Posts written by Amy Lee~

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    Amy
    Faccio sgusciare la mano dalla tasca e la porto alla spalla per sistemare la borsa pericolosamente in bilico. Ben decisa a tenere alto l’interesse del biondo Serpeverde, gli rivolgo un sorriso ammiccante mentre avanzo a passo spedito verso il portone di legno semi aperto, assicurandomi con un’occhiata fugace ai suoi movimenti che abbia deciso di seguirmi. Stuzzicare la curiosità nell’altro richiede una certa dose di spregiudicata malizia di cui non sono certa di disporre, ma non posso perdere l’opportunità di scambiare con lui qualche battuta circa l’oggetto in questione. Mi lascio quindi affiancare, e volgendo le spalle all’aula di incantesimi ci incamminiamo lungo il corridoio in penombra, la flebile luce delle torce che proietta lunghe ombre sul pavimento in pietra. Mentre il fruscio dei mantelli accompagna l’eco dei nostri passi, mi ritrovo a fantasticare per un istante su una nuova visita alla foresta, questa volta a seguito di un piano elaborato in maniera più scaltra per evitare tediose punizioni. Portare l’unicorno a lezione aveva come unico scopo quello di racimolare qualche informazione rilevante sulle sue potenzialità, ma l’idea di utilizzarlo di nuovo non mi aveva minimamente sfiorata. Un’allettante possibilità che ora, invece, sta lentamente prendendo forma nella mia mente, dapprima come un’idea fumosa dai contorni indefiniti, per poi acquisire consistenza man mano che la conversazione con Alexander procede.
    «A dire il vero ho infranto più volte il regolamento.» Asserisco sovrappensiero, le iridi ancora intente a sondare l’immagine della foresta che la mente mi ha riproposto. Al ricordo della presenza silenziosa alle mie spalle un brivido mi corre lungo la schiena, riscuotendomi infine dai pensieri in cui sono sprofondata. Alexander al mio fianco mi rivolge un sorriso gioviale, che ricambio tornando a prestare attenzione alle sue parole, che sembrano piuttosto interessate. Scosto i capelli dal viso con un rapido movimento del capo e torno ad affondare entrambe le mani nelle tasche della divisa, assecondando il ritmico movimento delle gambe. Una nuova repentina occhiata al mio interlocutore è sufficiente a convincermi che possa essere un degno accompagnatore in quella seconda avventura nella foresta. Ne scansiono i lineamenti delicati, come a voler individuare i segni di una scaltrezza che sono certa lo caratterizzi. È chiaro dal modo deciso in cui si pone e dall’irriverenza del suo tono che Alexander è il compagno adatto a scortarmi nuovamente là dentro. Una convinzione, la mia, che assume a poco a poco i tratti di una proposta che sto quindi per formulare, quando le parole del biondo mi frenano bruscamente la lingua. La Dea bendata pare abbia deciso di strizzarmi un occhio quest’oggi, perché il ragazzo mi comunica senza troppi giri di parole il suo interesse a prendere parte alla spedizione. Un sorriso compiaciuto si allarga prepotente sul mio viso, mentre la mano del ragazzo scivola lungo la mia figura in movimento arrestando la sua corsa intorno al mio polso. Mi fermo quindi, interrompendo il mio incedere lungo il corridoio semibuio ed assecondando il gesto di Alexander. Gli occhi celesti cercano i suoi, in cui si specchiano le fiamme rossastre delle torce alle mie spalle: non vi è segno di beffa, il ragazzo appare sincero.
    «Allora abbiamo qualcosa in comune.» Esordisco senza perdere il sorriso, in riferimento alla passione del biondo di architettare piani per aggirare le regole scolastiche. «Infatti non ti nego che questa» scosto i capelli dal busto rivelando la spilla da prefetto «sia una gran scocciatura.» Tamburello la superficie liscia con l’indice, guidando lo sguardo del Serpeverde all’altezza del mio petto. Continuo a pensare che l’unica nota positiva di avere una spilla del genere appuntata alla divisa sia l’accesso al bagno dei prefetti, di cui recentemente faccio largo uso. Diversamente, quell’inutile cerchietto di metallo porta con sé nient’altro che seccature, come le ronde notturne o le ripetizioni agli studenti in difficoltà.
    «Allora abbiamo un piano, direi.» Aggiungo soddisfatta liberando il polso dalla sua stretta ed offrendogli la mano da stringere, in un simbolico patto. «Promettimi che non dirai a nessuno che una prefetta ti ha proposto una gita nella foresta, ed io in cambio ti faccio usare l’unicorno in miniatura come meglio credi.» sussurro avvicinando il capo alla figura longilinea del Serpeverde, di parecchi centimetri più alto di me. I quadri del castello sono famosi per spifferare ogni dettaglio delle conversazioni tra studenti, così cerco di raggiungere il suo orecchio senza che le mie parole vadano oltre, arrivando a quelle indiscrete degli abitanti delle pareti.
    «Quindi conosci qualcuno con un mantello?» Un’espressione stupita si fa largo sul mio viso, mentre riprendiamo ad avanzare lungo i corridoi. Raggiunte le scale arresto di nuovo il passo, posando le dita sul corrimano. «Senti, io per oggi ho finito con le lezioni, e non ho compiti né consegne per domani. Inoltre il tempo è stranamente buono, quindi pensavo.. se la persona che conosci è disposta a darci una mano, che ne dici di andarci direttamente ora?»
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    Amy
    Acciuffo l’unicorno saltellante prima che sparisca oltre il bordo del banco, stringendo la criniera soffice tra pollice e indice. Un paio di nitriti di disapprovazione prima di tornare docile, ammansito dalle mie carezze. Faccio scorrere le dita lungo la schiena sinuosa che ricalca alla perfezione i tratti dell’originale, lisciandone il pelo candido leggermente scompigliato dai saltelli agitati. Arya, accanto a me, lo osserva incantata mentre le spiego come ne sono venuta in possesso, il petto che quasi si gonfia per poter esibire un oggetto di fattura tanto pregiata. Sulla sua utilità nutro ancora forti dubbi, che non paleso alla Grifondoro dagli occhi da cerbiatta per non far scemare la curiosità che ne fa brillare lo sguardo.
    «Puoi accarezzarlo, se vuoi. Non morde.» Glielo porgo allungando la mano verso di lei, gli occhi chiari stregati dalle movenze aggraziate della bestiola prima di liberarla davanti ai palmi aperti della ragazza. Sono sul punto di palesarle i miei dubbi circa il suo utilizzo, decisa a raccontarle di quell’unica volta che l’ho studiato attentamente in compagnia di Rose e Kyky, ma le parole mi muoiono sulle labbra, interrotte sul nascere da una voce fuori campo. Il biondo Serpeverde che credevo assorto nei propri pensieri si intromette a gamba tesa nella conversazione, senza nascondere di aver già udito la restante parte. Sbuffo contrariata, avrei preferito che quella rimanesse qualcosa di simile ad una confidenza non avendo idea delle proprietà dell’oggetto, ma d’altronde è stato un mio errore discuterne in una classe ancora semipiena, di cui ora pago le ovvie conseguenze. Frasi, le mie, che non mi stupisco possano stuzzicare la curiosità di un arrivista della casata di Salazar. Nella mia mente prende subito forma l’immagine di una figura verde-argento intenta ad imbottigliare il prezioso sangue argenteo per farne un uso scaltro. Le mie iridi guizzano quindi in direzione del nuovo arrivato, che identifico come Alexander. Ne studiano per alcuni istanti l’espressione, registrando una curiosità che tenta di dissimulare con scarso impegno. In fin dei conti mi inorgoglisce essere in possesso di qualcosa di potenzialmente raro tanto da far invidia agli occhi avidi di un Serpeverde. Si sa che i membri di quella casata si scomodano difficilmente, a meno che non fiutino un’irrinunciabile opportunità. Nascondo quindi un sorriso compiaciuto mentre le mani tornano a catturare il piccolo unicorno.
    «No che non ricamo!» Aggrotto la fronte, colta di sorpresa da una domanda così fuori contesto. Tento invano di trovare un collegamento tra un’attività da elfo domestico e la capacità dell’oggetto di guidarmi verso la sua controparte reale. La mano sinistra affonda tra i capelli chiari, alla base della nuca, ad espressione della sottile sensazione di disagio che si insinua nel mio petto ogni qualvolta non colgo appieno il senso delle parole dell’altro. Devio quindi il discorso, recuperando il sorriso entusiasta.
    « Dato che è chiaro tu abbia sentito il resto del discorso.» Un velo di stizza che nascondo dietro un colpetto di tosse. « Si, non è un modello per ricamo.» Asserisco, avendo infine compreso la ragione della sua domanda, figlia di un orecchio poco attento che ha mal interpretato la mia spiegazione ad Arya. Il sorriso sulle mie labbra si allarga, dissipando del tutto il fastidio per l’intromissione del biondo. In fin dei conti non posso lamentarmi di aver di fronte qualcuno animato dalla mia stessa curiosità. In un certo senso mi rivedo nei suoi occhi celesti, attratti dal modellino che gentilmente gli porgo affinchè possa valutarne le fattezze. Avrei proseguito con la spiegazione se la Ramirez non ci avesse scoccato uno sguardo interrogativo dall’altro capo della stanza, ancora intenta a riordinare il materiale della lezione. L’occhio inquisitore di un Auror è l’ultima cosa di cui ho bisogno in questo momento, conscia che con tutta probabilità mi requisirebbe l’oggetto. Ritiro quindi la mano, che non raggiunge mai quelle tese di Alexander, e la infilo lesta nella tasca della divisa, facendo sparire il piccolo unicorno tra le pieghe del tessuto. Getto uno sguardo verso Arya, che nel frattempo ha aperto il libro di Incantesimi. «Torno in dormitorio, ti spiego più tardi a cena.» Non intendo distrarla ulteriormente dallo studio, quindi torno a volgere il capo verso il biondino mentre recupero velocemente libri e pergamene sparsi sul tavolo. L’occhiata indagatrice della Ramirez mi ha convinta che questo non è un buon posto in cui parlare, quindi mi avvio verso i corridoi, affiancata da Alexander che suppongo abbia avuto lo stesso pensiero.
