto dentro.
    “Ci ho pensato anche io.” Interrompo il silenzio mentre ancora ad occhi chiusi gli confido una rivelazione. Non so se è la sensazione di stasi che segue una forte scarica di adrenalina o il bisogno di liberarmi a farmi parlare. Forse, ancora peggio, è la solitudine. La costante sensazione di non essere ascoltato.
    Quello che gli rivolgo è una rivelazione inaspettata e apparentemente priva di significato. Lo sguardo che gli rivolgo di sottecchi, e che rivolgo principalmente alla sua cicatrice, lascia però intuire di cosa io stia parlando.
    “Non ho mai avuto il coraggio.” Coraggio. Ho affrontato mali assurdi, io stesso lo sono diventato ed il coraggio non mi è mai mancato. Avere la forza di compiere un atto come quello che senza troppe remore Drayton ha compiuto è qualcosa però a cui non sono mai riuscito ad arrivare. E forse a ben vedere, non è il coraggio che mi manca. Forse ho solo bisogno di una distruzione più lenta. Una irrefrenabile discesa negli inferi così che nessuno possa salvarmi.
    “Perché quando lo fai, sei da solo. Tu con i tuoi pensieri, le tue colpe, la tua vita, giusto? Io non volevo esserlo. Non ho mai voluto esserlo. ” Una confidenza che gli rivolgo ancora perso. Lo sguardo fisso sul soffitto. “Tu mi hai lasciato solo come tutti gli altri.” Lo ha fatto come mio fratello, come Daphne. Hanno deciso di guardare a se, alla propria vita, lasciando a me il ruolo del cattivo. Di colui che il male se lo merita. E non ho avuto altro che questo: male e sofferente solitudine. “Lo hai fatto prima di tutti gli altri e continuerai a farlo perché sei un fottuto egoista e cercherai sempre
    di raggiungere qualcuno che ai tuoi occhi ti sembrerà migliore nella speranza possa migliorarti a tua volta. Ma sai cosa? Non funzionerà.”
    Una verità che ho conosciuto io stesso e a cui sono ora rassegnato. “Quelli come noi non sanno fare altro che spegnere quella luce che ci affanniamo a rincorrere."

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    Non mi aspettavo avrebbe accettato le mie condizioni. Vederlo raggiungere villa Hollingsworth mi ha illuminato sulla disperazione del suo bisogno e sulla conseguente pericolosità degli atti in cui sto per immergermi. Mettersi contro una famiglia come la nostra, non è la cosa più saggia da fare. Gli Hollingsworth sono predatori. Cacciano, catturano, uccidono. Quando la prigionia non li soddisfa, umiliano le loro prede. Drayton ha avuto l'ardire di avvicinarsi troppo con i suoi problemi ad una vita che non gli appartiene e questo necessita di un pagamento.
    Non posso fare niente per evitarlo. Ciò che posso fare è provare a limitare i danni.
    Quando Drayton parla a loro, assisto in silenzio. Nervoso in un angolo a braccia conserte. Soltanto quando il loro diniego sta per essere palesata, mi impongo di intervenire.
    “Me ne occuperò io, lo prometto.” Propongo loro un piano. Obbligare Alexander a lavorare gratuitamente per noi per ripagare il danno di immagine. Un piano apparentemente insulso ma che quasi prego loro di accettare. Dopo almeno dieci minuti di assenza, ritornano con in mano un documento che mi lasciano con un monito duro. Annuisco, prima di fare un cenno al Drayton, per convincerlo a seguirmi.
    Soltanto una volta nella mia camera, chiusa la porta, gli porgo il documento. Una sorta di contratto. “Vogliono tu firmi questo.” Lì su troverà incise delle clausole, come quelle di non recepire denaro, di lavorare per questa famiglia e soprattutto una clausola di segretezza. “Non fare troppo il pignolo, firma e basta.” Cerco di convincerlo seppur con fare sbrigativo. In caso contrario le cose per lui potrebbero mettersi. E non è un ipotetico processo a preoccuparmi, quanto la convinzione di poter fare sparire il suo corpo senza suscitare scalpore. Dopotutto, inscenare un suicidio per far sparire un corpo è qualcosa a cui la famiglia Hollingsworth è già abituata.
