run cried the crawling

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    Ho portato avanti per mesi un nuovo paradosso. Una finzione dentro la finzione. Un impiego di riscatto incastrato tra le pareti strette di un benessere di cui le medicine mi illudono. Nella calma della cura, nel sonno delle emozioni, nel taciturno sussurro di parole inespresse, ho visitato villa Hollingsworth con frequenza assidua, trattenuta in orari precisi, sotterfugi, fughe studiate, compiti mai svolti davvero. E' iniziata con lentezza, con un'inconsapevolezza che la mia mente era capace di reggere. Pian piano si sono però palesate ai miei occhi realtà diverse, una fetta di mondo con cui non avrei mai creduto di avere a che fare. E nonostante le mie mani pulite da oscenità che scovo a metà, la mia coscienza si sporca dello stesso veleno che ha infettato Harvey per anni. Comprendo il desiderio di fuggire di cui le sui iridi scure sono impregnate, tasto le catene che lo ancorano a questa squallida prigionia. L'Hollingsworth mi ha permesso di esentarmi da incarichi che, giunti alle mie orecchie, stridono con i miei ideali, quelli puri che non riconosco, sotto i pesanti macigni di una negatività ed un'avversione per il mondo che si palesa ora più che mai come una menzogna del cazzo. Al contempo mi ha costretto al silenzio. Non un fiato su quella storia, sugli abomini che mi circondano ogni volta che metto piede alla villa. Non con i suoi, né tantomeno con lui stesso. Si è forse aspettato che nulla di quella faccenda mi toccasse direttamente; io mi sono affidato a quella certezza, alla premura letta con facilità nei suoi intenti apparentemente bruschi. Non è stato sufficiente. Non abbastanza da evitare il momento di cui adesso sono vittima. Quando a seguito dell'ultimo incarico di cui gli è toccato occuparsi il ragazzo si è allontanato, sono rimasto solo in quella casa, vagante in un corridoio gelido che racconta la superficie di un affare peggiore di quanto potessi immaginare. E' una porta semiaperta a richiamare la mia attenzione, la svista di un elfo domestico che pagherebbe, se smascherato da me medesimo, per l'errore compiuto. Col sangue. Ma è da quello spiraglio che strani versi raggiungono le mie orecchie. Lamentele, grida sofferenti, mugugni che accendono la mia preoccupazione, sebbene in nessuno di quelli riconosca il timbro di Harvey. E' una porta che non avrei dovuto attraversare, un mistero in cui non avrei dovuto ficcanasare. Ma percorro quello che sembra il freddo, sporco cunicolo di una cantina, che si riscopre il campo di battaglia di uno smercio abominevole. ‹ Ma che cazzo...? › I miei occhi puntano l'una e l'altra figura, catene vere a braccarli contro un muro, piaghe che infestano i loro corpi scarni e coperti di pochi stracci vecchi. Una visione raccapricciante, che fa salire nell'immediato una nausea ingombrante alla mia bocca. Trattengo a stento un susseguirsi di conati, prima che la mia figura venga intercettata dall'elfo che, supplichevole, mi prega di uscire da quella sala. ‹ Cazzo, che roba è? Liberali immediatamente! › Un monito furioso, dettato dall'ingenuità, dal disgusto, dal nervosismo che quella visione ha indotto. Qualcosa di irrazionale, un istinto che non trova riscontro nella logica. E come potrei appellarmi ad essa, in un momento come questo? ‹ Porca puttana... › Sussurro incredulo, in una ripetitiva cantilena che si unisce ai miei occhi lucidi, allo sguardo spaesato. Terrorizzato. Ma è mentre un susseguirsi di immagini del passato scorrono per la mia mente, quella di un Harvey carceriere fuori di sé in primo piano, e le mie mani si apprestano a cercare la bacchetta per agire con innata sprovvedutezza, che dei passi svelti e pesanti raggiungono le mie spalle, intrappolandomi nella situazione più surreale che abbia mai vissuto.