    «Mi è stato recapitato senza alcun biglietto dopo una gita nella foresta volta proprio a cercare un esemplare di unicorno. Non ho ancora avuto modo di utilizzarlo, ma sono abbastanza sicura che serva a quello scopo, ecco. Altrimenti perché inviarmelo?» Gli spiego, abbassando la voce per non farmi udire dai quadri alle pareti. «Il motivo per cui non l’ho ancora testato è che non voglio prendermi un’altra punizione. La Rei mi ha già beccata a gironzolare nella foresta, e ho pulito i bagni del quinto piano per un intero weekend.» Ammetto con uno sbuffo stizzito. L’immagine del patronus della Preside m’incendia per un istante le iridi, prima che la scacci con un rapido movimento del capo. «Servirebbe un mantello dell’invisibilità, o un quantomeno saper castare un buon incantesimo di Disillusione.» Sussurro, più a me stessa che al ragazzo accanto a me.
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    Amy
    Il repentino cambio di tono del biondo fa vacillare per un istante la mia ritrovata spavalderia, congelando il sorriso beffardo che ho dipinto sul volto in una smorfia dai contorni incerti. Finora l’ho lasciato condurre il gioco, peccando forse di ingenuità nel credere che la sua bacchetta fosse mossa solo da buone intenzioni. La verità è che ha visto in me la cavia perfetta: giovane, inesperta e del tutto ignara del potere che gli ho deliberatamente concesso di esercitare. Mentre mi squadra con le braccia conserte dall’altro capo della stanza, percorro con lo sguardo i lineamenti del suo viso, risalendo lungo il profilo fino ad incontrarne gli occhi chiari che trapassano la mia figura come fosse priva di consistenza. Sembra guardarmi ma senza realmente vedermi, perso tra pensieri che non mi palesa ma che azzardo comunque a decifrare. Se c’è una cosa che ho capito di Lionel è che ama avere il controllo. Lo brama come un mago oscuro il prezioso sangue di unicorno. Sulla situazione, sulla mia mente e su di me. Ama vedere come il mio corpo reagisce al suo calcolato approssimarsi, con le guance che si tingono spontaneamente di cremisi e lo sguardo che corre veloce al pavimento. Da quando gli ho consegnato le chiavi della mia mente mi ha tenuta in scacco, soggiogata da un potere che difficilmente posso contrastare. Ammaliata dalla scaltrezza del biondo, ma conscia allo stesso tempo che il mio orgoglio non possa essere ulteriormente calpestato, azzardo un paio di frasi provocatorie, atte a ripristinare l’equilibrio tra noi, ora sbilanciato verso una situazione che volge a suo vantaggio. E’ però una risposta gelida quella che mi raggiunge, lasciandomi inevitabilmente interdetta. Convinta di aver preso il suo posto a condurre quel gioco a tratti pericoloso, la sua irremovibile freddezza che pone fina alla mia baldanza mi cristallizza in una posa innaturale, i piedi incrociati e le mani incastrate nelle tasche sul retro dei jeans. Il suo menefreghismo mi colpisce in piena faccia come uno schiaffo, costringendomi ad arretrare, ma non ancora a battere in ritirata. Non ha bisogno di nessuno, mi dice, necessitando quindi di palesare la propria durezza d’animo. Devo aver seriamente attentato al suo orgoglio per aver causato una reazione tanto brusca. Rimango quindi in silenzio, lasciando che sia il biondo a proseguire, recuperato quel controllo che tanto fatica ad abbandonare. “Potresti prestarmeli tu, in effetti. Perché no.” Rifletto per un istante sulle sue parole, estrapolandole da un contesto in cui hanno un significato diverso, volto a farsi beffe di me e della mia scarsa conoscenza in materia. “O potresti darmi lezioni tu. Se conoscessi la teoria, forse sarei più brava con la pratica”. Una nuova proposta, ancor più azzardata della precedente, se possibile. “Se mi spiegassi come identificare i ricordi emotivamente importanti, forse potrei io stessa indicarti dove dirigerti quando sei nella mia testa”. Sfilo le mani dalle tasche dei jeans ed incrocio le braccia al petto, mimando la posa difensiva che lui stesso ha assunto. Prima ancora che la mia audace richiesta finisca d’esser formulata, Lionel scioglie le braccia e prende a camminare intorno a me, come un leone che accerchia la sua preda, pregustandola prima di avventarcisi famelico. Si arresta poi, di nuovo a pochi centimetri dalla mia figura. È uno scambio, a suo dire equo, quello che mi offre: contratta la mia richiesta di entrare nella sua mente con qualcosa che ritiene essere altrettanto appetibile. “Come faccio ad essere sicura che tu risponda seriamente?” Incarco scettica un sopracciglio, scoccandogli un’occhiata inquisitoria. “Altrimenti finisce come per il segreto di prima, puoi inventarti una risposta qualunque e io non saprò mai se corrisponde a verità”. Di nuovo quell’ardita spavalderia torna a colorire le mie parole. Il rischio che la partita si chiuda così è alto. L’ammonimento di Lionel risuona come un allarme nella mia testa, ma non per questo decido di cedere senza prima provare a combattere. Pongo quindi le mie condizioni, manifestando un dubbio lecito che chiedo implicitamente allo stesso Lionel di sciogliere. È un’espressione torva quella che vorrei rivolgergli, mentre i nostri visi sono di nuovo ad un’irrisoria distanza, ma riesco solo a piegare gli angoli delle labbra in un sorriso di prematuro trionfo. E’ innegabile che in fondo io mi stia divertendo, almeno quanto il biondo dinnanzi a me.
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    Amy
    Mi rigiro l’unicorno in miniatura tra le dita dopo averlo fatto scivolare dal sacchettino in pelle che lo conteneva. Ne carezzo delicatamente il capo, così ben intarsiato da replicare fedelmente quello della sua copia in carne ed ossa. Al mio tocco la sua rigida muscolatura, congelata nell’atto di levarsi sulle due zampe posteriori, si scioglie e la piccola bestiola, ora animata da una magia invisibile, saltella imbizzarrita sul mio palmo. La osservo compiere un paio di cerchi prima di arrestare la sua corsa e volgere il muso argenteo verso di me, intercettando coi suoi piccoli occhi scuri i miei, immancabilmente sgranati per la sorpresa. Sono passati parecchi mesi dall’ultima volta che l’ho estratto dalla custodia concedendogli di scorrazzare per la stanza. Gli avvenimenti che mi hanno vista sia come protagonista che come tacita spettatrice in questi ultimi mesi hanno completamente assorbito la mia attenzione, relegando a una zona recondita della mia mente tutto il superfluo. Come il mistero che ha sempre aleggiato intorno a questo piccolo unicorno, per esempio. Mi sdraio sul letto senza nemmeno levarmi le scarpe, affondando il capo nel cuscino ed incrociando i piedi sopra la spalliera, così da non toccare la coperta con le suole. La memoria va a ripescare l’esatto istante in cui un insolito portatore di lettere – un corvo nero – aveva bussato alla finestra della mia stanza con estrema insistenza. Legato alla sua zampa vi era l’oggetto in questione, meticolosamente impacchettato in un involucro argentato ma privo di mittente. Solo poche persone conoscono la mia curiosità, a tratti quasi ossessiva, per gli unicorni, ed in una sola occasione ho avuto modo di palesare il mio interesse a qualcuno, che pare essere stato risucchiato dalle viscere della terra perché totalmente irreperibile da mesi. Fatico a immaginare che sia stato lui ad inviarmi la missiva: troppo pieno di sé per spostare le proprie attenzioni su una tassa qualunque. Mi piace pensare che sia un fortuito scherzo del caso, una sorta di segnale divino che mi invita a non frenare la mia proverbiale curiosità anche dinnanzi al divieto di varcare i confini della foresta. Nemmeno la punizione inflittami dalla Rei dopo la mia prima, ed unica, incursione al suo interno è stata in grado di spegnere il mio entusiasmo, che come una debole scintilla che ancora cova sotto le ceneri aspetta solo di essere nuovamente alimentata. Tale onere è spettato al qui presente unicorno tascabile, che mesi fa riaccese l’interesse spingendomi per una seconda volta al limitare del bosco. Questa volta furono i Thestral e la drammatica reazione di Rose a frapporsi di nuovo tra me e l’obiettivo, sancendo definitivamente la fine delle mie ricerche. Presa da questioni ben più importanti di queste, ho poi dimenticato la mia personalissima missione, fino ad ora perlomeno. Come un tarlo che lentamente scava nel legno, così l’idea di tornare di nuovo a visitare quel luogo proibito ha piano piano eroso il mio subconscio, palesandosi solo ora, in una luminosa mattina di dicembre. Ecco il motivo per cui ho ripreso dal cassetto l’esserino animato: quest’oggi abbiamo Incantesimi con Krueger e vorrei mostrarglielo per avere un suo parere. Il Professore di Incantesimi è il meno bacchettone del corpo docenti, anzi, quell’aria perennemente svampita gli ha conferito la nomea di simpatico burlone, quasi fosse uno studente un po’ troppo cresciuto. Non ho quindi timore a domandargli se sappia qualcosa di oggetti come questo, con la speranza che funga da richiamo per la sua controparte reale. Scopro, però, con mio sommo disappunto che il Professore in questione è stato sostituito da un’Auror, a cui non chiederei nemmeno dove si trovano le toilettes, per inciso. Rinuncio quindi a soddisfare la mia curiosità, seguendo con scarso interesse la lezione del giorno dal mio banco in ultima fila. Al termine della stessa estraggo l’animaletto dalla custodia e lo lascio libero di correre tra libri e fogli di pergamena sparpagliati davanti a me. Arya, al mio fianco, lo segue con lo sguardo, senza nascondere un’espressione interrogativa. “Mi è arrivato per posta qualche mese fa”. Le spiego facendo spallucce. “E’ un richiamo per unicorni” azzardo, rendendo la mia voce nulla più che un flebile sussurro.