    “Lavorerai per me per sei mesi. Io dirò loro che avrai ripagato il tuo debito, così sarai libero.” Lavorare per me rientra tra le clausole proposte. Questo mi darà modo di proteggerlo. Di tenerlo lontano dal male di cui la mia famiglia è capace. “A loro non frega un cazzo se tu lavorerai o meno. Quel che vorrebbero è vedere te e la tua famiglia strisciare. Darti l'opportunità di ripagare è stata una mia idea. Quindi ora sta a te. Cosa decidi?”


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    Lo sguardo che gli indirizzo non lascia adito a dubbi. Non sono interessato a quel che dice, o almeno è quel che vorrei credesse. Sono ancora furioso con lui. Lo sono con me. Sono ferito da lui e dalla sua mancanza di interesse nei miei riguardi. Per anni ho ricercato la sua attenzione, e cosa ho ottenuto? La palese dimostrazione di una porta chiusa in faccia. Mi ha cacciato fuori dalla sua vita. Mi ha urlato in faccia quanto inutile fosse la mia presenza nella sua esistenza. “Dovrebbe essere un mio problema?” Ora però è qui a chiedere il mio aiuto e a farmi rabbia è che nonostante sia forte la voglia di indirizzare un pugno contro il suo volto e liberarmi della sua presenza, nella mia testa riecheggia il desiderio di essergli utile. Di avere un ruolo nella sua esistenza, un posto che gli faccia ricordare di me anche solo per una volta. Patetico. E’ questo che sono. Mi pare di sentirmelo urlare da Darwin anche se non è qui. “Chiedilo al tuo nuovo compagno di stanza, la mano.” L’ennesima frecciatina nei riguardi del ragazzo che per lui ha avuto sempre un valore maggiore, per quanto inutile possa essere stata la sua esistenza. E non è lui a farmi rabbia, ma Drayton. Lo è la sua incapacità di notare quanto io mi sia sprecato per lui, quanto gli abbia concesso. A lui più che a qualsiasi altro. Il prezzo è l’essere stato sbattuto fuori dalla sua vita senza alcun preavviso. Voleva andarsene abbandonandomi di nuovo. In fin dei conti lo ha fatto. Provo a superarlo, serrando la mascella nel tentativo di nascondere quel che provo. Prima di poter andar via però, pare che qualcosa mi impedisca di farlo. Una morale che credevo di non possedere. Roteo gli occhi, sbuffando, prima di voltarmi verso di lui. “Non è stata una mia idea. Non ne sapevo niente.” Una giustificazione inutile che sento necessario fare. Se avessi voluto rovinarlo o vendicarmi nei suoi riguardi, non avrei di certo optato per una simile metodica. I miei mezzi sono più diretti e meno subdoli. Questa pratica ha invece la firma degli Hollingsworth. “Tu non li conosci i miei genitori. Parlarci è impossibile. O fai quello che vogliono o…” Mi blocco, mordendomi il labbro. Concedergli più verità di quanto io possa condividere mi farebbe sentire leggere ma so di non potermelo permettere. Passo una mano sul volto, scuotendo poi il capo, rimuginando velocemente su una soluzione da proporgli. “Vieni da me, domani.” La mia proposta arriva veloce, irruenta. Non dà opportunità diverse da quella offerta. “Offriti di ripagargli il fastidio arrecato in ogni modo possibile e poi ci penserò io.” Per quanto assurda possa sembrare, mi appare come un’ottima soluzione. Mi offrirò di occuparmi di Drayton personalmente. Farò in modo credano il suo debito possa essere in qualche modo ripagato senza che intervengano loro personalmente e forse potrà dirsi salvo dalla loro avarizia e dai loro giochi di potere. “Se sei così disperato da poterti fidare di me, questo è quanto. Altrimenti farai bene a farti dire dal tuo amico dov’è che batte per racimolare qualche galeone.” Un'ultima battuta che no, non potevo evitarmi.