     
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    E’ strano averlo a casa. Vivo con il costante timore possa succedergli qualcosa di brutto - tra queste mura non sarebbe così irreale - eppure non riesco a lasciarlo andare. A volte mi capita di osservarlo in silenzio mentre la mia mente è bombardata da pensieri che non capisco e non accetto. Se mia madre potesse guardarmi dentro, mi aggiungerei probabilmente alle vittime in cantine e quando nel mio inconscio si fissa l’ipotesi di essere sbagliato, il benessere lascia spazio ad un’agitazione incontrollabile. L’idea di essere un abominio mi repelle. Solitamente la metto a tacere con un po’ di polvere bianca. Chiuso nella mia stanza, tiro su un po’ di felicità e l’adrenalina che mi scorre nelle vene annienta ogni altro pensiero. Lo faccio anche oggi. Mi nascondo nella mia camera, mi nascondo da Drayton e da ciò che mi provoca, concedendomi una parentesi di pace. Così immagino possa essere. Presto però mi ritrovo a ricredermi. Quando raggiungo il salone e più lontano il corridoio che porta a parti di questa villa che non dovrebbero esistere, mi coglie un senso d’angoscia. Paura oserei definirla. Vedere la porta dello scantinato aperto mi toglie il respiro. Provo a richiamare Drayton prima di fiondarmi di sotto, ma quando non ricevo risposta, corro a perdifiato.
    Tic toc, è il rumore delle lancette che mi pesano sulla testa. Tempo. Mi sembra di non averne più. Ogni passo sembra rallentato mentre scendo le scale a due a due. I miei genitori potrebbero essere qui da un momento all’altro e quel punto cosa accadrà? Lo so cosa accadrà. Dinanzi agli occhi, mentre supero gabbie di inumanità, vedo sangue, catene. Vedo la sua testa bionda lontana dal suo corpo. Quando finalmente lo vedo, lo afferro per un braccio in malo modo, strattonandolo per richiamarlo a me. “Sei sordo o pazzo?” Pazzo. Folle. Morto. Ignoro quello che dice mentre mi coglie un ingestibile senso di panico. Le mani fisse alle tempie e il respiro accelerato ne sono un chiaro esempio. “Fanculo.” Un calcio al muro incurante del dolore.
    “Perchè sei venuto qui?” Glielo urlo rosso in viso, lo sguardo lucido quanto il suo. Mi tremano le mani mentre lo riafferro con violenza. Non gli darò modo di liberarsi, non se lo può permettere. Non posso permettermelo. “Stai zitto.” Gli intimo mentre provo a trascinarlo via di lì. Un calcio all’elfo domestico prima di afferrare anche lui per la collottola. “ZITTO.”

    Chiusi in stanza ragiono sul da farsi. Darwin è qui. Sono stato io a richiamarlo cercando supporto. Mentre Jonas è sigillato nella mia stanza, io sono nel bagno della mia camera a parlare con il mio socio cercando una soluzione mentre mi sciacquo il viso cercando di calmarmi. “No. Lui non dirà nulla. Te lo assicuro.” Rispondo così alle sue ingiurie, alla possibilità che Alexander vada in giro a spifferare ciò che ha visto mettendo in pericolo se stesso. E quando si offre di sistemare le cose, a modo suo ovviamente, lo spingo contro la parete di mattonelle. Un rumore chiarisce l’impatto. “Non osare. Devi lasciarlo in pace. Me ne occupo io!” E’ l’unico modo che ho per poterlo salvare. Devo provarci almeno. Darwin però non si placa. Offre la possibilità terribile di una risoluzione definitiva ed io lo colpisco con un pugno, mentre la mano contro il suo collo chiarisce quale sarebbe la mia reazione dinanzi ad un atto simile. “Tu provaci soltanto e ti giuro che ti uccido. Ci sono quasi riuscito una volta, no? Posso rifarlo.” Lo caccio via dal bagno, dalla stanza. Me ne occupo io. Me ne occupo da solo. Non ho bisogno di nessun altro.