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    Amy
    “Arya, Heidi!” Accosto le due Grifondoro ancora sedute al loro tavolo in Sala Grande, d’accordo di andare insieme verso l’aula di pozioni. Senza quell’appuntamento ormai fissato, avrei con tutta probabilità scambiato l’ora di pozioni con un’ora di lettura in riva al lago o abbandonata in poltrona in Sala Comune. Ultimamente mi è sempre più difficile convogliare l’attenzione sulle parole dei docenti, la mente distratta da pensieri che hanno poco a che vedere con le materie scolastiche. Percorro insieme alle due ragazze la scalinata che conduce ai sotterranei, frenando l’impulso di deviare all’ultimo e dirigere i miei passi verso il dormitorio. L’aula non è ancora gremita di studenti, ma la Stojnov è già ritta in piedi dietro la cattedra, intenta a predisporre l’occorrente per la lezione di oggi. Incrocio per un istante gli occhi di Daisy mentre perlustro con lo sguardo l’aula alla ricerca di tre posti a sedere. Un cenno del capo in direzione del mio goffo concasato in un ultimo banco prima di procedere verso la terza fila, ancora completamente vuota. Avrei optato per una postazione meno in vista, ma mi obbligo a comportarmi da studentessa modello quale ero fino a qualche settimana fa. Mi lascio andare mollemente sulla sedia, lanciando ai miei piedi la borsa con i libri. Scelgo di appostarmi dietro al biondo Serpeverde del primo anno, convinta che almeno la sua chioma sarebbe riuscita a nascondermi dalla vista della Stojnov se avessi deciso di abbandonare la testa sul banco per qualche istante. La osservo comporre qualche parola alla lavagna, seguendo la scia biancastra lasciata dal gessetto, mentre cerco di recuperare dalla memoria qualche vaga nozione sul decotto in questione. Sono sicura di averlo già letto da qualche parte, anche solo per via di quel nome così curioso. Ecco, ho di nuovo dimenticato di fare colazione ora che ci penso, e una porzione di tiramisù sarebbe cosa assai gradita. “Se non sbaglio bisogna stare attenti coi dosaggi. È pur sempre una medicina, oltre che una pozione, e se assunta in elevate quantità può trasformarti in una specie di teiera arrabbiata” trattengo un risolino al pensiero della teiera impazzita di un cartone babbano visto con Rose.

    Amy Lee Russell - II anno - Tassorosso
    Interagito con Arya, Heidi. Nominati Daisy e Alexander. Risposto alla domanda.
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    Amy
    Sgrano per un istante gli occhi celesti mentre il fiato caldo di Lionel mi solletica la base del collo. Una risposta coerente con la mia metafora giunge in un sussurro al mio orecchio, procurandomi un brivido lungo la schiena. Mi scosto quindi di un paio di centimetri, sfuggendo a quel fugace contatto come se il corpo del ragazzo si fosse improvvisamente fatto incandescente. La verità è che per una frazione di secondo il mio cervello ha smesso di pensare a lui come al Legilimens in grado di sondare la mia mente, investendo le sue parole di tutt’altro significato. Sarebbe bastato ruotare di poco il capo per incontrare le sue labbra, prossime com’erano alle mie. Quell’istante di precoce confidenza non ha fatto che alimentare in me il desiderio di scostarmi da lui, di ripristinare quella distanza che avrebbe consentito di proseguire con serietà il lavoro. È quindi con riluttanza che assecondo quanto il cervello mi comanda, mentre il corpo sarebbe volentieri rimasto a pochi millimetri dal suo, pronto per essere investito da un nuovo brivido. Un sospiro mi sfugge dalle labbra mentre entrambe le mani affondano nelle tasche dei pantaloni. Sento il bisogno di ristabilire gli equilibri così da rendere quello un confronto tra pari, sebbene sia consapevole della difficoltà di tale impresa. Nulla è in mio potere per mettere Lionel a nudo tanto quanto ho fatto io con lui, preda del suo incanto ben riuscito, ma tentar non nuoce. Così esibisco un sorriso scaltro, o almeno così spero che appaia all’altro, mentre articolo una proposta piuttosto insolita. Chiedergli di rivelarmi un suo segreto è il modo esplicito con cui gli faccio capire che per proseguire il lavoro sarebbe dovuto essere un do ut des. È vero che sono stata io ad andare da lui, ma è anche vero che il mio obiettivo era il docente del corso, non il più preparato dei suoi allievi. Ho acconsentito a fargli da cavia, ma questo avrebbe avuto un prezzo, che fino ad ora il biondo dinnanzi a me non ha ancora pagato. Avrei potuto essere più astuta e avanzare una proposta meglio congeniata, ma come spesso accade bocca e cervello non agiscono in sincrono, lasciando che la prima idea che mi è balenata in testa venisse tradotta a parole. Nervosa, catturo il labbro inferiore tra i denti mentre i miei occhi chiari corrono lungo il profilo di Lionel per captarne la reazione. È un’espressione incredula quella ad animargli lo sguardo, seguita da un monito velatamente perentorio. “Vero, io ho bisogno di te, ma anche tu hai bisogno di me” azzardo, liberando il labbro arrossato dalla stretta morsa dei canini. Cede poi, forse convinto dalle mie parole, o forse mosso dalla curiosità di proseguire il percorso, bloccato dalla mia nuova reticenza. Abbassa lo sguardo in una palese simulazione di imbarazzo per poi concedermi di conoscere il suo segreto, che ha piuttosto il sapore di un ben mascherato esibizionismo. Non vi è candore nelle sue parole, bensì un misurato disagio, accentuato da un sorriso timido che mi rivolge dopo aver terminato il racconto. L’ultima frase, in particolare, tradisce il reale sentimento provato in quella circostanza, risalente ormai a diversi anni addietro. Sebbene deduco si riferisca alla soddisfazione provata da docenti e caposcuola nel coglierlo in fallo, il tono con cui me lo comunica cela una sorta di orgoglio prepotente, che reprime a fatica per non far crollare la maschera da bravo ragazzo. “E questo sarebbe il tuo segreto?” sbuffo aggrottando la fronte. “Ma fammi il piacere” aggiungo poi, dando il cinque alla sua mano tesa verso di me. “Si vede lontano un miglio quanto vai fiero di quella prestazione. Si ok, non sarà stato piacevole farvi beccare da tutta quella gente, ma sono piuttosto sicura che il tuo ego ne abbia soltanto giovato”. Non so quale assurda convinzione guidi le mie parole, ma in quel frangente sono sicura di beccarci, di essere sulla strada giusta. Nemmeno per un istante mi coglie il dubbio di aver frainteso il biondo di fronte a me. Troppo sicuro di sé, troppo capace di giocare con l’altro sesso per essere uno che si formalizza in una situazione del genere. “Fammi entrare nella tua mente per un secondo” sentenzio infine, cercando i suoi ammiccanti occhi blu. “So che puoi farlo, ho letto di questa cosa in un mucchio di libri e me lo ha confermato una mia amica, il cui padre è Legilimens come te”. A dire il vero non ho la più pallida idea di quel che sto dicendo. Se ho letto davvero qualcosa in merito, di certo me lo sono già dimenticata, quindi in pratica sto bluffando. Avanzo quindi di un paio di passi, recuperando la vicinanza con Lionel. “Allora?” lo incalzo, mentre un pugno chiuso s’infrange come una debole onda contro il suo tricipite.