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    “Vedi? Una colazione proficua dopotutto.” Rispondo con un ampio sorriso. Un gesto solitamente involontario messo su per annichilire le mie prede. Ora involontario perchè spontaneamente felice di aver trovato una sorta di connessione con chi credevo aver perso per sempre. Da me non ci si aspetterebbe un legame, di nessun tipo. Non ho mai avuto lunghe amicizie, né storie durature. Eppure solo un cieco crederebbe che un essere umano, di qualsiasi tipo, sia incapace di costruire un legame con qualcuno al mondo. Mostrarlo è difficile, nel mio caso a volte impossibile, ma anche io ho legami a cui tengo. Persone a cui sono legato anche se loro non lo sono più a me. Triste forse. Immagino lo sia in definitiva. È il destino di un Hollingsworth. Tenere per sé tutto ciò che è pateticamente umano. Gli affari dopotutto, non hanno sentimenti.
    “Oh certo. Il campus è così piccolo.” Ghigno a mezza bocca divertito dalla sua ammissione di colpa. Non mi turba essere stato spiato da lei. Mi illumina sulla possibilità che persino lei abbia mantenuto una porta aperta nei miei riguardi. È un sollievo.
    “Sono discretamente bravo.” Le confido poco dopo, annuendo. La modestia non mi è mai appartenuta. “Ci offrono psicoterapia gratuita ogni giorno. E lasciarsi frugare nella testa da sconosciuti è uno spasso.” Aggiungo poco dopo con un filo di ironia, annuendo a lei. “Ma, posso fare lo stesso.” Concludo ancor più divertito, ammiccando come a sottintendere quanto divertente sia poter conoscere gli altri senza che gli altri possano conoscere te. Lo è. È potente. Immagino sia questo il motivo per cui mia madre abbia voluto spingermi a questa professione. Quanto utile può essere uno strizzacervelli in affari loschi come i loro? Entrare nella mente dei prigionieri e renderli mansueti, rende il lavoro più facile e privo di intoppi. “Hai bisogno di un terapeuta? Magari non sono la persona più adatta, ma ho molte conoscenze.” Di ogni tipo aggiungerei. “Se però hai bisogno di un amico, in quello posso aiutarti.” E questo è solo il mio tentativo di aprire le porte del nostro passato legame, per cercare ancora una connessione. Un filo a cui aggrapparsi. “Insomma, se hai da uccidere qualcuno, chiama me.” Scherzo infine. E forse nemmeno tanto.

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    Con una sigaretta spenta tra le labbra, mi avvio verso la mia camera. La quotidianità dell'accademia, mi snerva. Mi spinge a cercare di continuo sollievo in un pizzico di adrenalina. In una polvere bianca che ispiro sul dorso della mano e che mi riporta alla vita. È quello che faccio di solito, ma non oggi. Oggi il tormento di pensieri a cui non riesco a smettere di dare peso, mi avviluppano, evitandomi la stasi di cui necessito. Mi sento afflitto. Come se fossi continuamente punto da mille spilli, mi muovo irrequieto. Mi obbligo quindi ad allontanarmi dalla classe, dalla biblioteca, dalla mensa, in atti veloci e scocciati. Così è verso la mia stanza che mi dirigo, convinto di poter trovare lì la serenità di cui necessito.
    Quando la voce di Alexander attira la mia attenzione però, mi pare di capire che forse oggi la serenità non è nel mio destino. Mi fermo per un secondo a guardarlo. Solo uno. Nella mia mente si susseguono sprazzi sbiaditi di momenti che ricordo a stento. Una parte di me si convince di essergli riconoscente. L'altra pretende io gli sia alla larga, quasi temesse qualcosa. “Drayton.” Lo saluto ad ogni modo, superandolo. Non mi dà però la possibilità di farlo. Mi pone una pila di fogli, che guardo scettico prima di rivolgere a lui lo sguardo. “Wow. Una novità.” Lo canzono in risposta alla sua richiesta, prima di sospirare ed afferrare ciò che mi porge. Do una veloce occhiata e per quanto inaspettato, non mi stupisce carpire il contenuto di quelle lettere. “No.” Gli rispondo sincero, indirizzando uno sguardo veloce verso di lui prima di tornare ai foglio che sfoglio. Qualche attimo, prima di porgerglieli.