    Lo raggiungo, il labbro spaccato dalla breve discussione con Darwin. Non mi frega un cazzo del dolore, è Drayton il mio obiettivo ora. Lo raggiungo. So che sarà poco collaborativo, lo conosco, ma farei di tutto per convincerlo a non fare cazzate. “Drayton, tu non hai visto nulla, okay?” Provo ad avvicinarmi, le mie mani alla ricerca delle sue braccia. “Ascolta le mie parole e guardami, per favore.” Una supplica. E’ a questo che sono arrivato prima ancora di sentirlo parlare. E’ il timore di vederlo sparire che mi annienta. E’ la paura che gli Hollingsworth mi hanno sempre intimamente trasmesso a farmi sembrare come ciò che non sono stato mai: impaurito.
    “Tu sei sempre rimasto qui a fare quello che ti avevo chiesto di fare. Fine.” La mia voce trema appena mentre il mio sguardo ancora cerca il suo e le mani si stringono nella presa, quasi a volerlo tenere qui, vivo. “Per favore per favore per favore. Non avere strambe idee. Non fare pazzie.”






     
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    Realtà. Diventa un concetto strano quando si ha a che fare con scenari dalle sembianze incerte, incognite di senso quanto di pragmatismo, logica, lucidità. Tra le ciglia umide di un'incertezza sferzante, il gelo dell'anomalia che mi si para dinanzi a riempire le iridi chiare di tempestoso sgomento, mi ritrovo all'improvviso sigillato in una camera, forse nell'ennesima prigione cui approcciarmi nella mia vita, fatta di silenzi e segreti, con sbarre di rovente fiducia che non avrei modo di scavalcare. Dal bagno adiacente alla camera, ulteriori prove del surrealismo cui Harvey stesso è blindato giungono alle mie orecchie. Lento, socchiudo le palpebre per non permettere ad alcuni inspiegabili tonfi di lasciar sobbalzare il mio equilibrio. Ascolto una conversazione, dettata dalla medesima unica voce. Lascio scorrere tra le trame del presente il rimbombo di ricordi a cui non ho mai dato un nome, né una spiegazione. L'ho ricercata in un'intimità sdrucciolevole, qualcosa che forse il tempo ha scalfito nelle disgrazie che ha seminato. Ed in fondo come si può decretare un colpevole? Perché vestire l'Hollingsworth dell'amaro sfondo su cui ha dovuto muoversi per tutti questi anni? Quando tutto tace, i passi dell'altro innescano una nuova graffiante melodia. Quella della supplica, una richiesta affranta quanto violentemente cedevole, che si fa spazio oltre la porta aperta, gli affanni di un Harvey in parte malconcio, compromesso più dall'accaduto inciso nelle sue pupille che dai visibili graffi riportati. ‹ Harvey, devi dirmi cos'è. › Le nostre voci si sovrappongono, come i suoi tentativi di tenermi scontrano quelli di sciogliermi dalla sua presa. ‹ No, cazzo, non lo farò! Ti sembra umano ciò che ho visto?! › Ed altri dinieghi, altri "no!" prepotentemente urlati cercano di sovrastare le sue suppliche, fino a quando di quel teatrino pietoso non mi va stretto. ‹ Cazzo, smettila! › Ricerco il silenzio, disperatamente. Ho tanto bisogno di farmi ascoltare quanto, soprattutto, di ascoltare lui. Allora chiamo il time out, per entrambi, lasciando che una calma relativa metta a freno la rispettiva agitazione covata nel cuore di entrambi. A lottare tra loro, i desideri di entrambi che sperano sino all'ultimo attimo non vi sia coinvolgimento alcuno in quella storia. Un'incognita per Harvey, ma una partita già persa per me, cosciente lui, in quel clima da incubo, ci sia cresciuto. Forse persino nato. ‹ Ho visto delle persone, degli esseri umani, in catene, Harvey. › Sono mie adesso le suppliche, la voce preoccupata pregna del bisogno l'Hollingsworth faccia un passo indietro per osservare il mio punto di vista. Per analizzare i miei limiti umani, solo per un attimo, prima che i suoi vengano accolti tra le mie mani, insieme col carico di pesantezza e sofferenza che posseggono. ‹ Capisci cosa significhi? Io... come credi che dormirò la notte? Dovrei vivere facendo finta di niente? › Uno sfogo misero, egoista, personale. Un vomito di paure che altrimenti si tradurrebbero in pianti, risvolti eccessivi dettati dalla rabbia che i farmaci tengono a bada per la maggiore. E solo adesso sollevo gli occhi, riavvicinandomi a lui, rimanendo sotto il suo mirino, sotto una sua potenziale presa, per aprire gli occhi almeno su una parte di quel malessere che non mi ha mai confidato. ‹ Quanto ne sei coinvolto? › Abbastanza da non poterne venire fuori? Troppo perché io possa metterlo in salvo?