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    Mi mordo nervosamente il labbro inferiore mentre decido se confessare a Rose il totale fallimento della vacanza con Niels. Non so esattamente cosa mi trattenga dal farlo, Rose è discreta e non è certo il tipo che rigira il coltello nella piaga. La verità è che ci sono un mucchio di cose che la tassorosso non sa, non perché non sia meritevole di fiducia quanto più perché sono io stessa piuttosto restia ad aprirmi. Curioso come il mio essere socievole sia comunque associato ad un animo introverso, per nulla propenso ad esporsi e svelare i propri sentimenti. Decido quindi di sputare rapidamente la confessione, come se fosse una medicina amara che fatico a trattenere sotto la lingua. Snocciolo in poche frettolose parole il racconto della settimana trascorsa insieme, prendendo un profondo respiro non appena le mie labbra finiscono di articolare la confidenza. Non è stato così difficile, tutto sommato. Rose ha un’espressione assorta e i suoi grandi occhi da cerbiatta mi comunicano più di quanto non facciano le sue parole di incoraggiamento. Non saprei dire se è di questo che ho bisogno. Non aver fatto breccia nel cuore dell’olandese credo mi abbia resa meno sicura di me nel campo delle relazioni con l’altro sesso, un timore che nessuna parola rassicurante riesce a dissipare. Incrocio comunque lo sguardo della ragazza ed è un cenno di riconoscenza quello che le rivolgo, lieta per non aver prolungato la conversazione ponendomi domande curiose. “Sei sempre troppo gentile, tu” tiro le labbra in un sorriso mentre entrambe le mani si tuffano tra le nuvole di schiuma per lanciare qualche batuffolo di sapone sul viso della ragazza. “E si, mi merito il meglio” ripeto con aria sognante fissando per istanti interminabili i riflessi dorati sui mosaici vetrati alle pareti. “Hogwarts è piena di ragazzi fighissimi, in effetti. Anche molto più belli di Niels” mi convinco che sia così, annuendo con vigore alle mie stesse parole. Viro poi su altri temi, abbandonando il discorso ragazzi e chiedendo alla mia concasata come abbia trascorso le vacanze estive. Solo qualche scambio di gufi ci ha informate delle reciproche vicissitudini, ma si sa, la distanza che crea la pergamena è incolmabile e non stimola la confidenza. Ne ho avuto un assaggio, direi, finendo per raccontare solo oggi di Niels sebbene sia passato ormai un mese. Rose mi ha sempre parlato di casa sua come di qualcosa molto simile ad un riformatorio. Non è mai scesa nei dettagli ma non serve un diploma di MAGO per capire che il divertimento non regna sovrano nelle giornate trascorse tra quelle mura. Non ho mai visto un vero entusiasmo accenderle lo sguardo mentre parla di casa White e del rapporto con suo padre. Quest’ultimo, poi, vorrei proprio conoscerlo. Kynthia ha avuto il piacere e dal tono con cui lo menziona mi ha dato l’impressione di essere una di quelle persone che ti inceneriscono con lo sguardo se solo emetti un suono di troppo. Severo, dunque. Sebbene la domanda che le pongo sia piuttosto semplice, individuo nell’espressione di Rose uno scatto nervoso che mi avverte della sua difficoltà ad aprire quel capitolo. Le parole che seguono, infatti, non fanno che confermare il mio timore. “Certo che non dirò nulla, ci mancherebbe!” la rassicuro appoggiandomi con la schiena al bordo della vasca. Quello che mi confida ammetto non mi turba più di tanto, in quanto coincide con l’immagine burbera del padre che ho nella mia testa. Un padre padrone che vuole comandare a bacchetta la figlia. “Intanto ti dico che hai fatto bene. A fare la cazzata, intendo. Anche se le conseguenze non sono andate a tuo favore. Merlino solo sa quanto tu avessi bisogno di trasgredire le regole!” schietta come mio solito non posso far a meno di dirle ciò che penso. “Ti ha messa in punizione come tutti i padri stronzi, ma questo non deve per nulla al mondo farti perdere la voglia di fare altre cazzate, ok? Hai diciassette anni, è questo il bello. Dire bugie ai genitori, sentire l’adrenalina correre nelle vene. Indipendentemente dall’esito, non è stato bello vivere, per una volta?” le domando cercando il suo sguardo dubbioso. Non è forse la reazione che si era aspettata, ma non voglio in alcun modo che Rose si chiuda come è solita fare solo perché il padre l’ha beccata a scappare di casa. “Ma soprattutto, con chi sei scappata?” aggiungo con una vena di malizia nella voce.
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    Amy
    Col fiato corto mi infilo le dita ancora tremanti tra i capelli, tirandoli oltre la fronte. Un gesto automatico che ha lo scopo di farmi recuperare un briciolo di lucidità prima che il mio cervello dia al corpo un nuovo comando: attaccare l’intruso. È una rabbia cieca quella a farmi serrare i pugni quel tanto da far sì che le unghie lascino un solco ben visibile nella carne. Rabbia nei confronti del biondo che sghignazza soddisfatto a un paio di metri da me, ma non solo. Mentre avanzo con una risolutezza che solitamente non mi appartiene, realizzo quanto io sia stata miope circa l’esito di quell’esperienza, chiaro a chiunque fuorchè a me. Non è tanto l’immagine di me ed Axel avvinghiati in una stretta tutt’altro che casta a turbarmi, quanto più l’incoscienza con cui l’ho venduta al ragazzo che ora ne ride beffardo, prendendosi gioco del mio imbarazzo. Non sono stata in grado di recuperare il controllo della situazione, ed è questo ciò che più ora mi affligge. È quindi con passo sicuro che brucio i metri che mi separano da Lionel, fino a raggiungerlo e colpirlo con quei pugni che avrei diretto più volentieri a me stessa. Come immaginavo, i miei colpi deboli lo sfiorano appena, non innescando alcuna reazione se non una nuova, piccata battuta rivolta al mio viso sconvolto. “Fanculo” borbotto arricciando gli angoli della bocca in una smorfia contrariata, ma cedendo alle sue mani che si stringono rapide intorno ai miei polsi. Impacciata, ecco come reputa la mia performance. Un’ondata di fastidio mi fa pizzicare le gote, inducendo il mio guardo a puntare non più in alto del suo petto. E se lo stesso Axel avesse avuto la medesima impressione? Ero convinta di essermela cavata piuttosto bene, mascherando la mia inesperienza dietro gesti che si facevano più sicuri via via che il contatto tra me e il bulgaro si protraeva. Ancora assorta nella contemplazione di quel frammento di immagine, non oppongo resistenza quando il biondo mi tira a sé con delicatezza. Scuoto il capo, scostando i ciuffi chiari dal viso, prima di alzare gli occhi ad incontrare i suoi, stupendomi di trovarli privi del solito guizzo malizioso. La sua espressione è ora pregna della stessa serietà che nemmeno un’ora prima mi aveva convinta a concedergli l’accesso ai miei pensieri più reconditi. Mi arrendo quindi alle sue parole, trovando in esse quella verità che fatico ad accettare. Mi sono offerta a lui: l’agnello che bussa alla porta del lupo chiedendo di entrare tra le sue fauci. Cos’altro potevo aspettarmi? Non è il desiderio di prendersi gioco di me ad aver guidato le sue perlustrazioni, solo il reale interesse ad andare a fondo di un problema. “Lo so” ammetto, le mani ora libere che affondano nelle tasche dei jeans. “Lo so che non lo hai fatto apposta, è solo che non immaginavo” lascio la frase in sospeso allontanandomi di un passo da lui, lo sguardo fisso al pavimento. Risale poi lungo le pareti, cercando le ampie finestre e perdendosi nella vegetazione che si intravede oltre i vetri leggermente appannati. Il suo tono è persuasivo, quasi suadente, e mi convince che la strada intrapresa non sia poi così sbagliata. È senz’altro meglio che sia lui e non un anziano professore a trovarsi di fronte il mio corpo seminudo, sebbene sia una situazione che non auspico ricapiti. Scocca le ultime parole come un dardo, anticipate da un silenzio misurato che ne amplifica la forza. La paura di essere difettosa, e di rimanere tale per il resto dei miei giorni dipinge sul mio viso un’espressione di ineffabile sgomento, che tento invano di celare al biondo producendo un paio di leggeri colpi di tosse. Il timore che le visioni possano peggiorare, ingabbiandomi in una realtà artificiale fatta di immagini a me sconosciute e da cui mi è impossibile evadere, mi spaventa assai più dell’idea di mostrare a Lionel una me disinibita. Mi faccio quindi coraggio, e torno ad approssimarmi a lui, vincendo il desiderio di fuggire per sempre da quella stanza e dai suoi penetranti occhi azzurri. Chissà se lo sguardo di tutti i legilimens è come quello di Lionel: un mare profondo in cui annegare. Quando è poco più di qualche centimetro a separarci, azzardo una confidenza, che quasi gli sussurro all’orecchio sebbene sia troppo in basso per raggiungerlo. “E’ la stessa sensazione che proverei se mi stessi spogliando nuda davanti a te, ma tu rimanessi vestito” scelgo una similitudine che poco si discosta dallo scenario che gli si è presentato dinnanzi agli occhi, come a voler inconsciamente rimarcare il senso d’impotenza provato nel sottostare alla sua magia, a cui la mia intimità non è sfuggita. “Facciamo un patto, io ti lascio entrare di nuovo nella mia mente solo se tu mi dici qualcosa di molto imbarazzante che ti è successo”. Un’idea piuttosto infantile quella che gli propongo e di cui mi pento nell’immediato istante in cui le mie labbra finiscono di articolare la frase. Le mordo quindi, nervosa, conscia che di lì a poco il ragazzo mi indicherà la porta e mi suggerirà per la seconda volta di superarla e sparire da lì.