    Avrei dovuto immaginare che i miei genitori non avrebbero lasciato correre nonostante il mio consiglio a farlo. Non è il desiderio di proteggermi a spingerlo, quanto di proteggere loro stessi e i loro affari. Anche questo, non mi stupisce. “Sono io parte lesa. La mia firma manca.” Gli dico, indicandogli la mia firma mancante. Un dettaglio forse ininfluente ma che spero possa avere qualche valenza legale. Ne avrebbe con un buon avvocato, uno di quelli che si fanno pagare fior di galeoni. “Trova un buon avvocato e tra qualche mese potrai usare queste cartacce come coriandoli.” E' l'unico supporto che sono capace di dargli. L'unico aiuto che posso offrirgli visto che sono bloccato tra incudine e martello. “C'è altro?”

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    La mano si strinse contro il suo collo. Le dita percorsero il segno di quelle cicatrici che tanto avevano turbato Harvey. Darwin avrebbe stretto fino ad ucciderlo se Harvey non lo avesse implorato di allentare la presa. Richiamò quest'ultimo a sé, imponendogli di andarsene. Era a lui che spettava il compito di proteggerlo e a nessun altro. Nessuno d'altro canto, avrebbe potuto difenderlo nel modo in cui faceva Darwin. Prima che riuscissero ad oltrepassare la porta di quella stanza però, di nuovo il biondino si frappose fra loro, provando a richiamare Harvey a sé. Riuscirono a guardarsi per un istante, prima che Darwin potesse intervenire ancora.
    Lo spinse con forza, un pugno violento diretto contro il suo volto. “Non devi toccarlo.” Ringhiò con una voce roca, sottile, quasi inquietante. L'attimo dopo fu dinanzi a lui, la mano a stringersi contro i fili biondi dei suoi capelli. Tirò indietro il suo capo per poter guardarlo meglio in volto. Gli rivolse uno sguardo apatico. Freddo. Non era la rabbia tipica di Harvey a muoverlo. Darwin era diverso. Lui era stato ingaggiato per difendere l'Hollingsworth. Quello era solo il suo lavoro. “Non ti è fregato nulla di lasciarlo indietro. La tua vita è migliore senza di lui.” Scandì bene le sue parole, stringendo ancor di più la presa sui suoi capelli e tirando indietro il capo. Era a conoscenza di ogni dettaglio delle dinamiche che c'erano state tra i due. Aveva testimoniato alla sofferenza di Harvey ed aveva atteso il momento adatto per intervenire. Per vendicarlo. “Lo è anche la sua.” Aggiunse poco dopo, rilasciandolo con uno strattone. Si allontanò di qualche passo avanzando verso la porta. Si voltò per un ultimo istante per riservare all'altro un'importante avviso. Parole a cui avrebbe dovuto porre la giusta attenzione. “Tu avvicinati di nuovo, e la corda che ti metterò al collo non ti lascerà respiro.”


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    Metto su un'espressione quasi offesa, portando una mano al petto. “Mi credi così vile?” Scuoto il capo, esordendo poi in una risata. Non me la sono presa. In effetti merito la sua diffidenza visto quella a cui l'ho costretta. Ho avuto tante storie nel corso della mia esistenza, molte delle quali poche serie. Con Freya sarebbe potuta finire come con tutte le altre ma è capitata in un momento particolare della mia esistenza, una parentesi in cui trattenere la mia emotività dietro lo schermo freddo del comportamento apatico che mi è stato imposto mi veniva impossibile. Sono scoppiato, lasciandomi scoprire in parte nelle mie debolezza. L'overdose a cui è stata testimone, in qualche modo ha rotto entrambi, e ha messo fine al nostro rapporto. La possibilità che lei conoscesse di me più di quanto io stesso fossi stato pronto a tollerare, mi ha spinto a porre le distanze. Decisamente un pessimo modo di mostrarsi riconoscente. “Ah ecco. Questo spiega un bel po' di cose. E pensare che io credevo fosse solo sfiga.” La punzecchio nel tentativo di alleggerire la nostra conversazione. Lascio che afferri la bevanda che le porgo, prendendomi qualche attimo prima di rispondere alla sua domanda. “Come mi vedi?” Mi indico, mettendomi comodo accanto a lei. “Non sono più andato in overdose, se te lo chiedi. Ho smesso con quella roba. Ora sono pulito.” Bugia. Immagino avrei potuto evitarmela, o forse no. Andare in giro di essere drogato, non rende più facile l'atto della socializzazione. Immagino non potrebbe farlo visto i nostri trascorsi.