     
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    Panico. Poche volte ne sono stato vittima. Generalmente, sono io ad avere il controllo, o così mi piace credere. Quando la paura aumenta e l’ansia comincia a rendere opaco il mio mondo, faccio ricorso a mezzi che mi aiutano ad essere vivo, energico. Sprezzante della paura e del pericolo. In questo momento non servirebbe a nulla, nè riesco a perdermi nell’inconsapevolezza del pericolo. Non ora che c’è di mezzo la vita di Drayton. Potrei fregarmene, come ho sempre detto di fare, ma il timore di quel che potrebbe accadergli se i miei genitori sapessero della sua irruzione nelle segrete, mi toglie il fiato. “Chiudendo gli occhi e ringraziando il cielo di non essere qui o morto. Perché se parlerai la fine che farai sarà esattamente questa.” Diretto ed incauto. Non voglio indorare la pillola, ora non avrebbe più senso. Non posso nascondergli l’ovvio senza rischiare di spingerlo ad una reazione avventata. Tutto ciò che posso fare è dirgli la verità e sperare che questo basti a tenerlo lontano da questo mondo. Da me. "Drayton, per favore.” La mia voce si piega in un sussurro mentre i miei occhi impauriti cercano appoggio nel suo sguardo chiaro.
    Scuoto il capo, osservando oltre il muro dietro il quale l’ho condotto per assicurarmi che siamo ancora soli. Ci metto un po’ a rispondere alla sua domanda. “Cosa cambia saperlo?” Gli dico infine. Sapere quanto e come sono coinvolto in questa macchina letale, non mi scagionerà dal male che ho fatto e che mi porto addosso come una cicatrice, nè lo salverà dalle mire dei miei genitori. “Basta, vieni via da qui.” Lo afferrò per il braccio, conducendolo oltre un passaggio sotterraneo che dovrebbe condurci all’esterno, in una terra apparentemente abbandonata. “Io lo so che non puoi capire e capirò se vorrai andartene e scappare lontano. Anzi ti invito a farlo. Sarò io a coprirti. Ma non dire nulla a nessuno. Ti prego. I galeoni che ci sono in gioco metterebbero a tacere anche gli auror più diligenti e tu e la tua famiglia finireste male.” Verità. Sono stati pochi i momenti in cui mi sono concesso di dirla. Ora la dico a lui. Spero potrà servire a qualcosa. Mi fermo, lo guardo. Le mie mani toccano il suo viso cercando un contatto che possa fungere da catalizzatore per le mie parole. Un tocco che possa indurlo a credere alle mie parole. “Non è una cosa che si può combattere o da cui puoi scappare. Io lo so bene e devi fidarti di me. E’ l’unica cosa che ti chiedo.”


     
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3 replies since 6/8/2022, 11:48   115 views
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