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    Raddrizzo il busto sulla sedia e mi passo una mano tra i capelli per riacquistare un aspetto vagamente ordinato. Mi sarei detta più turbata dall’intromissione di Lionel tra i miei ricordi, ma l’espressione rassicurante che ha dipinta in volto, unita al tono affabile con cui commenta il risultato, fa scivolare via l’imbarazzo provato nel rivivere la scena con Daisy. È un vago rossore quello che si diffonde sulle mie guance quando il biondo mi rivolge una lusinga priva di alcuna malizia, atta solo a dissipare il velo di imbarazzo che per un breve istante mi paralizza il volto, ancora incerta se ridere dell’accaduto o fuggire via per sempre dalla sua bacchetta esperta. Opto quindi per la prima, ed incoraggiata dal suo educato complimento mi lascio andare ad una risata limpida che si mescola con quella di lui, calda e spontanea. “Grazie” mormoro infine, quando il viso è tornato ormai del suo pallore originale e l’eco delle nostre risate si perde nella stanza. Lo osservo avanzare ancora una volta verso di me, ancorata alla sedia alla quale il mi ha relegata per procedere meglio con il suo lavoro. Si china poi, la sua figura che torreggia prepotente sulla mia schiacciata contro lo schienale, mentre entrambe le sue mani cingono i braccioli. In qualsiasi altra situazione un gesto del genere mi avrebbe fatto sentire in trappola, ma quello di Lionel trovo abbia un fine diverso, quasi protettivo nei miei confronti. Mi tiene in pugno con tutte le armi in suo possesso, ma non per questo lo considero una minaccia, anzi. Nelle fiabe babbane lui sarebbe senz’altro il lupo cattivo sapientemente travestito per portarmi nella sua tana dove mi avrebbe fatto sua in poche rapide mosse. Invece no, imperterrita continuo a navigare con incoscienza in quelle acque placide, certa che nessuna tempesta si nasconda dietro l’angolo. È con tono suadente che si rivolge quindi a me, il viso a pochi centimetri dal mio mentre i suoi occhi chiari cercano avidi i miei per stabilire un contatto. “Si, l’unico dolore lo avverto qua” sussurro facendo scivolare l’indice all’altezza della tempia. “Questi..viaggi..mi fanno sentire un po’ confusa. Come se non fossi più totalmente padrona di me stessa, ma dopotutto c’è un intruso nella mia testa”. Brevi frasi rivolte più a me stessa che a lui, mentre mi ritrovo ad analizzare ad alta voce la sensazione provata quando io e Lionel ci siamo fusi per qualche istante in un’unica entità. “Non è facile rilassarmi..così” inarco un sopracciglio rivolgendo un’occhiata allusiva al corpo del biondo a pochi centimetri dal mio, le sue mani ancora fermamente salde ai braccioli. Se da un lato non ritengo fastidiosa quell’invasione del mio spazio privato, dall’altro il suo busto chino sul mio mi fa perdere l’ultimo briciolo di concentrazione rimasto dopo il primo viaggio nella mia mente. È quindi con un eloquente cenno del capo che gli faccio segno di scostarsi, non prima però che questi rimuova con tocco delicato una ciglia dalla mia guancia. “Bene allora” ripristinata la distanza originale mi schiarisco la voce e intercetto gli occhi celesti di Lionel. “Sono pronta, questa volta cerca di evitare i ricordi imbarazzanti, non sono quelli che stiamo cercando!” lo punzecchio azzardando una strizzata d’occhi, che mi costa immancabilmente un lieve rossore sulle gote. Un’audacia, la mia, che spesso vacilla quando ricordo la poca confidenza che io e il biondo abbiamo. Se è vero che ormai lui conosce abbastanza di me, non posso dire lo stesso del viceversa dal momento che non vi è uno scambio equo tra noi. Lui è il medico ed io la paziente, in un certo senso, e non è prevista in alcun modo un’inversione dei ruoli. La formula che pronuncia mi coglie non più impreparata, so a cosa sto andando incontro e tento di agevolare il suo perlustrare senza sosta tra i cassetti della mia mente. È nell’interesse di entrambi arrivare alla soluzione del problema il prima possibile: per lui sarebbe un traguardo accademico di non poco conto, mentre io potrei finalmente dare un nome al fenomeno che ha luogo fin troppo spesso nel mio cervello. Lo spettro di Lionel avanza questa volta deciso, mosso da una sicurezza che forse prima non possedeva. Scivola fluido nel lungo corridoio, sbirciando di tanto in tanto i frammenti di ricordi che man mano gli si presentano e scartando rapidamente quelli che ritiene di poco conto. Indirizza infine le proprie mire verso uno in particolare, che brilla argenteo a pochi passi dalla sua figura onirica. Man mano che vi si accosta distinguo i contorni di ciò che quel brandello cela, ed inorridita realizzo essere qualcosa che non voglio assolutamente che Lionel veda. Mi dimeno silenziosamente sulla sedia trattenendo gli occhi chiusi e serrando la mascella in un’espressione nervosa. Vorrei gridare, urlare a quella figura che scivola leggera nella mia mente che quel ricordo è privato, ma come in un incubo la mia volontà non è soddisfatta e la mia voce non riesce ad articolare alcun suono. Posso soltanto arrendermi al suo lento ma deciso avanzare, conscia di non poterlo escludere dalla visione di una me ammaliata dal bulgaro in riva al lago. Il frammento svela il nostro primo bacio, in cui mi rivedo meno impacciata di quanto pensassi. Le mani della me del passato scivolano smaniose sotto la camicia del moro a tastarne gli addominali definiti con crescente cupidigia, mentre le nostre labbra si cercano avide. So bene come continua la scena, e non è certo quello il ricordo di cui abbiamo bisogno. Sono certa che anche Lionel lo abbia capito, ma rimane imperterrito ad osservare la scena, con un sorriso beffardo stampato sulle labbra. Stringo con forza i braccioli sotto i palmi, le unghie che graffiano il legno nel tentativo di sottrarmi all’intromissione del biondo. Lotto con una forza invisibile che mi tiene agganciata alla sedia, riuscendo infine a liberarmi prorompendo in un urlo che squarcia il silenzio. Schiudo le palpebre e sbarro gli occhi, individuando il ragazzo a pochi passi da me. Mi rivolge un paio di frasi amichevoli nel tentativo di ironizzare su quanto appena visto, ma a differenza dell’episodio nel bagno dei prefetti, questo non avrebbe dovuto gustarlo con quel sorriso sornione dipinto sulla faccia. Spingo coi palmi sui braccioli per aiutarmi a ritornare in posizione eretta, ed avanzo quindi verso di lui con un’espressione cupa ad indurirmi il viso. “Ti stavi divertendo?” urlo, livida in volto, a meno di mezzo metro di distanza da lui. Lo sfido con lo sguardo, sebbene mi superi in altezza di almeno un paio di spanne. “Non sei qui per farti i fatti miei. Se ti interessa il gossip comprati un giornale, ma non frugare tra i miei ricordi alla ricerca di qualche scena piccante su cui sghignazzare!” Allungo poi le mani sul suo petto nel tentativo, vano, di dargli una spinta per rincarare la dose.

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    Rivolgo al ragazzo un sorriso poco convinto mentre quello si scosta da me di un paio di passi, gli occhi chiari che tradiscono la soddisfazione per la risposta ricevuta. Porto una mano dietro la nuca e abbasso di poco il capo, affondando le dita tra i capelli biondi e palesando così il lieve disagio che comincio a percepire non appena realizzo di avergli fornito la chiave per accedere alla mia mente. Tutti i miei segreti sono custoditi lì, in una cassaforte di cui nessuno conosce ancora la combinazione. Nessuno, prima di ora. In quel frangente, mentre gli occhi di Lionel risalgono lungo il mio profilo per cercare avidamente i miei, mi sento per la prima volta in vita mia impotente. Disarmata dinnanzi ad un potere che so per certo di non poter in alcun modo contrastare. Quando il ragazzo varcherà la porta che gli ho gentilmente concesso di aprire, l’azione sarà irreversibile poiché impossibile per me sarà impedirgli di accedere ai milioni di ricordi che si accalcano nella mia testa. Di lui, però, continuo a fidarmi senza valide ragioni per farlo, ammaliata dall’eleganza con cui si allontana ed avvicina a me, ora sistemandomi i capelli dietro l’orecchio, ora sfiorandomi la gamba con una delicatezza all’apparenza priva di malizia. Lascio quindi che i suoi occhi trovino i miei e per una frazione di secondo mi assale il dubbio che stia già utilizzando la magia su di me, tanto il suo sguardo è intenso. Poi il contatto si interrompe e il ragazzo torna a rivolgersi a me con il suo solito tono affabile, chiedendomi di non raccontare a nessuno ciò che faremo di lì a poco. Non che ci fosse pericolo, in verità. Sono ben decisa a tenere per me quest’assurda esperienza così come finora ho accuratamente evitato di raccontare ciò che da qualche tempo mi affligge. Di nuovo lo spazio tra noi torna a ridursi, accorciato dallo stesso biondo che dapprima mi cinge il fianco, per sussurrarmi poi che quegli incontri saranno il nostro segreto. Arrossisco appena quando il soffio delle sue parole mi solletica la base del collo. “Sarà il nostro segreto” ripeto in un fil di voce, confermandogli la mia aderenza al patto. Quello si allontana da me sfoderando infine la bacchetta, che ancora non punta verso la mia figura. Mi intima di sedermi ed io eseguo, obbediente. “Non mi farà male, vero?” l’idea che potesse essere doloroso non mi aveva sfiorato prima d’ora, ma le parole confortanti del ragazzo pare sortiscano l’effetto opposto, facendo sorgere in me il dubbio che ci sia effettivamente qualcosa di cui mi devo preoccupare. Istintivamente arretro lungo la sedia facendo aderire la schiena al legno alle mie spalle e portando quindi le gambe al petto. La seduta è sufficientemente larga da ospitare anche i miei piedi, così abbraccio le ginocchia e rassicurata da quella posizione torno a rivolgere le mie attenzioni sul biondo, che alza ora la bacchetta sul mio viso. Sta per pronunciare la formula che sancirà la fine dei miei segreti e ciò che provo a riguardo mi è difficile da descrivere. Da un lato sono eccitata all’idea che il nostro incontro sveli l’origine dei miei déja-vu, dall’altro le mie certezze traballano sapendo di consegnare nelle mani di uno sconosciuto le istruzioni per colpire i miei punti deboli. Mi mordo nervosamente l’interno delle guance prima di abbassare le palpebre, mentre con il cuore che tamburella prepotente nel petto mi lascio travolgere dalla scarica di adrenalina che ne accelera ancor più il battito. Qualche istante di silenzio poi la formula scandita dal biondo squarcia l’aria, facendomi sussultare. In una frazione di secondo mi ritrovo catapultata in un turbinio di immagini di cui non riesco ad afferrare le forme. I colori di tante scene diverse si mescolano in un quadro astratto dai contorni indefiniti. Navigo in questo mare caotico in attesa di una guida, che non tarda a giungere. Sebbene non mi sia visibile, avverto la presenza di Lionel che si insinua nel caos, riportando l’ordine. Un ordine che assume la forma di un lungo corridoio spoglio lungo le cui pareti viaggiano centinaia di ricordi alla velocità della luce. Lo lascio procedere, sia perché sono curiosa di vedere a quale ricordo si avvicinerà, sia perché nemmeno volendo saprei come porre fine alla sua avanzata. La solita, immotivata fiducia mi spinge a non opporre resistenza. Finalmente qualcosa di diverso da un frammento sbiadito prende forma davanti ai miei occhi. Il ricordo è recente e l’immagine di una Daisy furente con una me completamente calva e se possibile ancor più furente si allarga, occupando in poco tempo tutta la scena. Sprazzi del nostro litigio nel bagno dei prefetti giungono alle orecchie di Lionel, che sono certa se la stia ridendo. No, non è questo che voglio che lui veda, accidenti! Ha imboccato la strada sbagliata, non è lì che la sua bacchetta esperta doveva andare. Stizzita e profondamente a disagio mi dimeno sulla sedia, gli occhi ancora chiusi e le braccia a circondare le ginocchia in una morsa che sia fa via via sempre più stretta. È quando l’urlo di Daisy spezza il silenzio che mi ritrovo in un batter d’occhio catapultata nel mondo reale, col fiato corto e gli occhi sbarrati a fissare il vuoto davanti a me. Libero la presa delle mani e me le passo entrambe tra i capelli, tirandoli oltre la fronte in una manifestazione di palese sconcerto. È con reticenza che mi costringo ad alzare il viso su Lionel, che sdrammatizza con una battuta. “Una vera stronza, puoi dirlo sai, non si offende mica” mormoro pungente, mentre concedo ad un sorriso sghembo di tendermi le labbra. Tutto sommato poteva andare peggio. Vedere la scena da una prospettiva diversa ammetto che mi ha suscitato una risata divertita, ero veramente tremenda con quella pluffa lucida al posto della testa. “Carina, vero? Stavo pensando di rifarmi quel taglio” ironizzo a mia volta portandomi i capelli dietro le spalle con un gesto da vera smorfiosa. “Comunque si, sto bene. Però non credo che sia colpa di quell’episodio se ora mi succedono quelle cose” mostro la mia titubanza circa l’esito della sua magia. Dopotutto è solo uno studente, se avesse trovato al primo colpo ciò che cercava non sarebbe ancora in Accademia, no? “Se ti va e hai ancora un po’ di tempo ti chiederei di riprovare. E se c’è un modo per facilitarti il compito di prego di dirmelo”.