    Piego il capo, guardandola. “E tu? Mi hai sostituito con qualcuno?” Condisco il mio quesito con una risata. La mia non è soltanto voglia di soddisfare un pettegolezzo. Per quanto impossibile sia da capire da taluni, persino io riesco a provare affetto verso il prossimo. Di sicuro verso chi ne ha mostrato nei miei riguardi. “Okay, scusami, questi non sono affari miei. Ed in realtà non mi sono avvinato per questo.” Alzo le mani in segno di resa, cercando di toglierla dall'imbarazzo di un momento scomodo. Parlare al proprio ex di determinate cose, non deve essere facile. “E' che ti ho vista qui e ho pensato che avrei potuto finalmente dirti che a volte mi manchi e che mi dispiace.”


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    La routine degli Hollingsworth, la mia, è scandita da precisi step da rispettare. La sveglia suona prima che il sole sia sorto del tutto. Mi alleno per un'ora o due, lavo via il sudore e ripeto la lezione del giorno così da essere preparato ed anticipare nozioni che i professori dovrebbero darci nell'arco della giornata. Prima che le lezioni comincino, raggiungo poi la caffetteria del Campus per recuperare un caffè nero con cui fare colazione. Solitamente procedo con una sniffata veloce sul dorso della mano, prima di seguire le prime lezioni della giornata.
    Una volta messo piede fuori dalla caffetteria però, il mio sguardo ricade su una figura a me conosciuta. Il suo profilo risveglia nella mia mente ricordi apparentemente assopiti. Immagino dovrei evitare di avvicinarmi al mio passato, fingendo noncuranza. Andando avanti. Non riesco a farlo.
    Non sono un tipo sentimentale, la mia famiglia non mi ha mai permesso di esserlo, ma la mancanza d'amici, persone reali con cui parlare e non soltanto immagini vuote di cui circondarsi, comincia a farsi sentire. Drayton è una variabile troppo complessa da prendere in considerazione e la Mikkelsen ha preferito il buonismo e l'ipocrisia alla realtà dei fatti. Non mi stupisco. Persone come lei necessitano di persone deboli di cui circondarsi per alitare sul suo ego e il Dubois è la vittima perfetta. La Goodwin appare come un miraggio in un contesto di desolazione.
    Ho avuto tante storie in passato, quasi tutte poco serie. Freya però era una ragazza diversa dalle altre. Era vera. L'ho tradita con la mia debolezza. Quando sembravamo funzionare, ho tirato giù veleno fino all'overdose. Ho accusato Drayton di avermi voltato le spalle, ma io ho fatto lo stesso con lei. Ed è forse anche questo il motivo per cui, dopo aver recuperato una nuova bevanda calda, mi decido ad avvicinarmi a lei. Conosco il mondo in ogni suo losco dettaglio, ma dei meccanismi alla base dei rapporti sociali, so poco. “Non l'ho corretto, giuro.” Le porco la bevanda, indirizzando un sorriso verso di lei. Non so come prenderà la mia presenza. Non ci siamo odiati dopo la nostra rottura, ma lentamente il rapporto si è affievolito fino a sparire.
    “Ti ho visto qui tutta sola e mi sono detto perchè non raggiungere la ragazza più bella di tutta l'Accademia?” Ammiccò, sedendomi accanto a lei sulla panchina sulla quale è seduta. “Non mi odi, ancora, vero? In caso sappi che il caffè serve per fare pace.”



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    Lo sguardo che gli lancio è dubbioso, quasi io faccia fatica a credere alle sue parole. E non è un segreto. Dubito della veridicità della sua affermazione. Non mi copre le spalle, non lo fa più da tempo. La cosa peggiore è che di rimando mi ha tolto quel ruolo. Immagino di non potermene lamentare. Non sono mai stato eccellente nel dare supporto. Era solo facile fintanto che entrambi condividevamo le stesse condizioni. Lo stesso punto di vista sul mondo.
    Distolgo lo sguardo. Le sue parole mi appaiono false. Non vedo perché dovrebbe provare rammarico per la condizione in cui verso. Se fossi al suo posto e lui al mio, gli direi che se l'è meritato. Forse, nemmeno avrei provato ad aiutarlo.
    “Non era una convinzione. Sarebbe dovuto essere così e basta.” Aggiungo poco dopo come a voler portare avanti le mie verità. Sono così asuefatto alla realtà datami dagli Hollingsworth da non poter immaginare nulla di diverso. “Se morissi non importerebbe a nessuno. Tanto meno a te. Sei solo un coglione dal cuore buono.” Continuo il mio discorso, stringendo i denti dinanzi ad una fitta di dolore conseguente all'atto di rimettermi a sedere, nonostante le sue limitazioni in merito. Mi prendo un attimo per tornare a respirare prima di continuare. “Forse lo sono anche io. Un coglione.” Annuisco arreso. È così che mi sento. Mi sono lasciato andare con lui e quel che provo adesso, sempre, è debolezza. Mi ha ferito più di quanto una scazzottata non avesse potuto fare. I suoi rimedi per curare le mie cicatrici, sono acqua sulle mie ferite.
    Afferro la pozione che mi porge, soppesandola per qualche attimo. Gli rivolgo uno sguardo, serio e diretto. È a lui che parlo al di là del momento che stiamo vivendo. È una considerazione che gli faccio circa gli avvenimenti vissuti, quelli che gli hanno recato l'ombra scura sul suo collo che ora non posso smettere di guardare. “Non avresti dovuto farlo.” Ferito, deluso. Forse più di ogni altra cosa spaventato dall'idea di non avere il controllo. Non aggiungo altro. Mando giù la pozione dal liquido scuro. Il sapore intenso e disgustoso però mi impone un conato. L'attimo dopo, la mia testa è riversa sul cestino. Il liquido scuro a sporcare il mio mento. Il dolore che provo mi spaventa. Stavolta le ferite sul corpo non c'entrano niente.

    Era rimasto a guardare in silenzio, sbuffando quando parole vomitevoli arrivavano al suo udito. Harvey gli imponeva il silenzio, rassicurandolo di poter cavarsela da solo. Darwin ne era convinto ma il suo eccessivo spirito di protezione, lo spinse a reagire quando Harvey si lasciò andare. Si tirò in piedi dal letto sul quale era seduto. Per qualche ragione la testa presta a girargli, immagino fosse per lo scatto improvviso. Non se ne preoccupò. L'adrenalina mosse il suo corpo.
    La mano si serrò sul collo dell'altro in una presa ferrea. La spinta che lo diresse contro il muro fu violenta. Rumorosa.
    “Cosa gli hai fatto? Devi stargli lontano.” Bestialmente urló quelle parole contro il suo volto, concedendogli un ulteriore spinta. Poco dopo rilasciò la presa sull'altro, scuotendo il capo. Il dito puntato contro di lui, chiariva un avvertimento.
    “Ti ho graziato una volta, insieme a quel cane che ti portavi dietro. Non sarai sempre così fortunato, Drayton.” Si allontanò. Arretrò di qualche passo, prima di dargli le spalle. Avrebbe portato Harvey altrove, lontano da tutto quello che avrebbe potuto farlo soffrire. Dopotutto era quello il suo compito, proteggerlo.