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    Il ragazzo mi segue a ruota dentro l’aula chiudendosi la porta alle spalle così da concederci la privacy di cui abbiamo bisogno. Dopotutto è della mia testa e del suo dubbio contenuto che dobbiamo parlare, quindi l’assenza di orecchie curiose pronte a captare ogni mia sillaba mi rasserena un poco. Lo scruto dall’alto della mia posizione, dondolando appena le gambe sollevate dal pavimento di diversi centimetri. La fortuna aiuta gli audaci, dicono, ed è così che mi sento in questo istante, seduta sulla cattedra di una scuola che mi accoglierà forse fra cinque anni. Mi auguro perlomeno che l’incontro con il biondino si riveli fortuito come credo, altrimenti dovrò inevitabilmente ripiegare sul piano b, chiedendogli di fissarmi un incontro col docente della materia. Ho il sentore, però, che non ce ne sarà bisogno. È un’inspiegabile fiducia quella che gli occhi celesti e i modi del ragazzo mi ispirano, creando fin da subito un clima di calda accoglienza che mi mette a mio agio, come se la conoscenza tra noi non fosse avvenuta solo qualche minuto prima. Lo osservo mentre avanza verso di me esibendo un sorriso soddisfatto, la cui origine deriva indubbiamente dall’aver trovato un pretesto per approfondire la materia a cui si sta appassionando. Gli restituisco lo stesso sorriso e mi inerpico nel sommario racconto delle mie visioni, dosando le parole affinchè non consideri fin da subito il mio un caso perso, spedendomi dritta dritta all’ospedale magico. Mi limito quindi a descrivere la sensazione che provo comparandola ad un comunissimo déja-vu. Il ragazzo mi lascia parlare, rimanendo in silenzio accanto a me con le braccia conserte. Avverto il calore del suo sguardo sul mio viso, già accaldato dallo sforzo del racconto, prima di schiudere finalmente le labbra per pormi alcune domande di circostanza. “No, sei la prima persona con cui ne parlo” ammetto, concedendo alla sua persona un’importanza che ancora non so se merita. Di nuovo, il suo tono comprensivo e l’espressione di delicata giovialità che mi rivolge mi convincono a proseguire con il discorso. I suoi occhi mi invitano ad andare oltre, a raccontare ciò che percepisce io stia ancora tenendo ben celato. “E’ esattamente come dici, una mattina mi sono svegliata e ho cominciato ad avvertire questi scompensi, insomma, ad essere protagonista di questi episodi strani. Non mi è capitato tante volte, ma ho come l’impressione che la frequenza di queste visioni si stia intensificando.” Mordo nervosamente il labbro inferiore mentre la mano destra corre ad afferrare una ciocca bionda per attorcigliarla febbrilmente. La sua spiegazione fila, io stessa attesto la validità della teoria che mi propone secondo cui visioni del genere si manifestano dopo uno shock o un evento particolarmente stressante. Faccio marcia indietro nei miei pensieri, riavvolgendo il nastro come se la mia mente fosse una grande videocassetta babbana. Non posso parlare di un vero grande shock, bensì di tanti momenti diffusi che hanno turbato la mia quiete, ma che ho con forza seppellito nei meandri nel mio cervello, relegando tali episodi ad un angolino talmente remoto da essermene quasi dimenticata. Già, perché è più semplice rimuovere il ricordo di un evento traumatico piuttosto che imparare a gestire il dolore che ne deriva. Ecco perché non ho parlato quasi a nessuno dei miei genitori, delle bugie di mia madre e del senso di smarrimento che dal giorno della sua confessione mi ha accompagnata. Che sia questo lo shock che menziona il biondo? Se anche fosse, stiamo parlando di qualcosa accaduto a marzo, è mai possibile che produca un effetto sulla mia psiche a distanza di così tanti mesi? Rimango quindi in silenzio, decisa, per ora, a non rivelare quest’altro pezzetto di me, perlomeno non prima che il biondo abbia terminato la sua disamina del caso. Faccio spallucce e tendo le labbra in un sorriso poco convinto, mentre l’altro diminuisce la distanza che ci separa. Sebbene io sia seduta su una cattedra piuttosto alta, la sua figura mi supera di parecchi centimetri così da avere il suo viso ad una spanna abbondante sopra il mio. Allunga poi la mano sinistra verso di me scivolando sulla mia coscia lentamente, come a misurare la mia reazione. Un vago rossore si diffonde sulle mie gote, ma qualcosa mi frena dall’interrompere quell’avanzare tanto delicato quanto fraintendibile. Sono al sicuro con lui, lo so, me lo sento. Anche l’altra mano si muove nella mia direzione, questa volta posandosi con garbo sul mio viso, per poi sistemarmi una ciocca di capelli dietro l’arco dell’orecchio. Abbasso lo sguardo alle mie ginocchia, mentre il ragazzo torna a parlare, abbassando appena il tono della voce, ora suadente. Se anche avessi voluto resistergli e negargli l’accesso ai miei pensieri, non sarei riuscita a divincolarmi dal suo sguardo penetrante, come ipnotizzata dai suoi occhi brillanti. È in questi che mi perdo mentre la mia bocca articola meccanicamente una risposta affermativa. “Sono pronta, fai quel che devi..Lionel” aggiungo infine, interrompendo a fatica il contatto visivo.