  14. .
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    La sua mano è la prima cosa che sento. Il mio primo contatto con la realtà. Mi guardo attorno, stringendo involontariamente le sue dita. Il dolore mi strappa un gemito, spingendomi di nuovo contro il materasso. La schiena curva all'indietro, gli occhi chiusi. Ho vaghi ricordi di quel che è accaduto. Ricordo una bella serata con una persona insolita, mio cugino, prima di una scarica di pugni e calci. Una violenza che non mi è nuova ma di cui sono stato sempre fautore e mai vittima. Non di recente.
    Quando Drayton mi rassicura, la mia reazione è di sorpresa. Per un attimo resto a guardarlo inerme, chiedendomi il motivo delle sue buone azioni nei miei riguardi. Non è un benefattore, né si è mai sforzato di fingere di esserlo. Dopo la nostra lite, credevo non avrebbe mai più voluto nemmeno vedermi ed invece è disposto a mantenere il segreto. “Perchè?” Non posso fare a meno di chiedermi il motivo. Il mio sguardo segue le sue mosse. Il modo in cui mi asciuga la fronte o come mi guarda. Per un attimo, il rancore provato nei suoi riguardi, si dissolve. Per un attimo torno a sentire il calore caratteristico delle attenzioni. Le sue. “Sono ubriaco.” Gli confesso rilassando il corpo. Mi lascio andare alle sue premure, fiducioso. A nessuno concederei di vedermi così. Sotto il suo sguardo, non ho timori. “E fatto.” Aggiungo poco dopo, volgendo il capo verso il suo per incontrare il suo sguardo. L'alcol mi ha condotto qui e so che non è un caso. Dovrei essere incazzato con il mio inconscio, ma non riesco. “Dittamo e rimpolpasangue. Non mi serve altro.” Gli do qualche dritta. So come agire in contesti simili perchè li ho già vissuti. Essere così aggiornato su situazioni così critiche, allarmerebbe chiunque. Non so se questo sia il suo caso. “Ho fatto una buona azione.” Gli confesso poi poco dopo, distendendo le labbra in un sorriso vago. Non mento. Ho provato ad aiutare una persona per cui credevo non avrei speso mai nemmeno un briciolo di me stesso. Ed ora mi sento un idiota. “Ecco come si finisce quando provi ad aiutare qualcuno.” Il mio sguardo si fa più duro e pensoso. “Ti annientano.” E non è del Chesterfield che parlo stavolta e delle ferite che la sua vicinanza mi ha causato. Forse Alexander capirà.

  15. .
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    “Con un po' di fogli verdi, puoi avere tutti i tirapiedi che vuoi.” Gli mostro il segno della grana. Avere fedeli tirapiedi è un concetto un po' retrò in un contesto simile, forse applicabile principalmente ad un contesto scolastico come quello di Hogwarts. Qui al Campus, dove tutto sono più o meno maggiorenni e proiettati verso il loro futuro, è l'individualità che regna. Non è un limite per chi, come noi, può permettersi di comprare anche quella. È a quello che tutti si sottomettono, alla grana. Chi ne ha è padrone del mondo, e degli altri. È questo che, più di tutto, mi rende il re. Posso comprarmi tutti i sudditi che voglio.
    Mi lascio andare ad una breve risata. “Puoi scommetterci.” Gli rispondo, invitandolo poi a seguirmi lungo i corridoi per raggiungere la stanza di cui gli ho parlato. Sono certo che attirerà così tanto la sua attenzione da renderlo mansueto. Accecare chiunque con polvere di stelle, è il modo migliore di convincerlo a seguirti. “Come mai hai scelto questa facoltà?” Gli chiedo, piegando appena il capo nello scrutarlo mentre ripongo una sigaretta tra le labbra. Anche se non si può fumare tra le mura delle torri, è un dettaglio a cui solitamente non do conto. “E' roba da nerd, lo sai no?” Aggiungo poco dopo, muovendo il capo ed indicandomi poco dopo. “Con qualche eccezione, ovviamente.”

177 replies since 25/5/2020
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