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    Dylan
    Il biondo mi squadra dall’alto del suo metro e parecchi centimetri più di me, ma non sembra arrabbiato. Ha piuttosto un’espressione rammaricata che gli curva leggermente verso il basso gli angoli delle labbra. Apparentemente il Professore non è tipo da trattenersi nel suo studio oltre l’orario delle lezioni prediligendo il ritorno a casa dai suoi..gatti? Che strano dettaglio quello che il biondo mi fornisce, ma forse è intimo con il docente e conosce le sue abitudini a menadito. In effetti il ciuffo spavaldo e l’occhio vispo possono trarre in inganno, donandogli un’aria sbarazzina da tipo che sa di poter conquistare una ragazza anche solo strizzandole l’occhio. Ma non è arroganza o sfacciataggine ciò che mi suggerisce il suo tono pacato e i suoi occhi in qualche modo rassicuranti, in cui mi perdo qualche istante prima di rinsavire e puntare i miei alla cattedra vuota. Essendo l’ultimo a uscire e non notando altri studenti nei paraggi deduco che il giovane è solo un forte appassionato della materia e che sfrutta ogni minuto per ripassare incanti e nozioni. Il tipico Corvonero insomma, saggio e al contempo sagace. Lieta di averlo rapidamente inquadrato e collocato in una precisa categoria, gli restituisco lo stesso sorriso affabile che mi rivolge, passandomi poi una mano tra le ciocche bionde per sistemare dietro l’orecchio una fuggitiva. Avverto i suoi occhi chiari perlustrare la mia figura, immagino per studiare chi ha di fronte come è solito fare chi sceglie questa specializzazione. Per un lungo, interminabile istante un dubbio paralizzante mi assale, congelando il mio sorriso in una smorfia atterrita. Che il biondo stia già scavando nei meandri della mia mente con un solo penetrante sguardo? Il timore che il mio cervello assuma la forma di un quotidiano da sfogliare mi allarma a tal punto che cerco di deviare i miei pensieri verso immagini neutre e non compromettenti, invano. Il suo viso angelico rimane ben stampato nella mia testa, come l’immagine di copertina di un’edizione speciale di Strega Moderna. Avverto un calore diffuso salirmi dal collo fino alle guance, e prima che quest’ultime si tingano di rosso pesco tra i ricordi un brandello di conversazione avuta con Jonas mesi prima. “Non è così facile entrare nella mente altrui, e a meno che tu non sia un mago molto abile e con una grande esperienza, è difficile che la persona di fronte a te non si accorga di ciò che stai facendo”. E il mago di fronte a me, per inciso, non poteva per ovvi motivi avere un’esperienza decennale in legilimanzia. Tiro un sospiro di sollievo e torno a restituirgli lo sguardo, ascoltando la domanda che nel frattempo mi pone. “No, sono ancora troppo giovane per iniziare gli studi in Accademia. Cercavo qualcuno di esperto per aiutarmi con un problema ” mi interrompo bruscamente lasciando cadere la frase nel vuoto. Se la prima impressione è quella giusta mi trovo al cospetto del primo della classe, letteralmente il braccio destro del Professore, come lui stesso sottolinea. Probabilmente fa le sue veci in aula quando è assente o interroga gli studenti agli esami finali. Posso dunque considerarmi fortunata ad aver incontrato proprio lui e non il somaro della classe. “Beh, se ti va di aiutarmi perché no” alzo le spalle, non vedendo motivo di rifiutare quell’offerta tanto generosa. Allargo le labbra in un sorriso tirato alla sua battutina sul ragazzo che mi piace, confermandomi una volta per tutte che non è ancora abbastanza bravo da frugare tra i miei pensieri più o meno impuri senza la mia autorizzazione. “Non troveresti granchè, comunque” mento mentre il viso di Axel mi compare davanti agli occhi come un flash. Lo scaccio con forza, non è il momento di rimuginare sul bacio che mi ha strappato sulle rive del lago. “Bene, se l’aula è vuota possiamo sistemarci qui” varco la soglia e mi siedo sulla cattedra, incurante del fatto che sia una mossa piuttosto audace, non essendo nemmeno una studentessa di quella scuola. “Ora ti spiego il problema, così mi dici se puoi effettivamente aiutarmi. Innanzitutto piacere, io sono Amy, ho sedici anni e studio ad Hogwarts” gli tendo una mano affinchè il ragazzo l’afferri. “Da qualche tempo ho delle strane visioni durante il giorno, anche se forse non è questo il termine più adatto a descriverle. Diciamo piuttosto che da qualche settimana mi capita di avere dei brevissimi blackout in cui il mio cervello mi mostra immagini di luoghi che non conosco e di persone che non ho mai visto. Sono sicura che non siano ricordi perché non ho affatto memoria di attimi del genere, ma in qualche modo mi risultano familiari. Ecco, hai presente i dèja-vu? La sensazione è più o meno la stessa. Hai mai sentito di fenomeni simili al mio?”. Una domanda che sottintende l’ardente bisogno di sentirmi dire che è tutto normale, non sono pazza e questi episodi hanno un nome preciso.

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    Dylan
    Se c’era una cosa positiva della stupida spilla che dovevo appuntarmi al petto ogni santo giorno era la possibilità che essa dava di accedere al bagno dei prefetti. Ne avevo sempre sentito parlare come di un luogo leggendario, tanto lussuoso da far impallidire i bagni dei reali d’Inghilterra, ma sebbene sia un asso nel cacciarmi nei guai l’anno scorso non ho mai tentato di forzare la serratura e sgattaiolare al suo interno. Curioso come mi fossi spinta fin nella foresta proibita ma non avessi pensato di raggiungere un luogo molto meno rischioso. Rose pare essere animata dal mio stesso entusiasmo perché alla mia proposta risponde con un sorriso a trentadue denti che le illumina il volto pallido. Sono riuscita a farla gioire per ben due volte questa sera, merito un premio! “Infilati il costume così siamo già pronte per tuffarci” le intimo rovistando nell’armadio alla ricerca del mio, salvo rendermi tristemente conto che la mia valigia è stata erroneamente scambiata con quella dell’anziana signora. Sbuffo contrariata, mi immergerò in mutande e reggiseno, tanto confido che saremo solo io e lei. E se anche dovesse affacciarsi qualche maschietto che sarà mai, alla fine sarà come avere indosso un costume col pizzo. Giungiamo al quinto piano, io con un po’ di fiatone a dire il vero. “Accidenti, dovrebbero inventare un sistema per arrivare fino in cima senza scalare l’Everest! Ogni volta mi sembra di aver corso una maratona” avere la Sala Comune nei sotterranei non è esattamente un vantaggio quando bisogna raggiungere i piani più alti del castello. Ci infiliamo quindi nella sala da bagno, ben attente a chiudere a chiave la porta alle nostre spalle, così da non rischiare l’arrivo di visitatori indesiderati. Quando finalmente do le spalle alla porta rimango accecata dalla luminosità dei marmi bianchi e dallo scintillio delle migliaia di rubinetti che affollano le pareti di un’enorme vasca già piena d’acqua bollente. Spalanco la bocca estasiata, per la prima volta lieta che la preside mi abbia insignito della carica di prefetto. “Figo eh?” volto il capo in direzione di Rose, la cui espressione è inebetita quanto la mia. La ragazza si tuffa per prima in quel turbinio di bollicine colorate e saponi profumati, mentre io termino di svestirmi per rimirarmi poi qualche istante allo specchio. Sono discretamente fiera del mio seno, cresciuto di due taglie tonde tonde durante l’estate. Faccio una piroetta per osservare il mio fisico senza vestiti e convincermi che non sono poi così male, tutto sommato non mi vergognerei se mai un ragazzo mi chiederà di mostrarglielo. Non dal nulla ovviamente, ma insomma, sono pronta a farmi vedere svestita da qualcuno che non sia Rose, mettiamola così. O Niels, che forse non aveva trovato sufficientemente attraente il mio corpo abbronzato. Quel pensiero mi rabbuia per qualche istante, annebbiando l’immagine di aitante sedicenne che mi ero costruita nella mente. L’incitamento di Rose a tuffarmi con lei mi ridesta, così scuoto la testa ed allontano i pensieri sul concasato. L’acqua calda mi accoglie come un abbraccio e le minuscole bollicine solleticano il mio corpo seminudo. Agito le mani sotto il pelo dell’acqua e scalcio con i piedi imitando i movimenti di una rana per raggiungere Rose al centro della vasca. “Odio anche io la spilla da prefetto” ammetto riallacciandomi al discorso lasciato in sospeso pochi minuti prima. “O meglio, sono felice di essere stata premiata, è comunque un bel traguardo da portare a casa, ma l’idea di dover fare il cane da guardia mi infastidisce parecchio. Io sono quella che nei guai ci si infila, figuriamoci se posso mai redarguire qualcuno che fa ciò che farei volentieri anche io.” Sbuffo contrariata, alla fine dubito terrò fede alla mia carica e continuerò comunque a finire in punizione per la mia eccessiva curiosità. “C’è di buono che se tu sei caposcuola almeno possiamo fare le ronde insieme la notte, il castello buio mi fa una paura folle” cerco di risollevarle il morale rivolgendole un sorriso d’incoraggiamento. “Perché la tua carica ti spaventa? Non credi di essertela meritata?” Rose è una studentessa modello, ligia al dovere e rispettosa delle regole, nonché intelligente e studiosa. Non riesco ad immaginare persona più titolata di lei per fare quel mestiere. Cambia poi argomento, vertendo la conversazione su temi più leggeri, come il mio viaggio in Spagna, “Oh si, un sacco di cose in verità. La paella, le tapas e la crema catalana ad esempio! Quest’ultima potresti replicarla, magari chiediamo la ricetta agli elfi nelle cucine.” Okay, è giunto il momento di sganciare la bomba, dopotutto non posso evitare il discorso all’infinito, specie ora avendomi servito l’occasione su un piatto d’argento. Traggo un respiro e afferrando il coraggio a quattro mani cerco gli occhi di Rose coi miei. “Niels è stato da me una settimana ma.. non è andata” la delusione bruciante per non aver fatto breccia nel suo cuore mi anima ancora adesso, anche se sono ormai passate settimane. “Ecco, non c’è molto da aggiungere in verità. Ci siamo divertiti molto, ma ho capito che possiamo essere soltanto buoni amici. Sarò un po’ in imbarazzo quando lo rivedrò, immagino..” arrotolo una ciocca di capelli bagnati intorno all’indice e curvo le labbra verso il basso in un’espressione rattristata. “Io..volevo che lo sapessi ecco, ma mi conosci, sai che non amo parlare dei miei problemi” già, di tutta la questione di mia madre, della bugia e della rapina alla Gringott non ho ancora parlato con anima viva, a parte Niels. “Ma parliamo un po’ di te ora! Tuo padre ti ha lasciato vivere un pochino o ti ha costretto a fare vita monacale per tutta l’estate?”

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    Dylan
    Estraggo la mappa dell’Accademia dalla tasca dei jeans e la liscio appoggiandomela sulla coscia. Secondo questo pezzo di pergamena stropicciata le aule di Psicomedimagia dovrebbero trovarsi alla fine del corridoio in cui mi sono infilata, ma non sono certa di averla interpretata nel modo corretto. Partiamo dal presupposto che non ho mai consultato una mappa e mi sono sempre affidata al mio fedele strumento magico per capire dove fosse il nord. Oggi, però, non mi trovo entro i confini della scuola ed essendo ancora minorenne non posso fare sfoggio delle mie abilità di strega sfoderando la bacchetta. A dire il vero non so nemmeno perché l’abbia portata con me dato che ha circa la stessa utilità di un qualunque bastoncino di legno. Avvertire la sua sagoma a contatto con la pelle nuda sotto gli strati dei vestiti mi infonde sicurezza. Non che tema di essere attaccata da un dissennatore fuggiasco o da un mangiamorte travestito da docente accademico, però non si sa mai. Così avanzo gettando sguardi timorosi ai quadri alle pareti e affacciandomi ad ogni aula vuota che incontro, sperando di leggere sulla targhetta un rimando alla specializzazione che mi interessa. A dirla tutta non so cosa sto cercando. So che può sembrare strano, ma sto davvero vagando in questo labirinto di corridoi senza una meta precisa. O meglio, la mia meta sarebbe una qualsiasi aula dove gli studenti imparano la nobile arte della lettura delle menti e dell’interpretazione della psiche e del subconscio umano. Ciò che non mi è chiaro, però, è cos’avrei fatta una volta giunta nel luogo designato. Come al solito agisco senza pensare e mi getto a capofitto in qualsivoglia situazione senza prima aver riflettuto sul piano da attuare. In questo caso specifico avrei potuto prima consultarmi con qualcuno, esporre il mio problema e sperare in una soluzione suggeritami per pietà o per gentilezza. Rose, ad esempio, sarebbe stata la confidente ideale a cui raccontare ciò che da qualche settimana a questa parte mi succede. Posso definirla l’ultima di una lunga serie di stranezze che si sono materializzate nella mia vita da quando ho cominciato a frequentare Hogwarts. Prima fra tutte l’inaspettata bugia di mia madre, nonché la menzogna in cui mi ha fatto vivere per quindici lunghi anni: mio padre biologico non è quello che da tutta una vita ho chiamato papà. Non credo riuscirò mai a perdonare mia madre per questa infame scorrettezza, seppur motivata da buone intenzione, a detta sua. Una bugia bianca, come quelle che si raccontano ai bambini quando la mamma ha dimenticato di comprar loro le caramelle. ‘Al supermercato erano finite, te l’avrei presi altrimenti, figurati se mamma si dimentica’. Ecco, figuriamoci se mamma si dimentica di confessarmi la vera natura dell’uomo con cui condivide il letto. Tutto quello che è successo dopo tale rivelazione ne ha dell’incredibile e ha contribuito a rendere le mie notti agitate. Contrariamente a quanto il mio carattere festoso ed esuberante lascia intendere, sono dannatamente riservata e di questa situazione ne ho fatto parola solo con Niels, fermamente decisa a non riversare su terzi il mio scoramento. Anche ora, dopo che l’equilibrio precario faticosamente raggiunto è stato nuovamente sovvertito, ho preferito tenere per me i miei dubbi e piuttosto risolverli con le mie sole forze. Il punto è che credo di essere pazza. Non pazza d’amore o pazza per lo sport, proprio pazza pazza. Nell’ultimo paio di settimane il mio cervello ha pensato fosse divertente restituirmi un’immagine del mondo circostante del tutto diversa da quella registrata dai miei occhi. Mi sono sentita come uno di quei film babbani improvvisamente interrotti dallo spot pubblicitario, e sono sicura che questa non sia una cosa normale, nemmeno per un mago. Le uniche persone con cui mi sarei confrontata sono i miei genitori, ma considerando che non parlo con mia madre da marzo e che mio padre non so nemmeno chi sia, beh direi che la soluzione più ovvia è gestire tutto quanto da sola. Ecco perché mi trovo qui, anche se forse il San Mungo sarebbe il luogo più adatto ad accogliermi. Temevo che ascoltando il mio problema i guaritori mi avrebbero presa e sbattuta in un lettino scricchiolante, quindi ho optato per chiedere aiuto a qualcuno che si occupa di studiare la mente umana. Svolto l’angolo ed ecco che finalmente l’aula che cercavo mi accoglie in tutto il suo splendore. Faccio per tirare la porta quando quella si apre di scatto, rivelando una figura maschile dall’espressione accigliata. Il mio cuore salta un battito alla vista del ciuffo biondo del giovane, ma per fortuna non appartiene a Jonas. Scuoto il capo e recupero un briciolo di lucidità prima di replicare alla domanda del ragazzo. “Io, si, beh..” tentenno, la bocca impastata fatica ad articolare le parole. Mi schiarisco la voce e riprovo. “Si, volevo parlare con il Professore, avrei bisogno di una consulenza” gettando lo sguardo nell’aula mi rendo conto essere completamente vuota. Delusa, torno a posare gli occhi sul viso pulito del biondo, che ora mi scruta perplesso. “Sai dirmi dove ha lo studio o dove posso trovarlo per scambiare due parole?”

  15. .

    Dylan
    Ma questo da dove viene? Nemmeno sa che le magie possono nascere anche spontaneamente, senza che il mago in questione brandisca la bacchetta. “Strano che tu non la sappia, in genere a tutti noi è capitato di compiere magie involontariamente da bambini, quando quella si manifesta ma non siamo ancora in grado di padroneggiarla.” Lo scruto di sottecchi domandandomi se non sia effettivamente un nato babbano, in tal caso sarebbe giustificato a non conoscere questa particolarità. Rimane il fatto che si tratta pur sempre di un Corvonero, e tutto mi aspetto fuorchè non sia informato circa il mondo che lo circonda. Non dovrebbero essere dei divoratori seriali di libri? Mi convinco che debba essere l’eccezione che conferma la regola, così scrollo le spalle e metto un punto a quella conversazione: abbiamo affari più urgenti da sistemare, come la mia testa semipelata, per esempio. Ciò che mi propone non è tanto di farmi ricrescere le mie amate ciocche quanto più di pareggiare il lavoraccio fatto dalle fiamme di Daisy. Se attualmente somiglio ad un campo arato male, come lui stesso sostiene, al termine dell’opera assumerei le sembianze di quell’omino corpulento dei detersivi babbani. Senza tutti quei muscoli, ovviamente. Esamino il mio profilo allo specchio, resistendo all’impulso di urlare tutta la mia rabbia alla vista di quello scempio. “Fanculo la moda babbana, rivoglio i miei capelli” asserisco asciugandomi un accenno di lacrima che si affaccia all’angolo dell’occhio. Non è il momento di piangere, non davanti al mio compagno perlomeno. Mi ha già preso sufficientemente in giro, non gli darò la soddisfazione di etichettarmi come Amy, la pelata e piagnucolona tassorosso. La soluzione temporanea che mi propone mi sembra valida, così lo lascio armeggiare nella borsa per estrarre un foulard coi colori dei Corvonero. Trattengo a stento una risatina in quanto l’immagine di quel moretto assai virile infagottato in un foulard mi suscita ilarità. “Carina” commento allargando gli angoli della bocca in un mezzo ghigno. “Assieme alla gonna della divisa sono certa farai un figurone” la frecciatina mi sfugge dalle labbra e lo colpisce in pieno mentre stende la sciarpa e me la avvolge intorno al capo a mò di turbante. Sono certa avrà colto l’ironia della frase, sebbene una punta di acidità di troppo abbia condito le mie parole. Almeno si dà da fare e devo ammettere che il risultato finale è tutt’altro che deludente. “Sembro la moglie di uno di quei magnati del petrolio che vivono negli emirati arabi” commento rimirando la mia figura allo specchio. Il ragazzo non ha tutti i torti: l’immagine che lo specchio mi restituisce è meno disastrosa di quanto mi aspettassi. I lineamenti armoniosi del mio viso, quasi perfettamente simmetrico, sono valorizzati dalle forme morbide del turbante. Magari in futuro prenderò in considerazione tale acconciatura per qualche festa a tema, ma non è questo il momento di fare la vanitosa nel bagno dei prefetti. Il ragazzo mi fa segno di seguirlo verso il suo dormitorio, così gli trotterello al fianco evitando per quanto possibile gli sguardi degli studenti che ci passano accanto lungo i corridoi. Alcuni mi guardano e ridacchiando si voltano a parlottare con il compagno, mentre altri non cessano di rivolgermi occhiate stranite. Ma dico, nessuno ha mai visto una ragazza con un turbante in testa? Che maleducati! All’ennesima occhiata divertita arresto il passo e blocco il ragazzo con una mano, costringendolo a voltarsi verso di me. “Senti, sono davvero così brutta? Sii sincero, le vedo le occhiate che mi rivolgono tutti quanti, proprio non capisc..” le parole mi muoiono sulle labbra quando abbasso lo sguardo ai miei piedi e scorgo le mie infradito rosa là dove ci sarebbero dovute essere delle scarpe. Salgo con lo sguardo lungo le gambe, costatando che l’orlo del vestito è decisamente troppo in alto perché caviglie e polpacci sono scoperti. Okay anche le cosce sono nude..vuoi vedere che…ho dimenticato di rivestirmi! Come diamine mi è venuto in mente! Ho lasciato la divisa nel bagno e mi sono messa a percorrere mezza scuola con addosso soltanto un costume sgocciolante. “Al mio tre corriamo” lo guardo negli occhi, non c’è più tempo per tornare indietro e recuperare il resto delle mie cose, significherebbe fare l’ennesima sfilata per i corridoi, tanto meglio arrivare il prima possibile nella tana dei corvi. Lo seguo arrancando e inciampando nelle ciabatte. Saliamo un paio di scale e ci prendiamo almeno una decina di insulti dagli abitanti dei quadri alle pareti, svegliati dalla nostra folle corsa. Solo quando si ferma, ed io di conseguenza, mi accorgo che siamo su una delle torri. “Non avevo idea che abitaste quassù! Ci dev’essere una bella vista” constato lanciando un’occhiata fugace alla finestra.

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